Giova ricordare ancora il premio Nobel per la Fisica che il 10 dicembre 2011 venne conferito agli astrofisici Saul Perlmutter, Brian P. Schmidt e Adam G. Riess «per la scoperta dell’espansione accelerata dell’Universo, attraverso le osservazioni di supernovae distanti». Una metà dell’importo totale (che è di circa un milione di euro) è andata a Perlmutter, l’altra metà a Schmidt e Riess. Nello scorso numero Piero Galeotti ha spiegato il ruolo svolto dalle supernovae in questa vicenda, citato esplicitamente nella motivazione del premio. Qui vorrei ricapitolare il cammino che ha portato alla scoperta ed esaminare qualche prospettiva dell’astrofisica del futuro.
Dal più recente…
I vincitori erano a capo di due progetti avviati a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta: il Supernovae Cosmology Project (SCP) e l’High-z Supernovae Search Team (HZT). Entrambi portarono, in modo indipendente e concordante, a un risultato sorprendente: l’Universo sta accelerando il ritmo con cui si espande.
I tre studiosi misero a punto un’efficiente procedura per scoprire e studiare un particolare tipo di supernovae, dette di tipo Ia, che possono essere considerate come “candele standard”. Gli articoli con cui annunciarono alla comunità scientifica le loro inaspettate quanto importanti conclusioni risalgono al 1998 e al 1999. Sembra quindi che sia stata data risposta a una delle domande più antiche della storia: qual è il destino dell’Universo?
Negli anni Venti del secolo scorso l’astronomo statunitense Edwin Hubble scoprì e osservò galassie esterne alla nostra; nel 1929, misurando per via spettroscopica la loro velocità di allontanamento rispetto a noi, scoprì che questa aumentava in misura proporzionale alla loro distanza dal nostro pianeta. Andò così affermandosi l’idea che l’Universo non fosse in uno stato stazionario ma evolvesse, e in particolare che si stesse espandendo. Doveva quindi necessariamente avere avuto un inizio, in cui tutto lo spazio era concentrato in un unico punto infinitamente denso.
Questa ipotesi era già stata suggerita qualche anno prima dal fisico belga Georges Lemaître, il quale basò le sue considerazioni sulla teoria della relatività generale di Einstein. L’ipotesi di Lemaître non incontrò inizialmente un grande successo presso la comunità scientifica, ma di fron- te alle prove sperimentali fornite da Hubble cominciò a prendere piede.
Non senza dispute, però. Il termine “Big Bang”, con cui oggi si designa abitualmente l’istante iniziale dell’Universo, fu in realtà un’espressione introdotta con fini sarcastici da Fred Hoyle, scienziato inglese che non intendeva rinunciare al modello dello stato stazionario.
In ogni caso, una volta accettato che l’Universo cominciò come un piccolo punto come sarà la sua fine? Gli scenari sono sostanzialmente due: il primo vede un’espansione che rallenta gradualmente fino al suo arresto, per poi cedere il passo a una successiva contrazione (Big Crunch); il secondo invoca invece un’espansione pe- renne, accompagnata da un lento ma inesorabile raffreddamento e diluizione della materia in un volume sempre più vasto e sempre più vuoto. Stando alle osservazioni di Perlmutter, Schmidt e Riess, la seconda ipotesi sembra quella più verosimile. Qual è il “motore” che fa accelerare l’espansione dell’Universo? Né i fisici né gli astronomi sanno tuttora rispondere, neppure vagamente, a questa domanda. La questione è controversa: non sono in pochi, infatti, a sostenere che l’energia oscura in realtà non esista. Ma la pazienza, si sa, è una virtù degli scienziati. La teoria del Big Bang impiegò più di trent’anni per affermarsi pienamente: fu definitivamente consacrata soltanto nel 1965, quando Arno Penzias e Robert Wilson scoprirono (per puro caso) la cosiddetta “eco del Big Bang”, ovvero la radiazione cosmica di fondo (CMB, Cosmic Microwave Background radiation). Questa “primissima luce” dell’Universo era stata prevista una ventina d’anni prima da Robert Dicke e Jim Peebles, astrofisici alla Princeton University.
Penzias e Wilson condivisero il premio Nobel nel 1978 (insieme a Pyotr Kapitsa, che lo ricevette per i suoi contributi alla fisica delle basse temperature). La motivazione appunto recitava: «Per la loro scoperta della radiazione del fondo cosmico di microonde».
Lo studio delle proprietà della radiazione cosmica di fondo è poi valso un secondo riconoscimento da parte dell’Accademia di Svezia nel 2006, questa volta destinato agli americani John Mather e George Smoot «per la scoperta che la CMB ha spettro di corpo nero e per la misura delle sue anisotropie», ottenute utilizzando i dati del satellite COBE (lanciato nel 1989, lo stesso periodo in cui iniziavano i proget- ti di Perlmutter, Schmidt e Riess). E non è da escludere che, una volta analizzati i dati della missione europea Planck, la radiazione cosmica di fondo porti a Stoccolma qualche altro astrofisico.
... al primo
Il primo Premio Nobel assegnato all’astrofisica è da molti considerato quello che ricevettero Martin Ryle e Antony Hewish (nel 1974) «per le loro ricerche pionieristiche in radio-astrofisica: Ryle per le sue osservazioni e invenzioni, in particolare la tecnica di sintesi di apertura, e Hewish per il suo ruolo nella scoperta delle pulsar» (che in realtà avvenne grazie a una sua studentessa, Jocelyn Bell Burnell).
Quasi di argomento astrofisico fu anche il Nobel del 1967, che andò al tedesco Hans Bethe «per il suo contributo alla teoria delle reazioni nucleari, specialmente le sue scoperte riguardo alla produzione di energia nelle stelle». Finalmente mamme e papà di tutto il mondo furono messi nelle condizioni di poter spiegare ai loro figliuoli curiosi perché le stelle brillano.
Gli studi di Bethe sulle reazioni di fusione nucleare nel nucleo delle stelle furono poi continuati da William Fowler, che nel 1983 ricevette l’ambìto premio «per i suoi studi sperimentali e teorici delle reazioni nucleari importanti per la formazione degli elementi chimici nell’Universo».
Fowler divise il premio con Subramanyan Chandrasekhar, che lo ottenne «per i suoi studi teorici dei processi fisici rilevanti per la struttura ed evoluzione delle stelle». Gli studi di Chandrasekhar sulla stabilità di una nana bianca fanno ora parte dei libri di testo dei primi anni di un corso universitario in fisica.
A Chandrasekhar fu successivamente dedicato il miglior telescopio per raggi X mai realizzato: Chandra. Questo strumento della NASA è in grado di focalizzare la radiazione X con una nitidezza paragonabile a quella dei telescopi ottici. Messo in orbita nel 1999, Chandra rappresenta il coronamento di un programma di studi dell’Universo condotti a partire dal 1962, e che portò all’invenzione di un nuovo modo di studiare il cielo: l’astronomia a raggi X. Uhuru, l’Osservatorio Einstein e poi Chandra rappresentano inoltre tappe fondamentali della carriera di Riccardo Giacconi, italia- no naturalizzato statunitense, che ricevette il Premio Nobel nel 2002 «per contributi pionieristici all’astrofisica che hanno portato alla scoperta di sorgenti cosmiche di raggi X».
Giacconi divise il premio con Raymond Davis Jr. e Masatoshi Koshiba, che lo ricevettero «per contributi pioneristici all’astrofisica, in particolare la rivelazione di neutrini cosmici». Nel 2002, insomma, l’Accademia di Svezia premiò le aperture di due nuove finestre sull’Universo.
E ora che cosa rimane?
Uno dei prossimi premi Nobel per ricerche in campo astrofisico andrà probabilmente ai primi che riusciranno a rivelare direttamente le onde gravitazionali, forse l’ultima finestra che ci rimane da aprire. L’evidenza – ma solamente indiretta – dell’esistenza delle onde gravitazionali ottenuta tramite lo studio di un sistema binario di stelle di neutroni valse, nel 1993, il Premio Nobel a Russel Hulse e Joseph Taylor. La motivazione del premio recita: «Per la scoperta di un nuovo tipo di pulsar, una scoperta che ha aperto nuove possibi- lità di studi della gravitazione».
In tutto otto premi Nobel all’astrofisica in neanche cinquant’anni. Non male. A chi andrà, e per quali studi, il prossimo?
Fonte: "Le Stelle" - n°102, Gennaio 2012