fbpx Biodiversità: la ricchezza ignorata| Scienza in rete

Biodiversità: anche in Italia una ricchezza ignorata

Primary tabs

La biodiversità è fondamentale per l'equilibrio e il funzionamento degli ecosistemi. Dal più piccolo e sconosciuto organismo ai più grandi, tutti fanno parte di un ingranaggio forgiato da millenni di evoluzione. Non occorre andare troppo lontano per vedere una biodiversità ricca, ma sottovalutata e minacciata: ce l'abbiamo sotto gli occhi, proprio in Italia.

Nell'immagine: fenicotteri in volo nelle valli di Comacchio, Wikimedia Commons

Tempo di lettura: 7 mins

La parola biodiversità, oggi di comune uso, è piuttosto recente: nasce nel 1992, coniata dal mirmecologo e divulgatore Edward O. Wilson nel saggio La diversità della vita. Il termine indica la varietà e la ricchezza delle forme viventi, quella che ha consentito alla vita di adattarsi ai più disparati contesti del pianeta, e a sua volta a consentire il funzionamento degli ecosistemi. Perché gli organismi vegetali e animali, dai più minuscoli a quelli enormi, contribuiscono a fare girare il mondo come lo conosciamo, un mondo che ci ha consentito di evolverci… e di dominarlo.

Qual è il primo posto che vi viene in mente se si parla di “ricchezza di biodiversità”? Probabilmente sarà una lussureggiante foresta pluviale, pullulante di vita e minacciata da una feroce deforestazione. Ma non occorre fare viaggi troppo esotici. La nostra penisola è, in ambito europeo, uno dei posti più ricchi di specie e sottospecie: oltre 8 000 specie di piante vascolari, 60 000 di animali terrestri (il 98% invertebrati), e 9 300 marini. La grande varietà di forme di vita è dovuta al fatto che l’Italia ha una grande diversità litologica, topografica e climatica e riveste una posizione centrale nel bacino Mediterraneo, uno degli hotspot di biodiversità su scala planetaria. Non solo: l’Italia è ricca di endemismi, cioè piante e animali che vivono solo all’interno dei confini della penisola. Sono endemici circa il 20% delle specie animali terrestri e d’acqua dolce, e oltre il 16% delle piante.

Una ricchezza di cui bisognerebbe andare fieri, e per la quale sentire una forte responsabilità per la sua salvaguardia. Eppure, la biodiversità italiana non se la passa proprio benissimo. Lo dicono i dati del “Rapporto direttive natura 2013-2018” di ISPRA. Oltre il 50% delle specie italiane considerate di interesse comunitario per l’Unione europea sono in uno stato di conservazione sfavorevole, e la situazione è pure peggiore sul fronte della conservazione degli habitat, in particolare le acque interne: qui, infatti, la percentuale sale all’89%. Il Rapporto è il frutto di una articolata rete di collaborazioni che coinvolge Regioni, Province autonome, società scientifiche e università, e riunisce in un unico volume le rendicontazioni richieste dall’UE in merito allo stato di conservazione di specie vegetali e animali tutelate dalla Direttiva habitat e dalla Direttiva uccelli (nel quinquennio 2013-2018) oltre a quella richiesta dal regolamento europeo per le specie aliene.

La Direttiva habitat e la Direttiva uccelli sono importantissimi strumenti legislativi per la tutela della biodiversità, il cui scopo ultimo è quello di creare una rete ecologica a scala europea, che rappresenti le varietà e peculiarità degli habitat dell’Europa e che garantisca la sopravvivenza e gli spostamenti delle popolazioni selvatiche. Le direttive tutelano oltre 460 specie di uccelli selvatici, 1 389 specie animali e vegetali e 233 tipi di habitat considerati di importanza comunitaria. Per le specie e gli habitat in elenco gli Stati si devono impegnare a garantire uno stato di conservazione soddisfacente. “Soddisfacente” significa sostanzialmente che esistono e ci saranno in futuro le condizioni perché la specie o l’habitat siano in buona salute, con popolazioni stabili o in espansione.

Torniamo quindi all’Italia e alla sua ricchezza di biodiversità: ben il 30% delle specie e degli habitat è oggetto di tutela in direttiva, ma tale dato è offuscato dal fatto che 53% delle specie animali e il 54% di quelle vegetali versa in uno stato di conservazione inadeguato o cattivo. In particolare, è preoccupante la situazione dei pesci di acqua dolce: circa il 60% delle popolazioni ha uno stato di conservazione cattivo. Anche la situazione di anfibi e rettili è tutt’altro che rassicurante, dato che la metà ha un cattivo stato di conservazione. Rispetto alla situazione fotografata dal precedente rapporto biodiversità, per il 78% delle specie animali la situazione è del tutto invariata; in alcuni casi è peggiorata, come nel caso di anfibi e rettili. Particolare è il caso degli uccelli: è diminuita la percentuale di specie minacciate di estinzione (il 4% in meno rispetto al report precedente), ma per quelle che hanno uno stato di conservazione sfavorevole la situazione si è aggravata: sono infatti aumentate del 5% le specie in pericolo di estinzione. Ma la situazione più critica è quella relativa allo stato di conservazione degli habitat di interesse comunitario: le valutazioni favorevoli sono nettamente diminuite rispetto al precedente rapporto, passando da 55 a 21. In parte questo si spiega col fatto che nel tempo sono stati cambiati i criteri per la valutazione dello stato di conservazione, ma la situazione è comunque preoccupante.

Sia per le specie animali che per gli habitat, le principali minacce per la conservazione sono l’agricoltura intensiva e lo sviluppo di infrastrutture, e per le acque dolci l’inquinamento legato ad attività estrattive e di acquacultura. Le specie vegetali sono minacciate dall’abbandono delle pratiche agronomiche e pastorali tradizionali, il sovra-pascolo, la conversione in aree agricole, le modifiche idrologiche e l’inquinamento. Nell’ambiente marino, invece le principali cause di declino sono l’inquinamento, il disturbo arrecato dalle attività umane, la costruzione di infrastrutture e i cambiamenti climatici. Un'ulteriore minaccia per la conservazione delle specie in direttiva è la presenza di specie aliene invasive. Secondo il report, vantiamo la triste presenza sul podio, insieme a Francia e Belgio, dei tre Paesi con il più alto numero di specie aliene invasive di importanza unionale, guadagnando una medaglia di bronzo. Per le specie aliene lo strumento normativo europeo è il Regolamento 1143/14 , che identifica una lista di specie esotiche invasive ritenute “di rilevanza unionale”, per le quali i Paesi europei hanno una serie di obblighi e divieti (rilascio nell’ambiente, vendita, riproduzione e detenzione). In Italia sono presenti 31 sulle 48 specie elencate nel regolamento, 17 animali e 14 vegetali. Il problema è diffuso soprattutto al nord, ma alcune specie, come Trachemys scripta (la tartaruga americana dalle guance rosse, che un tempo si vinceva ai luna park), sono presenti in tutte le regioni. Il Regolamento 1143/14 prevede azioni di contenimento per le specie aliene invasive di importanza unionale, ma a oggi gli interventi sono concentrati su alcune specie e l’area di intervento non copre tutta la zona di presenza nazionale.

I dati italiani sull’andamento delle specie in direttiva confluiscono in un report globale, che comprende le valutazioni di tutti i Paesi del’UE: State of Nature in the EU, che ogni sei anni fotografa la situazione e gli andamenti delle specie e degli habitat protetti dalle direttive europee. Le statistiche italiane sono perfettamente in linea con quelle dell’Unione europea: il 63% delle specie in direttiva e l’81% degli habitat hanno uno stato di conservazione sfavorevole. Non ultimo, questi report permettono di valutare quanto realmente la biodiversità venga monitorata come le direttive indicherebbero: sia in Italia che in Europa, in realtà, si hanno a disposizione per molte specie e habitat dati frammentari, monitoraggi parziali o valutazioni basate unicamente sul parere di esperti. Solo una minoranza delle valutazioni è basata su dati completi. Questo evidenzia una globale difficoltà nel mettere in piedi sistemi di monitoraggio di specie e habitat che siano robusti, standardizzati e uniformi su scala nazionale, spesso legato a una mancanza di sufficienti risorse economiche con investimenti sostanziali e di lunga durata e di un sufficiente contingente di personale dedicato e strutturato negli enti.

Il fatto che non siamo i fanalini di coda nella tutela di specie e habitat non è decisamente un “mal comune mezzo gaudio” ma un'amara constatazione che c’è molto da lavorare per invertire la tendenza. Malgrado le buone intenzioni, fondi dedicati (come i programmi Life) e l’impegno concreto messo in atto da tecnici del settore, resta molto da fare per la tutela della biodiversità europea. Mantenere lo status quo, lo dicono gli stessi report, non è sufficiente, occorre uno slancio per un miglioramento concreto della situazione. Le pressioni antropiche restano ancora troppo forti, e bisogna cambiare rotta se in dieci anni si vogliono raggiungere gli ambiziosi obiettivi prefissati: la strategia EU per la biodiversità indica che per il 2030 almeno il 30% delle specie con uno stato di conservazione non soddisfacente devono passare a una conservazione soddisfacente. E il traguardo appare ambizioso se si pensa al fatto che la situazione è stagnante o addirittura peggiorata per molte specie.

Scrive Wilson ne La diversità della vita:

Ogni nazione ha tre patrimoni diversi: quello materiale, quello culturale e quello biologico. Se abbiamo le idee ben chiare sui primi due perché costituiscono il nocciolo della nostra vita quotidiana, quanto alla biodiversità, l’essenza del suo problema sta nel fatto che del patrimonio biologico ci curiamo infinitamente meno. Si tratta di un gravissimo errore strategico di cui col passare del tempo ci pentiremo sempre più amaramente. […] La fauna e la flora fanno parte anch’esse del patrimonio di una nazione, in quanto rappresentano il risultato, localizzato nel tempo e nello spazio, di milioni di anni di evoluzione, e dovrebbero pertanto essere oggetto di interesse non meno di altri aspetti particolari.

Parole scritte trent’anni fa, eppure la biodiversità fa fatica a entrare nelle agende dei decisori politici come azione prioritaria, e la sua erosione stenta a diventare un urgenza di cui preoccuparsi per agire in tempi rapidi e tutelarla in modo effettivo. Riuscirà a diventare un'urgenza prima che sia troppo tardi?

 

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Di latticini, biotecnologie e latte sintetico

La produzione di formaggio è tradizionalmente legata all’allevamento bovino, ma l’uso di batteri geneticamente modificati per produrre caglio ha ridotto in modo significativo la necessità di sacrificare vitelli. Le mucche, però, devono comunque essere ingravidate per la produzione di latte, con conseguente nascita dei vitelli: come si può ovviare? Una risposta è il latte "sintetico" (non propriamente coltivato), che, al di là dei vantaggi etici, ha anche un minor costo ambientale.

Per fare il formaggio ci vuole il latte (e il caglio). Per fare sia il latte che il caglio servono le vacche (e i vitelli). Cioè ci vuole una vitella di razza lattifera, allevata fino a raggiungere l’età riproduttiva, inseminata artificialmente appena possibile con il seme di un toro selezionato e successivamente “forzata”, cioè con periodi brevissimi tra una gravidanza e la successiva e tra una lattazione e l’altra, in modo da produrre più latte possibile per il maggior tempo possibile nell’arco dell’anno.