
Anche dove la natura sembra intatta, la biodiversità vegetale è spesso incompleta: lo rivela uno studio globale che dimostra come molte piante autoctone siano assenti dai loro habitat naturali a causa dell’impronta ecologica umana
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Una delle immagini più ricorrenti quando si parla di perdita di biodiversità è quella di una foresta pluviale in fiamme o assediata da ruspe e scavatori, la nuda terra a prendere il posto di una lussureggiante vegetazione. Meno facile pensare che, anche a centinaia di chilometri dal punto in cui le piante sono divorate dal fuoco o buttate giù, anche in luoghi in cui la foresta pare florida e variegata, la biodiversità si sta erodendo. Perché anche lì, in quel luogo che potrebbe sembrarci selvaggio e pullulante di forme di vita, in realtà ci sono molte meno specie di piante di quelle che potrebbero effettivamente esserci, e la causa va ricercata proprio in quelle azioni antropiche che paiono così distanti. L’influenza degli impatti umani previene infatti la crescita di specie vegetali in luoghi idonei a ospitarle. Un effetto che si verifica a livello globale, come dimostra una ricerca pubblicata su Nature che porta la firma di oltre 200 ricercatori e ricercatrici provenienti dagli atenei di tutto il mondo.
Quello che non c’è: la diversità oscura
Si fa presto a dire “biodiversità”, ma questa breve parola racchiude in sé una incredibile complessità, perché va dalle più piccole differenze nel codice genetico che rendono unici gli individui, alla varietà di forme di vita e specie, fino a come queste interagiscono tra loro e con le caratteristiche geologiche e climatiche di un determinato angolo del globo per dar forma a habitat ed ecosistemi. Impacchettare tutta questa complessità in una metrica è estremamente difficile, ma necessario per cercare di comprenderla. Esistono dunque diversi indici per misurare la biodiversità nei vari livelli, che vanno poi integrati tra loro per avere un quadro della situazione. Quello comunemente impiegato per fare comparazioni tra luoghi o tempi diversi e valutare quante specie stiamo perdendo nel corso dell’Antropocene è l’alfa biodiversità, che corrisponde al numero di specie che si trovano in un determinato sito, un valore che però ha dei limiti. «Su scala globale l'alfa diversità dipende prevalentemente da fattori biogeografici e climatici, quindi non è un buon predittore degli impatti dell'impronta umana. È sicuramente correlata al disturbo, ma funziona meglio su scala locale» spiega Alessandro Chiarucci, professore ordinario di botanica ambientale all’Università di Bologna e coautore dello studio di Nature.
Nel 2011 tre botanici dell’Università di Tartu, Meelis Pärtel, Robert Szava-Kovats e Martin Zobel, hanno introdotto il concetto di dark diversity: l’insieme delle specie ecologicamente idonee a vivere in un determinato sito ma che invece mancano, pur essendo presenti nella regione circostante. Una biodiversità oscura, non misurabile e persa nel suo potenziale, come la materia che dà forma all’universo ma resta a noi invisibile, e che va a completare quella che possiamo invece osservare. Misurare la biodiversità oscura permette quindi di comprendere quanto una data comunità biologica sia completa, ovvero contenga tutte le specie che possono effettivamente vivere in un dato luogo: più basso è il valore della dark diversity, più la comunità che osserviamo è completa e la sua ricchezza potenziale si realizza. Una metrica che ben si presta per valutare quanto e fino a dove le attività antropiche determinano un impoverimento della vegetazione a livello mondiale. Tutto questo è possibile grazie a un progetto di ricerca, DarkDivNet : un network internazionale fondato e coordinato dall’Università di Tartu, e che annovera botanici in tutti i continenti. «Si tratta di un progetto cooperativo cui i gruppi di ricerca aderiscono in modo volontario, adottando il medesimo protocollo standardizzato di raccolta dati e usando le proprie risorse negli ecosistemi che studiano. È un approccio potente per fare esperimenti ecologici su larga scala», racconta Chiarucci, che è anche membro del comitato direttivo di DarkDivNet.
Gli effetti nascosti delle attività umane
Per lo studio di Nature i ricercatori hanno utilizzato i dati relativi a quasi 5.500 siti con una vegetazione naturale relativamente intatta, distribuiti in 119 regioni del mondo rappresentative di tutte le condizioni climatiche del pianeta. In ognuno dei siti hanno censito tutte le specie di piante presenti, raccolto dati sulle condizioni ambientali e stimato, grazie a modelli probabilistici, il numero di specie assenti ma potenzialmente idonee per quel sito. Infine, hanno messo in relazione il dato ottenuto con l’indice dell’impronta ecologica umana, dimostrando una fortissima correlazione negativa.
Ora, c’è una componente naturale che può spiegare certe assenze e le variazioni tra luoghi apparentemente equivalenti, come le abitudini e densità di erbivori o animali che si nutrono dei semi, la presenza di competitori, la capacità di dispersione, le condizioni microclimatiche o geomorfologiche (per esempio alcuni siti possono essere più predisposti di altri agli eventi estremi). Quindi una quota di biodiversità oscura è, per così dire, fisiologica. Nelle regioni poco impattate dall’essere umano, gli ecosistemi contengono tipicamente oltre un terzo delle specie potenzialmente idonee. Se però si considera il fattore umano la percentuale scende: nelle regioni fortemente influenzate dalle attività umane, gli ecosistemi ospitano solo una specie idonea su cinque. E l’effetto tende a essere più forte quanto più grande è l’impronta ecologica della regione che contiene il sito di rilevamento, anche a scala di decine o centinaia di chilometri. Questo dimostra, in pratica, che le attività umane hanno un lungo raggio d’azione: ecosistemi apparentemente incontaminati, a centinaia di chilometri da un disturbo diretto, sono in realtà colpiti.
Degli otto componenti dell’impronta ecologica umana, sei hanno una chiara influenza sul numero di specie vegetali mancanti: densità della popolazione umana, infrastrutture elettriche, ferrovie, strade, ambienti edificati e terreni coltivati. Gli effetti si propagano perché si innescano effetti a catena, il che ci dimostra ancora una volta la complessità delle questioni naturali. Per esempio, la scomparsa di una specie animale che gioca un ruolo importante nella disseminazione delle piante e quindi nella loro espansione può avere effetti su vasta scala. Tutto è collegato, la diversità chiama e crea diversità.
Una ragione di speranza?
«L’approccio adottato per questa analisi ci permette di mappare e di quantificare la diversità oscura attuale. Il progetto è operativo da pochi anni, ma se avessimo uno storico di dati, avremmo uno strumento per monitorare come le comunità biologiche si allontanano dal loro potenziale», spiega Chiarucci. Un mezzo potente per indagini future, dunque, e che permetterebbe di valutare non solo le perdite ma anche i progressi, se verranno realmente sviluppate le politiche globali previste dal protocollo internazionale della Convenzione per la Diversità Biologica, il Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework (il cui finanziamento è stato oggetto della COP16 bis di Roma, su Scienza in rete ne abbiamo parlato qui).
E poi c’è ancora un segnale incoraggiante, che dovrebbe dare stimolo a un cambiamento proattivo, perché lo studio ha dimostrato che nelle regioni in cui almeno un terzo del paesaggio era poco disturbato dall'essere umano, la perdita nascosta di biodiversità era significativamente inferiore. «Abbiamo osservato un effetto positivo delle aree protette, e questo dà un ulteriore supporto alle politiche già stabilite, il Global Biodiversity Framework, ma anche la Strategia europea per la biodiversità», commenta Chiarucci. «Espandere le aree protette al 30% del territorio è una politica necessaria per supportare la biodiversità. Se vengono ben distribuite sul territorio includendo tutte le sfaccettature degli ecosistemi, fanno da serbatoio e ciò permette di nutrire le aree circostanti. Ecco perché la politica del 30% è assolutamente cruciale per tutelare la biodiversità e garantire che le comunità possano ospitare tutte le specie potenzialmente presenti. Anche il 10% di aree rigorosamente protette, ossia un terzo del target complessivo, è essenziale. Questo concetto non è presente negli obiettivi sanciti nel Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework ma lo è, seppur in forma “addolcita”, nella Strategia europea, il cui primo pilastro dice di proteggere un 30% dei territori dei Paesi Stati membri un terzo dei quali in modo rigoroso. Questo serve a garantire il libero funzionamento dei processi naturali e, quindi, supportare anche tutta quella biodiversità che ancora non conosciamo, come per esempio funghi o fauna del suolo».
Tanta della biodiversità resta inespressa perché risente delle attività umane, un impatto subdolo e difficile da comprendere, che ci dice che perdita di biodiversità non significa “solo” estinzioni, ma un impoverimento complessivo degli ecosistemi, che li spoglia del loro potenziale, li rende monotoni e in alcuni casi più fragili. Ma non è troppo tardi per invertire la rotta, e abbiamo le politiche per farlo. Dobbiamo farle partire, per recuperare il potenziale perduto e dare un futuro a quello che oggi è in difficoltà, ma può ripartire, se gli diamo le condizioni necessarie.