fbpx Il cammino dell'uomo sulla Terra | Scienza in rete

Il cammino dell'uomo sulla Terra

Primary tabs

Tempo di lettura: 5 mins

Siamo in viaggio, da due milioni di anni. Da quando i primi esemplari del genere Homo, completamente bipedi, si diffusero a partire dal continente africano e colonizzarono l’Eurasia. Da quando – molto tempo dopo - piccoli gruppi appartenenti alla nostra specie curiosa e intraprendente, Homo sapiens, uscirono ancora dall’Africa e affrontarono l’esplorazione di vecchi e nuovi mondi. Oggi quell’avventura non è ancora finita e non esiste frammento delle terre emerse che non abbia visto il passaggio o l’insediamento di esseri umani. Una popolazione che ha da poco superato i sette miliardi si è generata da quegli sparuti pionieri del Corno d’Africa, forse non più di 25 mila individui agli inizi (un quartiere di Roma). Come è avvenuta la straordinaria globalizzazione dell’Homo sapiens? E a spese di chi?

Di tutto questo, e di molte altre storie nascoste che la scienza ha di recente riportato alla luce, tratta la mostra internazionale che apre oggi i battenti al Palazzo delle Esposizioni di Roma: “Homo sapiens. La grande storia della diversità umana”. Si tratta di un progetto inedito di comunicazione della scienza, per una volta ideato e realizzato interamente in Italia: mettere in scena il programma interdisciplinare fondato dal genetista emerito della Stanford University, Luigi Luca Cavalli Sforza, con l’ambizione di ricostruire l’albero genealogico dei popoli della Terra attraverso le tracce genetiche, archeologiche e linguistiche.

La narrazione della mostra è rivolta a un pubblico di ogni età e fa leva su linguaggi espositivi differenti: reperti originali preziosi da tutto il mondo, fossili antichissimi, tra i quali i resti del primo ominino uscito dall’Africa e trovato in Georgia, a Dmanisi, manufatti di specie umane diverse, le prime forme di arte;  e poi calchi e modelli in 3D di ominini e di grandi animali estinti; mappe planetarie, preparate da De Agostini; video e foto da collezioni storiche. Per i ragazzi (e non solo), alcuni exhibit hands-on e interattivi permettono di scoprire giocando che siamo cugini di ogni essere vivente, compresa la banana, e che le razze umane esistono sì, ma stanno tutte racchiuse nella nostra testa e nei nostri pregiudizi, non certo nel mondo là fuori. Inutile, insomma, cercarle nei nostri geni: essendo la diversità genetica fra gli esseri umani bassissima e distribuita in modo continuo, le cosiddette “razze umane” non hanno alcun fondamento biologico.

Ma le sorprese per i visitatori saranno molte di più, a cominciare dal fatto che siamo figli di un ambiente capriccioso e che nell’albero frondoso della famiglia umana non siamo mai stati soli: fino a una manciata di millenni fa esistevano più specie umane. Se un extraterrestre fosse caduto sulla Terra 40mila anni fa ne avrebbe incontrate altre quattro, oltre a noi. L’uomo di Neandertal, la cui intelligenza non smette di stupirci, fa bella mostra di sé nell’esposizione di Roma e ci svela i suoi lati nascosti. Il cugino “hobbit”, Homo floresiensis, rimpicciolitosi nella sua isola indonesiana di Flores insieme a ratti e cicogne giganti, ci guarda un po’ disorientato dal basso in alto. All’affollata compagnia di umani si aggiungono il misterioso ominino della grotta di Denisova, sui Monti Altai, e un tardo Homo erectus sopravvissuto sull’isola di Giava. Poi siamo rimasti soli, non prima, forse, di esserci accoppiati con alcune di queste forme “diversamente sapiens” (lo testimonierebbero alcune tracce di Dna neandertaliano e denisoviano in una parte delle popolazioni moderne).

Capire da dove veniamo ci permette di comprendere quali innovazioni ci hanno reso ciò che siamo, prime fra tutte il linguaggio articolato e le capacità di astrazione (in Mostra una tavoletta babilonese con il teorema di Pitagora spiegato dodici secoli prima di Pitagora!), e in che modo siamo stati capaci di produrre un ventaglio meraviglioso di diversità culturali. Homo sapiens nasce prima anatomicamente, in Africa, intorno a 200mila anni fa, e poi mentalmente, intorno a 50mila anni fa, in coincidenza con l’ultima ondata di espansione planetaria, quella che più recentemente ci condurrà anche nei “nuovi mondi” dell’Australia e delle Americhe in epopee appassionanti che la Mostra racconta attraverso reperti, ricostruzioni e immagini. I primi europei autoctoni dunque non siamo noi. Anzi, dato che i geni connessi allo schiarimento della pelle sono molto recenti, a volerla dire tutta i primi immigrati di colore in Europa siamo proprio noi, Homo sapiens. C’è sempre qualcuno più “nativo” di te.

La rivoluzione agricola scompaginerà poi le carte del popolamento umano, portando all’estinzione molti stili di vita del passato, ma anche animali e piante in grande quantità. Siamo dunque una giovane specie africana, assai mobile e promiscua, sopravvissuta per un pelo a svariate catastrofi ambientali, divenuta poi una presenza invasiva: una “specie prepotente”, come ha scritto Cavalli Sforza. Una moltitudine di storie affascinanti viene dunque molto prima della Storia con la maiuscola che si studia a scuola.

Siamo umani perché non abbiamo mai smesso di esplorare nuovi mondi, di muoverci, di guardare cosa c’era dall’altra parte della collina. Le civiltà di oggi non sono monoliti senza tempo, ma organismi con le radici intrecciate. All’Italia come laboratorio di molteplici diversità, e al contempo di una profonda unità culturale, è dedicata una sezione speciale della Mostra. Ma pensiamo al Medio Oriente, al Caucaso, ai Balcani, all’Afghanistan, allo stesso Corno d’Africa: la coincidenza è sorprendente e rivelatrice, perché tutte queste regioni martoriate sono state i più antichi e maggiori laboratori di diversità umana, culturale e linguistica. Sono stati i più ricchi, frequentati e tormentati crocevia del popolamento umano del pianeta. Una specie africana giovane, inventiva ed espansiva, a partire dalla sua unità ha saputo generare la diversità. Ora proprio dalla storia della diversità può imparare a riscoprire la sua unità.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Tumore della prostata e sovradiagnosi: serve cautela nello screening con PSA

prelievo di sangue in un uomo

I programmi di screening spontanei per i tumori della prostata, a partire dalla misurazione del PSA, portano benefici limitati in termini di riduzione della mortalità a livello di popolazione, ma causano la sovradiagnosi in un numero elevato di uomini. Questo significa che a molti uomini verrà diagnosticato e curato un tumore che non avrebbe in realtà mai dato sintomi né problemi. Un nuovo studio lo conferma.

I risultati di un nuovo studio suggeriscono che i programmi di screening spontanei per i tumori della prostata, a partire dalla misurazione del PSA, portano benefici limitati in termini di riduzione della mortalità a livello di popolazione, ma causano la sovradiagnosi in un numero elevato di uomini. Questo significa che a molti uomini verrà diagnosticato e curato (con tutte le conseguenze delle cure) un tumore che non avrebbe in realtà mai dato sintomi né problemi.