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Combustibili fossili: troppi soldi nelle mani sbagliate

Abbiamo raccolto i dati dei profitti 2022 e inizio 2023 delle principali compagnie petrolifere occidentali, le loro emissioni di gas serra storiche e annue più recenti e la loro presenza sul mercato. Il quadro che si delinea è quello di una quantità spropositata di denaro in mano a poche aziende che non si dimostrano collaborative a investire in tecnologie rinnovabili né ad aiutare i consumatori. Sono in gran parte territorialmente appartenenti ai paesi del G20, che, a loro volta, sono responsabili della maggior parte delle emissioni globali.

Foto di Christine Roy su Unsplash

Tempo di lettura: 7 mins

Nel 2022 le Big Oil hanno fatto profitti per quasi 220 miliardi di dollari messe insieme: più del doppio del 2021. Hanno versato la cifra record di 110 miliardi di dollari in dividendi e riacquisti di azioni, senza reinvestire massicciamente nella transizione energetica. Nonostante l’enorme eccesso di denaro, si sono schierate contro le tassazioni statunitensi ed europee sugli extraprofitti per aiutare i consumatori a far fronte all’inflazione. Se poi si considera che, oltre a essere decisamente tra le aziende più ricche al mondo, sono anche quelle che emettono e hanno emesso più gas serra, non ne escono proprio dignitosamente.

Quanti soldi hanno fatto le maggiori compagnie petrolifere occidentali nel 2022?

Con la scusa di assicurare una maggiore sicurezza energetica in seguito all’invasione russa dell’Ucraina, i consigli di amministrazione delle principali compagnie petrolifere hanno aumentato la produzione di combustibili fossili. «Non saremmo sorpresi di vedere il petrolio tornare a 100 dollari al barile» dagli 85 attuali, ha dichiarato l'amministratore delegato di TotalEnergies, Patrick Pouyanne, come si legge su Reuters. E nel frattempo, la British Petroleum ha fatto dietrofront sugli obiettivi di riduzione della produzione di petrolio e gas e delle emissioni di carbonio previsti al 2030.

Nel grafico elaborato da Reuters sono rappresentati i profitti delle maggiori industrie fossili dal 2008 al 2022: non avevano mai guadagnato così tanto. Come fa notare The Guardian, nel 2022 i profitti delle Big Oil sono stati circa cinque volte l’ammontare del fondo per l'Inflation Reduction Act di Biden (37 miliardi su base annua) e ben venti volte il budget dell’Agenzia USA per la protezione dell'ambiente.

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Anche il primo trimestre del 2023 sembra portatore di tanti denari, come riporta statista.com:

ExxonMobil ha realizzato un utile di 11,4 miliardi di dollari nei primi tre mesi del 2023, il doppio rispetto ai 5,5 miliardi del primo trimestre del 2022. La francese TotalEnergies, invece, ha registrato un utile netto trimestrale in crescita del 12% rispetto all'anno precedente, a 5,6 miliardi di dollari, mentre Shell e Chevron hanno visto i loro profitti aumentare di circa il 5% rispetto all'anno precedente, rispettivamente a 9,6 e 6,6 miliardi di dollari.

 Oil & Gas Giants Post Record Q1 Profits | Statista

Le Big Oil occidentali sono tra le maggiori al mondo

Le Big Oil sono anche tra le maggiori aziende al mondo. Per esempio, ExxonMobil ha un utile annuo di 86 miliardi di dollari e Apple di 112 miliardi. L’azienda con maggiore capitalizzazione di mercato è ancora Apple, con quasi 2800 bilioni (migliaia di miliardi), Exxon Mobil è la prima Big Oil occidentale con 424 miliardi; la compagnia petrolifera con maggiore capitalizzazione è Saudi Aramco con 2000 bilioni ed è la compagnia petrolifera e di gas naturale nazionale dell'Arabia Saudita. In ogni caso, le maggiori società petrolifere al mondo sono in gran parte occidentali, come si vede dai grafici (i dati sono tutti tratti da CompaniesMarketCap.com).

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Tra parentesi i paesi delle rispettive sedi. Prime 25 aziende fossili per utile. Rielaborazione grafica dell'autore.

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Tra parentesi i paesi delle rispettive sedi. Prime 25 aziende fossili per fatturato. Rielaborazione grafica dell'autore.

Le compagnie petrolifere sono senza visione e senza etica

I guadagni record di queste relativamente poche aziende fossili sollevano una questione etica e di visione. Sarebbe più che sensato investire la valanga di denaro – ottenuta surriscaldando il pianeta – in ricerca e sviluppo di nuove tecnologie a basse emissioni o in generale nella conversione massiccia di energia da fossile a rinnovabile. Per esempio, British Petroleum potrebbe pagare «14,9 miliardi di danni delle inondazioni in Pakistan del 2022 e avere ancora 3,8 miliardi di dollari di profitti in eccesso oltre ai 9 miliardi di profitti regolari», si legge su Global Witness. Gli extraprofitti dell’anno scorso di tutte le grandi Big Oil, che sono oltre 134 miliardi di dollari, «potrebbe coprire quattro quinti dei 168 miliardi di dollari di danni causati dai dieci peggiori eventi meteorologici estremi alimentati dal clima nel 2022». Non a caso l’IPCC dice che la disponibilità di finanziamenti globali è sufficiente per arrivare a zero emissioni al 2050.

Per di più, non reinvestono, ma distribuiscono dividendi e riacquistano azioni, che è forse una pratica tanto comune quanto controversa. Global Witness ha verificato che durante la COP27 si sono presentati un numero record di lobbisti dell’industria dei combustibili fossili, superando «le delegazioni dei Paesi africani vulnerabili al clima e delle comunità indigene». Si legge su Energy Monitor:

Chevron ha annunciato un programma di riacquisto di azioni per 75 miliardi di dollari e Exxon ha rivelato un piano di riacquisto da 50 miliardi di dollari. Shell ha versato 6,3 miliardi di dollari agli azionisti negli ultimi mesi del 2022 e ha dichiarato di avere in programma un altro riacquisto di azioni per 4 miliardi di dollari. BP ha aumentato il pagamento agli azionisti del 10% e TotalEnergies ha aumentato il dividendo e ha annunciato un ulteriore riacquisto di azioni per 2 miliardi di dollari.

Come disse Aviel Verbruggen (autore di un’analisi su dati della Banca Mondiale), quello che ha incassato l’industria di petrolio e gas dal 1970 – cioè circa 52 mila miliardi di dollari – è «abbastanza per comprare ogni politico, ogni sistema».

No investimenti, riacquisto azioni e soprattutto contro le tasse temporanee del 33% sui profitti che l’Unione Europea ha approvato in emergenza: «ExxonMobil ha intentato una causa in risposta alla tassa, sostenendo che non rientra nell'autorità legale dell'UE e che scoraggerà gli investimenti». Joe Biden ha fatto notare che «i profitti record delle compagnie petrolifere oggi non sono dovuti al fatto che stanno facendo qualcosa di nuovo o di innovativo. […] I loro profitti sono il frutto della guerra, del brutale conflitto che sta devastando l'Ucraina e danneggiando decine di milioni di persone in tutto il mondo».

Global Witness, per altro, sostiene che ExxonMobil abbia gonfiato la propria spesa in rinnovabili nel 2021, avendo speso solo l’1,5% delle proprie spese in conto capitale invece del 12% annunciato. E poi, Shell ha in realtà destinato il grosso delle risorse “green” al gas. «Shell non dovrebbe cavarsela usando i suoi minuscoli investimenti nelle energie rinnovabili come una foglia di fico per coprire la realtà che sta continuando a trarre profitto dalla crisi energetica a spese delle persone e del pianeta», ha dichiarato Zorka Milin, consulente di Global Witness.

Poche compagnie petrolifere emettono troppi gas serra

Le aziende più ricche sono anche quelle maggiormente responsabili delle emissioni di gas serra. Secondo il rapporto del 2017 di The Carbon Majors Database, le società che hanno emesso cumulativamente di più dal 1988 sono:

  • ExxonMobil, Shell, BP, Chevron, Peabody, Total e BHP Billiton (proprietà degli investitori)
  • Saudi Aramco, Gazprom, National Iranian Oil, Coal India, Pemex e PetroChina (statali)

Le emissioni sono la somma di quelle dirette e quelle derivanti dall’uso dei prodotti venduti (ovvero la maggior parte). Altri dati anche qui e qui.

Dal 1988, solo 100 aziende sono all'origine di oltre il 70% delle emissioni mondiali di gas serra, di cui 41 società pubbliche di proprietà degli investitori, 16 società private di proprietà degli investitori; 36 società statali e 7 produttori statali. Nei grafici seguenti sono rappresentati le maggiori Big Oil, sia per le emissioni cumulative che per quelle annuali del 2015.

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Maggiori aziende per emissioni cumulative dal 1988 (dati Carbon Major Report 2017). I dati di Cina e Russia sono forniti per comodità come singoli produttori di carbone, essendo stata la loro produzione nazionale considerevole (ovviamente le voci sono in realtà composte dalla somma di molte aziende statali). La somma è 70,6%. Rielaborazione grafica dell'autore.

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Maggiori aziende per emissioni annuali del 2015 (dati Carbon Major Report 2017). La somma è 72,1%; non considerando le 174 compagnie rimanenti nel campione, la somma è comunque considerevole: 50,2% delle emissioni di CO2 globali. Rielaborazione grafica dell'autore.

I paesi del G20 confermano la statistica fossile

La sede territoriale delle aziende più ricche e più emissive sono quasi tutte parte dei paesi del G20, che complessivamente contribuiscono per il 75% alle emissioni globali. Si legge nell’ultimo Emission Gap Report dell’UNEP:

Otto grandi emittenti - sette membri del G20 e il trasporto internazionale - hanno contribuito per oltre il 55% alle emissioni totali di gas serra nel 2020: Cina, Stati Uniti d'America, Unione Europea a 27, India, Indonesia, Brasile, Federazione Russa e trasporti internazionali.

Nel grafico i paesi che maggiormente hanno emesso ed emettono gas serra (fonte Emissions Database for Global Atmospheric Research del Joint Research Centre).

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Nel grafico non sono rappresentati alcuni paesi europei come la Germania o l'Italia con emissioni non trascurabili, preferendo indicare l'impatto complessivo europeo. Tutti fanno parte del G20. Rielaborazione grafica dell'autore.

L’Agenzia internazionale per l'energia conferma in un suo ultimo aggiornamento quanto già detto nella sua roadmap Net Zero by 2050, e cioè che tutti i combustibili fossili vanno ridotti già da ora: il gas non è un combustibile di transizione. Come si è visto, il potenziale economico di questi stati e di queste aziende è enorme, e la consapevolezza del problema era nota da tempo, anche prima della nascita della Convenzione ONU sul clima e della stesura dei più aggiornati rapporti IPCC, come emerso recentemente anche da un documento del 1970 che metteva in guardia dall’utilizzo degli idrocarburi. Ci sono probabilmente troppi soldi nelle mani di troppe poche persone, ma quei soldi servono a fare la transizione, quindi, con i negoziati, la diplomazia, la comunicazione e la politica, in qualche modo vanno attratti e usati opportunamente.

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