La COP16 si è conclusa senza accordi concreti sui finanziamenti per la biodiversità, lasciando in sospeso obiettivi cruciali per proteggere la natura. Mentre i progressi sulla gestione delle risorse genetiche e sul coinvolgimento delle comunità indigene sono incoraggianti, l'assenza di un piano finanziario chiaro rende incerto il futuro della biodiversità globale.
Crediti foto: UN Biodiversity CC BY 2.0
La COP16 si è conclusa rimandando a prossimi appuntamenti i risultati concreti che si dovevano portare a casa nei dieci giorni di consesso, in primis con un niente di fatto sulla questione dei finanziamenti a favore della biodiversità. Che si finisse con l’essere rimandati lo faceva presagire il tremendo ritardo dei singoli Stati nel fare i propri compiti a casa: su 196 Paesi solo 44 hanno redatto i piani nazionali per la biodiversità (National biodiversity pledges) che dovevano essere uno dei principali oggetti di discussione, molti sono stati sottomessi alla comunità internazionale durante lo svolgimento della COP stessa. I piani servono per definire le strategie nazionali per la biodiversità e le metodologie di valutazione dell'efficacia, nel quadro della strategia globale definita dal Global Biodiversity Framework, approvato dopo due anni di trattative nella scorsa COP15. Ricordiamo che il framework si articola in 23 target da raggiungere entro il 2030, che includono la protezione del 30% delle terre emerse e di mari e oceani, il ripristino di almeno il 30% degli ecosistemi degradati, e uno stop alla perdita di specie, minimizzando minacce quali la perdita di habitat, il sovrasfruttamento delle risorse, il traffico illegale, le specie aliene invasive e l’inquinamento. Il tutto in un’ottica di sviluppo sostenibile, dando valore a popoli indigeni e comunità locali e lavorando per la risoluzione dei conflitti con la fauna.
La COP16 di Cali è stata coloratissima e molto partecipata sia dalle ONG che dalle imprese, con una Green Zone ricca di appuntamenti che ha accolto più di 900.000 visitatori, il che indica che c’è finalmente interesse crescente sulla biodiversità anche da parte delle aziende. All'interno della Blue Zone, area dedicata alle negoziazioni, i lavori si sono protratti di un giorno, chiudendosi alle nove del mattino del 2 novembre dopo una lunga discussione durata oltre dodici ore che non poteva però raggiungere il quorum. La seduta è stata infatti sospesa per insufficienza di partecipanti, dato che la maggior parte dei delegati era ripartita, lasciando in sospeso uno dei temi più caldi e fondamentali per il raggiungimento degli obiettivi: i fondi comuni da destinare alla biodiversità. Come è già successo nelle COP del clima, non si è trovato un accordo su come vanno costituiti i fondi e i meccanismi di utilizzo, con un sostanziale disaccordo tra i Paesi ricchi e quelli poveri.
La biodiversità senza soldi: il fallimento dell'accordo per i finanziamenti
L’obiettivo ambizioso del Global Biodiversity Framework è infatti quello di investire per la biodiversità complessivamente almeno 200 miliardi di dollari all'anno entro il 2030, per arrivare, entro il 2050, a 700 miliardi annui , cifra che rappresenta il biodiversity finance gap ovvero il divario finanziario tra quanto in media si spende per la tutela della natura e degli ecosistemi e quanto sarebbe necessario davvero investire. Per colmare il gap è prevista una commistione di fondi pubblici (cioè una maggiore spesa di ogni singola nazione nelle attività di tutela e ripristino, per esempio) e privati, con investimenti di fondazioni, privati singoli e aziende nelle azioni di conservazione. Ma mentre si potenziano gli incentivi per la conservazione e l'uso sostenibile della biodiversità, è necessario eliminare le sovvenzioni a tutto ciò che continua a distruggerla: l’obiettivo sancito nel target 18 è di ridurle di almeno 500 miliardi di dollari all'anno entro il 2030. Si tratta di cifre che possono sembrare alte, ma per capire la loro reale dimensione, basta pensare che nel mondo si spendono almeno 2,6 trilioni di dollari all'anno in sovvenzioni che contribuiscono al riscaldamento globale e distruggono la natura, circa il 2,5% del prodotto interno lordo mondiale, secondo le ultime stime prodotte dalla ong Earth track. Si tratta per la maggior parte di spese per i carburanti fossili, trasporti, costruzione e agricoltura. Dal 2022 a oggi l’aumento degli investimenti in attività impattanti sulla natura è di circa 800 miliardi l’anno, complici anche le guerre, in particolare l’impennata dei costi dei carburanti legata al conflitto in Ucraina.
Altro punto critico del Global Biodiversity Framework è la mobilitazione dei fondi dei Paesi ad alto reddito a favore di quelli a basso reddito, cominciando per il 2025 con almeno 20 miliardi l’anno complessivi, che dovrebbero diventare 30 nel 2030. A oggi però tra fondi già versati e fondi promessi siamo a solo il 2% della cifra prefissata per il 2025: sono circa 230 milioni quelli già versati (con il contributo di Canada, Giappone, Regno Unito, Germania e Spagna), e in parte già allocati per progetti di conservazione, e 163 milioni quelli promessi da sette Paesi (tra cui Quebec, Nuova Zelanda, Regno Unito, Austria e Germania), per un totale complessivo di circa 396 milioni di dollari. Siamo dunque lontani anni luce dai finanziamenti necessari e su cui a Montreal si era trovato l’accordo, e ancora più lontani sui meccanismi di gestione degli stessi. Nella COP15 di Montreal si era deciso di utilizzare un fondo provvisorio, il Global Biodiversity Framework Fund, ospitato dal Global Environment Facility, una organizzazione internazionale fondata nel 1991 che opera in collaborazione con le Nazioni Unite e diverse ONG e che fornisce finanziamenti ai paesi in via di sviluppo per progetti a tutela dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile. A Cali la discussione si è focalizzata sulla richiesta, partita dal Brasile e appoggiata da diversi Stati africani, di creare un fondo apposito e svincolato dal GEF, con obblighi maggiori per i Paesi ad alto reddito. Proposta che però è stata fortemente opposta, tra gli altri, anche dai rappresentanti dell’UE, che in questo vedono il rischio di un ulteriore dilatamento dei tempi e di ulteriori inceppamenti burocratici. A sancire la grande difficoltà di trovare una quadra c’è questo “non paper”, documento informale che cerca di riassumere le aspettative per i prossimi cinque anni dei vari Stati in termini di mobilitazione delle risorse per la biodiversità, impiegando ben 98 fitte pagine.
Si esce quindi dalle negoziazioni di Cali sui finanziamenti per la biodiversità con uno stallo totale, sia di accordi politici, che di progressi finanziari, con grosso disappunto di tutti, soprattutto i Paesi più poveri che sono anche quelli che ospitano maggiore ricchezza di specie e al contempo la più rapida perdita di biodiversità, e che si trovano quindi impossibilitati all’azione, come hanno dichiarato i ministri di 20 nazioni del sud del mondo facenti parte della Nature Finance Alliance.
Le buone notizie
Se sul fronte finanziamenti la COP16 è stata un fiasco, ci sono stati invece progressi sul fronte della gestione delle risorse genetiche digitalizzate o DSI (Digital Sequence Information). Sotto l’egida della convenzione per la biodiversità era stato siglato l’Accordo di Nagoya che prevede una condivisione equa dei benefici derivanti da queste sequenze. Alla COP16 si è raggiunto un accordo per un fondo apposito, il Cali fund, che verrà alimentato dalle aziende che utilizzano le risorse genetiche per la messa a punto di prodotti farmaceutici, cosmetici, nutraceutici e biotecnologici che dovrebbero versare l’1% dei profitti o lo 0,1% delle entrate derivanti dalle vendite. I fondi così raccolti dovrebbero beneficiare in particolare le comunità locali e i popoli indigeni che tutelano le risorse, favorendo in particolare le donne e i giovani. Un timido buon risultato, se si considera che l’accordo raggiunto non si sbilancia, facendo largo uso del condizionale, e non indicando alcun paletto per le aziende, lasciando quindi intendere che molto starà alla loro buona volontà di contribuire al fondo (e di non usarlo come greenwashing).
Sempre sul fronte delle notizie positive, alla COP16 si è deciso di rendere permanente il gruppo di lavoro su popoli indigeni e comunità locali, che diventa così un organo sussidiario permanente sull'Articolo 8(j) della Convenzione sulla Biodiversità per vigilare e assicurare la giusta rappresentatività dei popoli indigeni nelle decisioni delle COP e un'equa ripartizione dei benefici derivanti dalla tutela della biodiversità. Ci sono inoltre stati progressi sulla definizione di Piano d’Azione globale che, secondo i principi di One Health, tiene in conto il profondo legame tra tutela della diversità biologica e salute umana. Ma anche in questo caso si tratta di un documento piuttosto vago, che non porta a impegni concreti, e lo stesso si può dire sul gruppo di lavoro sui cambiamenti climatici.
Il tempo stringe
Il Natural History Museum di Londra ha appena pubblicato uno studio in cui mostra l’andamento di un indice, il Biodiversity Intactness Index, che mostra come la biodiversità terrestre locale risponda alle pressioni umane, utilizzando dati sull'abbondanza di piante, funghi e animali a livello globale. L’indice è calato in media di quasi il 2% tra il 2000 e il 2020, passando dal 61% al 59%. Lo studio dimostra inoltre che questo decremento è più forte negli hotspot di biodiversità, che l’istituzione di aree protette non garantisce necessariamente una maggior conservazione (il grande problema della protezione solo su carta), e che solo il 22% delle aree cruciali per i servizi ecosistemici è in uno stato di tutela. Secondo le stime del Protected Planet Report, sono protetti il 17,6% delle aree terrestri e l'8,4% delle aree marine, la connettività tra aree protette è alquanto scarsa e più di un terzo delle aree chiave per la conservazione non gode di tutela alcuna. Un altro indicatore, il Living Planet Index, mostra come negli ultimi 50 anni la dimensione media delle popolazioni di vertebrati si sia ridotta del 73%, con un decremento più marcato nelle acque dolci e nei mari. La IUCN ha pubblicato un report che indica che un terzo delle specie di alberi del pianeta rischia l’estinzione nell’immediato futuro. Qualunque sia l’indice che si guarda, la realtà è sotto gli occhi di tutti: stiamo erodendo la diversità della vita, la ricchezza di specie che assicura il funzionamento del mondo come lo conosciamo. Non è impossibile cambiare le cose, non è obbligatorio stare qui a guardare le specie scomparire. Le azioni di conservazione esistono e possono invertire la rotta (su Scienza in Rete ne abbiamo parlato qui), ma funzionano se opportunamente finanziate e implementate. Non serve istituire aree protette che sono solo linee su carta, non si possono portare avanti programmi di reintroduzione, riforestazione o rimozione di minacce senza fondi adeguati e senza aver lavorato per rimovere o quantomeno minimizzare le minacce.
Il fallimento della COP di Cali, dove si è agito in modo blando, inefficiente o in alcuni casi fallimentare di fronte all’urgenza di un pianeta in balia del riscaldamento globale che affronta una gravissima perdita di specie, fa rabbia perché di tempo da perdere davvero non ce n’è. Così facendo si rischia per l'ennesima volta di mancare gli obiettivi, e la crittura del piano globale diventa un mero esercizio di stile, è già successo troppe volte, basti pensare all'inefficacia della strategia 202, con gli Aichi target raggiunti in minima parte.
I prossimi lavori della COP17 saranno nel 2026 in Armenia, ma si spera in negoziati intermedi che vadano almeno a finire di definire le modalità di valutazione dei piani d’azione nazionale e gli indicatori condivisi dei progressi. La biodiversità è uno dei valori più incommensurabili e al contempo meno riconosciuti. Se il cambiamento climatico, con tante difficoltà inizia a entrare nei discorsi quotidiani, a fatica si è parlato della COP16 nei media mainstream italiani, e più in generale, la paralisi degli investimenti per la biodiversità e la conservazione è un problema tutt’altro che nuovo. Tutelare la biodiversità non è solo un obbligo morale verso le altre forme di vita che con noi condividono il pianeta, ma un qualcosa che garantisce la vita come la conosciamo. Servono scelte coraggiose, serve l’interesse della società, serve il capire fino in fondo che non può esserci benessere in un pianeta malato.