fbpx Cosa rimane da scoprire: quanto manca per la collezione? | Scienza in rete

Cosa rimane da scoprire: quanto manca per la collezione?

Primary tabs

Tempo di lettura: 7 mins

Celo, celo, manca, celo, manca. Chi non ha collezionato figurine almeno una volta nella vita? Io ricordo ancora le mitiche figurine “Panini” dei calciatori di serie A: Rivera, Corso, Sivori, Altafini, Bulgarelli e tanti altri. Nel corso della raccolta si andavano rapidamente accumulando molte figurine “doppie” e anche “triple”, mentre altre sembravano introvabili. Andavo a scuola con il pacchetto in tasca e sfogliandolo poi nell’intervallo insieme ai compagni, iniziava la cantilena: "celo (ce l’ho), manca, celo, celo, manca...", e si organizzavano gli scambi. Sembrava proprio che alcune particolari figurine fossero estremamente rare, come se ne fossero state stampate e distribuite in pochissime copie. Non sapevo allora che un’attenta analisi statistica del numero di singole, doppie, triple, eccetera, avrebbe permesso di verificare se ogni esemplare era stato stampato nel medesimo numero di copie e se queste erano state distribuite in maniera uniforme nelle bustine e nelle edicole dove erano vendute. La statistica è uno strumento formidabile: non ci dice quasi nulla se abbiamo registrato solo pochi eventi di un certo fenomeno, ma se disponiamo di dati in abbondanza, allora ci può dare “certezze” (probabilisticamente parlando) sul fenomeno che desideriamo studiare, su regolarità, eccezioni, differenze, sulla correttezza o meno dei dati, e così via. Recentemente, una catena di supermercati dove sia io sia diversi colleghi ci serviamo abitualmente, ha iniziato a distribuire, per ogni tot euro spesi in acquisti, bustine contenenti le figurine di alcuni personaggi di popolari cartoni animati. Sebbene per noi sia passata l’età della raccolta di figurine, molti colleghi hanno figli che legittimamente ancora si divertono in questa attività. Ecco quindi che ho ricominciato a sentir parlare di doppie e triple e di figurine introvabili. E mi è venuta voglia di usare la statistica, che nel frattempo un po’ ho imparato, per verificare se le figurine doppie e triple, ma soprattutto quelle introvabili, fossero o no nelle proporzioni attese da una produzione e distribuzione correttamente uniforme.

Ora ho il frigorifero zeppo di cibarie e ho anche stipato in cantina un buon numero di provviste non deteriorabili, ma in compenso ho racimolato più di cento bustine per un totale di quasi 520 figurine. A mano a mano che le aprivo, prendevo nota. Alla fine della raccolta avevo la mia serie di frequenze: 26 singole, 42 doppie, 27 triple, 46 quadruple, 18 quintuple, 4 sestuple e 4 settuple. Nell’album, che aveva posto per 180 figurine, rimanevano dunque 13 posti vuoti. Troppi? Forse che queste figurine erano rare perché furbescamente stampate in pochi esemplari, così da invogliare i ragazzini (i.e. (?) costringere i genitori) a procurarsi altre bustine per riuscire a completare la collezione? Nell’esercizio di verifica ho coinvolto anche Stefano Andreon, un collega che la statistica la conosce molto meglio di me e che ha una libreria di programmi di calcolo in cui trovare quello giusto (o quello da modificare per adattarlo rapidamente alle nuove esigenze), ma soprattutto che si diverte a risolvere questi problemi.
Come prima cosa abbiamo verificato, usando esclusivamente la sequenza delle frequenze osservate, che il numero totale di figurine (distinte) in circolazione fosse quello indicato dall’album (180 nel nostro caso), ottenendo la più che rassicurante stima di 178 (+/– 7). Poi, utilizzando anche questa informazione, abbiamo appurato che il “gioco” era onesto e che tutti gli esemplari erano ragionevolmente equiprobabili, nonostante dopo ben 520 figurine raccolte, 13 non fossero mai comparse. Ma tant’è, Poisson e la sua distribuzione non fanno sconti.
La possibilità di utilizzare la serie delle frequenze per determinare l’ampiezza di una popolazione, di cui sono stati visti una o più volte alcuni esemplari, è particolarmente interessante e trova applicazione in molti campi della scienza. Martin Harwit e Roger Hildebrand, nel 1986, provarono ad applicare questa tecnica statistica all’astronomia per rispondere niente di meno che alla domanda “Quante scoperte ci rimangono da fare nell’universo?” Insieme, scrissero un breve articolo che fu pubblicato su Nature (v. 320, p. 724, 1986) e che riprendeva una vecchia idea che Harwit, un noto astrofisico allora alla Cornell University, aveva presentato in maniera estesa e dettagliata nel 1975 sul Quarterly Journal della Royal Astronomical Society (16, 378) e successivamente anche in un libro (Cosmic Discovery: The Search, Scope and Heritage of Astronomy, the MIT press, 1984). L'idea era appunto quella di calcolare il numero totale delle possibili scoperte astronomiche, partendo dalla convinzione che queste siano un numero finito e calcolabile, come quello delle montagne, dei fiumi e dei mari che gli esploratori hanno trovato sul nostro pianeta. E in effetti è difficile negare che al giorno d’oggi non ci si aspetti più di scoprire altri fiumi, monti e mari, sebbene ai tempi della caduta dell’impero romano il loro censimento potesse sembrare un’impresa senza fine. Harwit sosteneva inoltre che presto si sarebbe potuto dire la stessa cosa in merito alla scoperta di nuove specie vegetali o animali. E, anche se molte nuove specie animali (soprattutto insetti) sono state scoperte solo recentemente, è ragionevole pensare che il grosso sia già stato catalogato. Harwit decise di adottare, per il calcolo, l’approccio statistico descritto poc’anzi, trattando le scoperte astronomiche alla stregua delle figurine di un album.


Per calcolare quante scoperte astronomiche ci rimangono da fare, Harwit per prima cosa prende in considerazione quelle già fatte e ne conta 45 (l’elenco completo è nel lavoro pubblicato sul Quarterly Journal della RAS e contiene voci come: pianeti, nane bianche, supernovae, ammassi globulari, galassie, lampi gamma e così via). Poi analizza quante di queste siano state fatte indipendentemente una seconda volta, ad esempio in seguito allo sviluppo di nuove tecniche osservative (come la radioastronomia) e ne conta 7, o addirittura una terza volta, e ne indica una. Costruisce quindi la sequenza delle frequenze: 37; 7; 1; con cui calcolare il numero totale. La sua conclusione è sorprendente: quanto già scoperto rappresenta una frazione significativa (circa la metà) di tutto quanto c’è da scoprire e quindi, tra non molto, avremo concluso lo studio dell’universo, così come abbiamo concluso la mappatura delle montagne, dei fiumi e dei mari del nostro pianeta! Il problema dell’analisi di Harwit è nelle ipotesi: nelle assunzioni di casualità e indipendenza – tutte da dimostrare – degli elementi considerati (quelli che lui chiama “scoperte” e che assimila alla figurine di una raccolta), nonché nella stessa definizione di scoperta. Anche la bassa statistica (solo una cinquantina di eventi) non lo aiuta. Non voglio comunque addentrarmi qui in una disamina critica delle assunzioni, definizioni e calcoli utilizzati da Harwit e quindi mi limito a dire che sulla validità delle sue conclusioni nutro forti perplessità. Perplessità che posso spiegare in maniera molto più interessante e semplice prendendo in considerazione quanto è possibile aggiungere oggi, quasi trent’anni dopo, alla sua lista. Vengono subito in mente i buchi neri, i dischi proto-planetari, le lenti gravitazionali, le nane brune e la varietà di pianeti extrasolari, le magnetar, le pulsar, le binarie e le ipernovae, l’inflazione cosmica ma soprattutto la quantità di materia oscura e di energia oscura presenti nell’universo! Non è un elenco esaustivo, anzi, potrei continuare.

Già Zwicky, studiando la dinamica delle galassie negli ammassi aveva capito che vi doveva essere molta più materia di quanta se ne vedesse (v. “le Stelle” n.65, p. 40). Una materia, dunque, oscura. In seguito, anche dallo studio delle curve di rotazione delle galassie si dedusse la pre- senza di un eccesso di materia – sempre invisibile – che tradiva la sua presenza per gli effetti gravitazionali che induceva sulla materia luminosa (stelle). La sua natura continuava però a essere misteriosa. Infine, ci si è resi conto che questa materia oscura è molto più abbondante (ammonta a circa l’80% di tutta la materia dell’universo) di quella comune costituita fondamentalmente da protoni, neutroni ed elettroni che si aggregano negli atomi a noi famigliari. Ancor più recentemente, l’analisi e l’interpretazione dei dati ottenuti osservando le esplosioni di supernovae, ci ha portati al risultato più sorprendente di questi ultimi anni, e cioè che l’universo si espande in modo accelerato e che per comportarsi così deve essere dominato per tre quarti da una forma di energia che tuttora, a più di dieci anni dalla sua scoperta e dopo un premio Nobel (v. “le Stelle” n. 101, pp. 4-5), continua ad esserci ignota. Ci ritroviamo quindi a meditare sul fatto che tutto quanto siamo in grado di vedere e capire oggi rappresenta sì e no il 5% di un universo che al 95% è per noi ancora profondamente “oscuro”. Per non parlare poi delle ipotesi sull’eventuale non-unicità dell’universo stesso. Risulta dunque difficile pensare che il grosso delle scoperte astronomiche sia alle nostre spalle e che si sia vicini a completarle. Bene! È stimolante sapere che c’è ancora molto da fare e da imparare. Per dirla con Schiaparelli:

“Dobbiamo anche confidare un poco in ciò che Galileo chiamava la cortesia della Natura, in grazia della quale talvolta da parte inaspettata sorge un raggio di luce a illuminare argomenti prima creduti inacces- sibili alle nostre speculazioni [...]. Speriamo dunque. E studiamo.”

I nuovi strumenti che stiamo completando o iniziando a costruire (ALMA, JWST, E-ELT, SKA e altri ancora) ci permetteranno di scrutare l’universo a tutte le lunghezze d’onda e con sempre maggior dettaglio e ci forniranno illuminanti raggi di luce. Troveremo la risposta a molte delle domande che ci poniamo attualmente ma soprattutto scopriremo cose che porteranno a formularne di nuove e ancora più interessanti.

Quante scoperte ci rimangono dunque da fare nell’universo? Sicuramente molte più di quante oggi immaginiamo. Dunque studiamo. 

Fonte: Le Stelle n°114,  Gennaio 2013


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Di latticini, biotecnologie e latte sintetico

La produzione di formaggio è tradizionalmente legata all’allevamento bovino, ma l’uso di batteri geneticamente modificati per produrre caglio ha ridotto in modo significativo la necessità di sacrificare vitelli. Le mucche, però, devono comunque essere ingravidate per la produzione di latte, con conseguente nascita dei vitelli: come si può ovviare? Una risposta è il latte "sintetico" (non propriamente coltivato), che, al di là dei vantaggi etici, ha anche un minor costo ambientale.

Per fare il formaggio ci vuole il latte (e il caglio). Per fare sia il latte che il caglio servono le vacche (e i vitelli). Cioè ci vuole una vitella di razza lattifera, allevata fino a raggiungere l’età riproduttiva, inseminata artificialmente appena possibile con il seme di un toro selezionato e successivamente “forzata”, cioè con periodi brevissimi tra una gravidanza e la successiva e tra una lattazione e l’altra, in modo da produrre più latte possibile per il maggior tempo possibile nell’arco dell’anno.