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Energie rinnovabili: nuovo affare o rivoluzione?

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Secondo Our World in Data, le energie rinnovabili sono sempre meno costose, ma nonostante questo l'energia proviene ancora da carbone, petrolio e gas.

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Quanto costa l’ambiente? Benché abbia un valore inestimabile, paragonabile a quello della sopravvivenza della nostra specie, in un articolo pubblicato lo scorso 1° dicembre Our World in Data viene riportata un’analisi sulla sostenibilità, non solo ambientale ma anche economica, delle energie rinnovabili rispetto a quelle da combustibili fossili (carbone, petrolio e gas), che ad oggi rappresentano circa il 79% della produzione energetica mondiale e circa l'87% delle emissioni totali di CO2.

Un mondo alimentato da combustibili fossili non è evidentemente sostenibile per l’ambiente: mette in pericolo il sostentamento delle generazioni future e della biosfera di cui noi stessi facciamo parte. Ma benché le possibili alternative, come le energie rinnovabili, siano molto più sicure e pulite, rimane pur sempre il carbone la principale fonte, fornendo circa il 37% dell'elettricità, e il gas è al secondo posto, procurando circa il 24% di energia.

Sappiamo che il mondo fa ormai da molto tempo affidamento sui combustibili fossili. Se prendiamo il caso del petrolio, fino a qualche decennio fa l’estrazione non richiedeva tecnologie costose e sofisticate e tutto sommato si trattava di un processo piuttosto economico. Poi, a causa dell’esaurimento dei giacimenti più semplici da sfruttare, le riserve petrolifere – da non confondere con le risorse, che, come suggerisce Jeremy Rifkin nel suo datato ma nuovamente attuale libro «Economia all’idrogeno», rappresentano solo una stima teorica di quantità di petrolio in una determinata zona – sono via via diminuite nel tempo, al punto che oggi si parla di dover cercare il petrolio in zone del pianeta di difficile accesso, per cui sono richieste tecnologie più avanzate che contribuiscono ad aumentare i costi di estrazione.

È evidente, quindi, che la «convenienza» di una determinata fonte di energia non sia dovuta solo alla sicurezza ambientale, ma anche alla spesa che comporta il suo utilizzo. Se vogliamo che il mondo sia alimentato da alternative più sicure e pulite, dobbiamo pertanto assicurarci che tali alternative siano anche più economiche dei combustibili fossili.

Il costo energetico livellato (LCOE) è un «metro di misura» che consente di confrontare il costo medio dell’energia prodotta dai diversi tipi di impianto, tenendo conto della loro vita media e delle fonti energetiche che essi sfruttano, e si misura in unità monetarie divise per unità di misura di lavoro dell'energia prodotta (per esempio, euro/chilowattora). Il LCOE comprende, cioè, il costo di costruzione e manutenzione della centrale, il costo operativo, quello del combustibile e il ritorno sull’investimento.

Facendo un confronto dei costi relativi alle diverse fonti energetiche, soltanto dieci anni fa era molto più conveniente costruire una centrale elettrica a combustibili fossili piuttosto che un nuovo impianto fotovoltaico o eolico: quest’ultimo era del 22% più costoso del carbone e il solare del 223%.

Ma, mentre nel 2009 l'elettricità prodotta dal fotovoltaico su scala industriale – ovvero, l’energia prodotta da impianti fotovoltaici con potenza maggiore di un megawattora – costava 359 dollari per MWh (megawattora, cioè 1.000 chilowattora), in appena dieci anni il prezzo è diminuito dell'89%, raggiungendo un costo di 40 dollari per MWh. Anche il prezzo dell’elettricità da energia eolica è passato da 135 dollari per MWh a 41 dollari per MWh, con una diminuzione del 70%. Una leggera decrescita dei prezzi si è verificata anche per il gas (da 83 a 56 dollari per MWh), mentre il carbone ha mantenuto un costo di circa 110 dollari per MWh. È aumentato, invece, il costo del nucleare (da 123 a 155 dollari per MWh), per le ragioni di sicurezza che noi tutti conosciamo e per la conseguente diminuzione di centrali nucleari negli ultimi anni, che ha ridotto enormemente la capacità delle catene di fornitura di competere sul mercato mondiale.

In altre parole, in soli dieci anni la situazione si è capovolta: il costo medio dell’energia elettrica prodotta da una centrale a carbone, è oggi significativamente superiore a quello dell’energia prodotta da un impianto eolico o fotovoltaico. Qual è il motivo di una così rapida diminuzione dei costi delle energie rinnovabili?

Mentre la produzione di elettricità da combustibili fossili e da energia nucleare deve fare i conti con i prezzi delle fonti e con i costi di esercizio delle centrali, nel caso degli impianti di energia rinnovabile questi ultimi sono relativamente bassi e inoltre non deve essere pagata alcuna materia prima: le loro fonti sono infatti il vento e il sole, che non devono certo essere estratti dal terreno. Ciò che invece determina il costo dell'energia rinnovabile è lo sviluppo della tecnologia necessaria all’efficiente funzionamento, eccezion fatta per l’idroelettrico, che richiede bassa tecnologia pur trattandosi di energia alternativa e rinnovabile, ma che necessita di un’olografia adeguata e della presenza di regolari precipitazioni. L’abbattimento dei prezzi del fotovoltaico, verificatosi nell’ultimo decennio, dipende infatti da una repentina diminuzione dei costi della tecnologia utilizzata. Un vantaggio economico che abbiamo visto negli ultimi anni, ma che viene da lontano.

Il primo prezzo dell’energia da solare riportato nell’articolo di Our World in Data risale, infatti, all'anno 1956, quando il costo di un solo Watt era equivalente ai 1.865 dollari del 2019. Se pensiamo che oggi un singolo pannello installato sul tetto di una casa produce circa 320 Watt di potenza, significa che al prezzo del 1956 costerebbe 596.800 dollari (più di mezzo milione di dollari). Un costo particolarmente oneroso, dovuto ai più moderni e sofisticati processi industriali di allora: si trattava, infatti, di un genere di tecnologia che veniva impiegata in USA e in URSS per fornire elettricità ai satelliti nello spazio, il primo dei quali fu Vanguard I nel 1958.

La crescente domanda ha tuttavia innescato negli anni un incremento di produzione che, oltre a un miglioramento dell’efficienza tecnologica, ha portato a un conseguente calo dei prezzi, che a sua volta ha prodotto un aumento della domanda.

Rendere la tecnologia a basse emissioni di carbonio a buon mercato è un obiettivo politico che non solo riduce le emissioni nel proprio paese, ma ovunque, in quanto nei prossimi anni la maggiore crescita di domanda non proverrà dai paesi sviluppati, ma da quelli in via di sviluppo. Al buon prezzo dovrà anche aggiungersi un discreto aumento dell’efficienza dei materiali utilizzati e delle tecniche di conversione in energia elettrica. Un problema che richiede ulteriore progresso tecnologico.

Impianti tecnologicamente sofisticati richiedono tuttavia del personale preparato, in grado di gestire l’inevitabile complessità tecnologica, e, come già detto, costi di esercizio relativamente bassi. Potrebbe voler dire che l’utilizzo di tecnologie avanzate e la mancata necessità di estrarre e affinare la materia prima portino a una diminuzione della forza-lavoro? In altre parole, potremmo raggiungere il paradosso teorizzato da Karl Marx? Figlio di altri tempi, certo, ma le contraddizioni di cui parlava erano proprio legate al progresso tecnologico: per aumentare la produttività, il sistema capitalista avrebbe investito sempre di più in tecnologia, necessitando sempre meno di forza-lavoro, che tuttavia è l’unica fonte che produce plusvalore, e così facendo il sistema avrebbe progressivamente diminuito il profitto. Al di là della provocazione, è seria la riflessione da fare sulle scelte socioeconomiche che dovranno accompagnare una giusta e necessaria transizione energetica.

Ultimo ma non da ultimo, dovremo tenere conto anche della conversione dell’intera rete di distribuzione energetica, assicurarne il potenziamento in certe zone, garantire le interconnessioni fra paesi e chiederci cosa comporterebbe sul mercato mondiale una «generazione distribuita». Se la volontà fosse quella di mantenerla centralizzata, cioè di prevedere comunque la realizzazione di grandi centrali che vendono e distribuiscono l’energia proprio come adesso, i mercati sarebbero, con ogni probabilità, in grado di superare la transizione senza eccessivi sconvolgimenti: si pensi al gigante Shell, il cui nuovo piano consiste nella riduzione dei costi di produzione di gas e petrolio e concentrarsi sul mercato dell'energia rinnovabile ed elettrica; o a Eni, il cui progetto è non solo quello di riconvertire le relative infrastrutture per la cattura e lo stoccaggio permanente della CO2, ma anche di sviluppare nuove tecnologie per le energie rinnovabilie. In altre parole, con la preparazione alla transizione energetica delle grandi compagnie di petrolio e gas, l’ambiente diventa il nuovo dominio di profitto per il capitalismo finanziario.

Se, invece, optassimo per una «generazione distribuita», cioè non più grandi centrali collegate a grandi reti, ma una moltitudine di piccole e medie unità produttive distribuite sul territorio, a basso voltaggio e direttamente collegate all’utenza finale, un tale passaggio risulterebbe una totale rivoluzione per il mercato mondiale. Ci troviamo di fronte a un cambiamento epocale, un passaggio che non ha precedenti e che deve generare domande e trovare risposte. Una transizione energetica indispensabile per noi e per il sistema terra, che richiederà un cambio di paradigma.

 

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