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Febbre d'astronauta

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Il nostro astronauta Luca Parmitano (ESA) a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. Primo italiano ad effettuare un'attività extraveicolare nello spazio, poco dopo l’inizio della sua seconda uscita è stato costretto a rientrare per il pericoloso accumularsi di acqua nel casco della sua tuta spaziale. Crediti: ESA/NASA.

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Prima era solamente un sospetto che emergeva dai racconti degli astronauti, ora i dati raccolti da un team di ricercatori lo provano senza ombra di dubbio: tra le conseguenze di una prolungata permanenza nello spazio dobbiamo mettere anche la febbre. Un importante tassello va dunque ad aggiungersi alla nostra comprensione dei meccanismi fisiologici che si attivano quando abbandoniamo la superficie del nostro pianeta. Meccanismi che è indispensabile conoscere a fondo se intendiamo dar seguito a quei progetti che prevedono nel futuro del genere umano il dover affrontare lunghi viaggi spaziali.

Febbre da spazio

Un team di ricercatori dell’Ospedale universitario della Charité di Berlino coordinato da Hanns-Christian Gunga ha provato a gettare luce sul meccanismo della regolazione della temperatura dell’organismo umano nello spazio pubblicando uno studio a fine novembre su Nature - Scientific Reports. Nonostante l’importanza che riveste per valutare gli effetti della permanenza umana nello spazio, l’ambito di ricerca è decisamente nuovo. Mentre, infatti, sono numerosi gli studi che affrontano questo aspetto per le condizioni a terra, mancano le analisi delle problematiche che sorgono nello spazio, soprattutto in presenza di missioni di lunga durata.

La termoregolazione del nucleo dell’organismo è uno tra gli importanti compiti dell’ipotalamo, una struttura del sistema nervoso situata tra i due emisferi cerebrali. È l’ipotalamo, infatti, che attiva sia i meccanismi in grado di aumentare la dissipazione termica, per esempio con la vasodilatazione e l’aumento di sudorazione, sia quelli che operano in senso opposto, per esempio aumentando la produzione di calore nell’organismo. Per garantire che le capacità fisiche e mentali di un individuo siano ottimali è indispensabile che la temperatura che caratterizza il cervello e gli organi interni - la cosiddetta Core Body Temperature o CBT - si mantenga molto prossima ai 37 °C. Come è stato sottolineato da numerosi studi clinici, significative deviazioni da questo valore, per esempio scendere al di sotto dei 33 °C o salire oltre i 40 °C, possono persino mettere a repentaglio la vita di un individuo. Non è un caso, insomma, che tra le raccomandazioni emanate dal Dipartimento della salute e dei servizi umani degli Stati Uniti (U.S. Department of Health and Human Services) leggiamo che per un lavoratore impiegato quotidianamente in attività pesanti prolungate la CBT non debba superare i 38 °C.

Una situazione per la quale è raccomandabile essere sempre al top psicofisico è senza dubbio quella che caratterizza gli astronauti. Il guaio è che a bordo della Stazione Spaziale Internazionale, per quanto ci si preoccupi di renderla il più possibile accogliente, le condizioni di vita degli astronauti non sono certo quelle alle quali siamo abituati al suolo. Non solo, infatti, i suoi occupanti si trovano a fare i conti con un permanente stato di microgravità, ma devono anche convivere con una situazione di stress decisamente elevata. Potrebbero essere proprio queste condizioni all’origine degli anomali innalzamenti di temperatura corporea sperimentati dagli astronauti e confermati dallo studio di Gunga.

I dati e i risultati

Il team ha raccolto i dati di undici astronauti, sette uomini e quattro donne, registrando le loro temperature corporee sia a riposo che durante una sequenza di esercizi fisici nei tre mesi che hanno preceduto la loro partenza per lo spazio. Una volta raggiunta la stazione spaziale, nel corso dei sei mesi di durata nominale della loro missione è stato raccolto un secondo set di dati. Una terza serie di valori di temperatura, infine, è stata raccolta nei trenta giorni che hanno seguito il rientro degli astronauti a terra.

Generalmente la misurazione della CBT viene eseguita con metodi piuttosto invasivi, assolutamente impraticabili sulla Stazione spaziale. Per questo si è fatto ricorso a un innovativo e affidabile sensore di temperatura, già sperimentato anche in test clinici, posto sulla fronte degli astronauti e in grado di registrare la temperatura della pelle e il flusso di calore.

L’analisi dei dati raccolti ha permesso anzitutto a Gunga e collaboratori di osservare che nel corso di missioni di lunga durata la temperatura degli astronauti a riposo si mantiene costantemente al di sopra dei 37 °C, mentre durante le previste attività fisiche supera la soglia dei 39 °C (in qualche caso ha superato anche i 40 °C).

Nel grafico, tratto dallo studio citato, è evidente l’innalzamento della temperatura del nucleo corporeo degli astronauti rispetto alla situazione pre-missione, un innalzamento che appare molto più pronunciato in situazione di attività fisica. Si nota anche come, una volta conclusa la missione, il ritorno ai valori registrati prima della partenza per lo spazio sia molto graduale e tutt’altro che regolare. In ascissa sono indicati i giorni trascorsi e in ordinata la CBT in °C; l’area ombreggiata indica il periodo trascorso nello spazio. Fonte: Alexander Stahn et al. - Scientific Reports volume 7, Article number: 16180 (2017).

Nello studio si evidenzia come l’innalzamento della temperatura a riposo sia un fenomeno lento e graduale che raggiunge il suo apice dopo alcuni mesi di permanenza nello spazio. I ricercatori hanno inoltre rilevato che nello spazio l’aumento della temperatura durante le sessioni di lavoro è più rapido e raggiunge il massimo anche dopo brevi periodi di attività fisica e questo nonostante il carico di lavoro svolto dagli astronauti fosse meno intenso di quello del periodo pre-missione.

Oltre alla misurazione della temperatura, lo studio prevedeva anche specifiche analisi del sangue, anch’esse svolte prima, durante e dopo la permanenza sulla Stazione spaziale. Grazie a queste analisi i ricercatori hanno evidenziato un aumento della concentrazione del recettore antagonista dell'interleuchina 1 (IL-1RA), una proteina che inibisce gli effetti infiammatori stimolati dall’interleuchina 1 (IL-1). Oltre alla componente ambientale, riconducibile alla microgravità, che ostacolerebbe il regolare meccanismo di trasferimento del calore corporeo verso l’esterno, vi sarebbe dunque anche una risposta pro-infiammatoria dell’organismo.

Difficile individuare, secondo i ricercatori, quale possa essere la causa principale di questa sgradevole febbre da spazio. Molto probabilmente ad essa contribuiscono la persistente risposta pro-infiammatoria dell’organismo e la situazione di assenza di peso, ma è indispensabile mettere in conto anche la presenza di radiazioni, gli strenui protocolli di esercizio ai quali gli astronauti si devono attenere e, non ultima, l’ipertermia indotta dallo stress psicologico.

Insomma, alla base del fenomeno vi sarebbe un mix di condizioni ambientali alle quali l’organismo risponderebbe con un pericoloso innalzamento della temperatura. Una situazione che sarà indispensabile valutare attentamente non solo per salvaguardare al meglio la salute degli astronauti a bordo della Stazione spaziale, ma soprattutto in vista dei tanto decantati viaggi spaziali di lunga durata. A questo proposito, se non vogliamo che gli equipaggio delle future missioni verso Marte giungano a destinazione completamente debilitati per il lungo periodo di stato febbrile sarà necessario individuare opportune ed efficaci contromisure.

 


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