L’origine di molte malattie non comunicabili è da ricercarsi nell’età dello sviluppo, quando l’organismo è particolarmente suscettibile ai fattori ambientali. Finora si è prestato poca attenzione a questa eziologia. Eppure essa ha profonde implicazioni sia per la ricerca sia per la salute pubblica. È questa, in buona sostanza, il succo di un recente articolo pubblicato su Environmental Health, dal ricercatore francese Robert Barouki, della Université Paris Descartes, e da un gruppo di collaboratori, centrato sull’esigenza di guardare con occhi nuovi al rapporto fra ambiente, salute ed età evolutiva.
Quella dello sviluppo, sostengono Barouki e i suoi colleghi, è un’età plastica per definizione. Perché è l’età in cui l’organismo deve imparare ad adattarsi nell’ambiente – in un ambiente che cambia – conservando il più possibile le sue capacità di riprodursi in futuro. La plasticità è massima durante la fase di massima accelerazione dello sviluppo, ovvero allo stato fetale o nei primi mesi dopo la nascita, quando la differenzazione cellulare corre appunto veloce e si formano organi e tessuti. Ma in realtà bisogna tener presente che lo sviluppo – sia pure diversificato per ciascun organo e tessuto – giunge fino all’adolescenza e oltre.
Troppo spesso si è pensato che questa
fase della vita è guidata in buona sostanza dalla genetica. E non si è tenuto
conto dell’estrema sensibilità ai fattori ambientali. Nell’età (nelle età) dello
sviluppo l’organismo è estremamente sensibile a fattori esterni, come i nutrienti,
le sostanze chimiche, i farmaci, le infezioni e ogni altra fonte di stress. Non
meraviglia, dunque, che un numero crescente di evidenze empiriche dimostra che
è in questo periodo che si gettano le basi per una vita in salute o segnata da
malattie non comunicabili. In particolare, sostengono i
ricercatori francesi, la ricerca scientifica ha dimostrato che i nutrienti e
gli elementi tossici giocano un ruolo di eguale peso per la salute futura dell’organismo.
La ricerca ha anche dimostrato che
negli ultimi 40 anni si registra una maggiore incidenza delle malattie non
comunicabili rispetto al passato. Questa crescita dell’incidenza è stata troppo
veloce per poter essere attribuita a cause genetiche. È evidente che hanno
giocato fattori ambientali, naturali e/o di origine antropica a livello di
nutrienti o di esposizione a sostanze chimiche diffuse nell’ambiente.
Se vogliamo migliorare la prevenzione delle malattie non
comunicabili, occorre dunque che sia la
ricerca sia la politica sanitaria facciano proprio il concetto di Developmental Origins of Health and Disease (DOHaD), di origine
nell’età evolutiva della salute e della malattia. In particolare Robert Barouki e i suoi colleghi sottolineano che l’una e l’altra,
la ricerca e la politica sanitaria, debbano prestare la maggiore attenzione
alle prime fasi dell’età dello sviluppo (ovvero all’età fetale e ai primi anni
di vita), migliorando l’accesso ai migliori nutrienti e minimizzando l’esposizione
a sostanze chimiche tossiche, siano esse naturali o di origine antropica.
In realtà, aggiungiamo noi, non bisogna abbassare la guardia
neppure nelle fasi successive dello sviluppo, quando i bambini e poi gli
adolescenti acquisiscono una sempre maggiore indipendenza e sono esposti a fattori
di rischio diversi.
A ben vedere il concetto di Developmental Origins of Health and Disease chiama in causa, in ogni caso, la “percezione del rischio”, che è a sua volta alla base di molti comportamenti modificabili degli umani. Solo una corretta ed estesa percezione del rischio da parte degli adulti può prevenire l’esposizione di feti e bambini nei primi anni di vita agli inquinanti ambientali e ottimizzare l’accesso ai nutrienti. Ma solo un equilibrio ben dosato tra percezione del rischio degli adulti e percezione del rischio di ragazzi e adolescenti può fare altrettanto nelle fasi superiori dello sviluppo. Ne deriva che occorrerebbe studiare di più la percezione del rischio ambientale e sanitario sia negli adulti sia nei bambini e negli adolescenti. Ma se nel primo caso le ricerche sono già numerose e il solco è stato almeno segnato, nel secondo caso c’è ancora quasi tutto da fare.
Non sappiamo quasi nulla, in particolare, di come bambini e ragazzi percepiscono il rischio ambientale e sanitario. Di conseguenza non sappiamo come educare ai comportamenti che minimizzano il rischio.