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Una piccola speranza per il tumore al pancreas

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La metafora del cavallo di Troia è trita e ritrita, ma è anche la più semplice per spiegare l’idea che ha permesso di scalfire la purtroppo ben nota refrattarietà alle cure del tumore al pancreas: rinchiudere il farmaco, in questo caso il paclitaxel, usato da vent’anni per la cura di diverse forme di cancro, in un guscio di albumina, per nasconderlo al tumore e trarlo in inganno. Questo espediente facilita la diffusione del farmaco nel circolo sanguigno, il suo passaggio ai tessuti e il suo ingresso nelle cellule tumorali, le quali, “golose” della proteina e ignare del suo contenuto nascosto, lo inglobano in grande quantità, segnando in tal modo il proprio destino. Il Nab-paclitaxel, così si chiama il prodotto, è già utilizzato in Italia e in Europa contro le forme più avanzate di tumore al seno che non abbiano risposto ad altre cure e da qualche mese, negli Stati Uniti, anche contro il tumore del polmone non a piccole cellule in associazione al cis-platino.

Sono in corso studi per valutarne l’efficacia anche nei confronti del melanoma, del carcinoma ovarico e del tumore al seno triplo negativo.

Ora i risultati dello studio MPACT (Metastatic Pancreatic Adenocarcinoma Trial), un trial randomizzato multicentrico internazionale di fase III, apre nuove prospettive anche nei confronti del tumore al pancreas, una forma di cancro che, sebbene relativamente poco frequente – rappresenta circa il 3 per cento di tutti i tumori in Italia -- è tra le prime cause di morte per cancro in entrambi i sessi. «La ricerca ha messo a confronto il trattamento standard a base di gemcitabina con uno in cui a questo farmaco è stato aggiunto il complesso albumina-paclitaxel in nanoparticelle» spiega Michele Reni, coordinatore dell’Area Attività scientifica dell’Unità Operativa di Oncologia medica all’Istituto San Raffaele di Milano. Lo studio, condotto su 861 pazienti con adenocarcinoma del pancreas in fase avanzata reclutati in tutto il mondo, Italia compresa, è il  più ampio che sia mai stata condotto su questa malattia ed è stato presentato al congresso dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO) che si è tenuto a San Francisco a fine gennaio.

I suoi risultati vanno interpretati  alla luce delle aspettative attuali di chi riceve questa diagnosi: «Purtroppo il 60 per cento degli adenocarcinomi del pancreas vengono individuati quando già hanno dato metastasi, il 30 per cento quando sono già avanzati localmente e solo in un caso su dieci in una fase in cui sono ancora asportabili chirurgicamente» afferma Salvatore Siena, direttore della Divisione di oncologia Falck, Dipartimento oncologico dell’Ospedale di Niguarda, a Milano. Per tutti questi pazienti la prognosi è infausta: «Per le forme metastatiche è in media di circa 5 mesi, per quelle localmente avanzate di dieci mesi, per quelle resecabili di due anni» prosegue l’oncologo milanese.

«Dallo studio è emerso che il Nab-paclitaxel sposta in avanti la curva di sopravvivenza in tutte queste fasi» dice Reni, «con una risposta che inizialmente è clamorosa: le tecniche di imaging mostrano una vistosa riduzione della massa tumorale, quando non la sua scomparsa. E lo stesso vale per le metastasi, anche quando sono numerose e diffuse». Un’azione che si riflette in maniera importante sulla sintomatologia e quindi sulla qualità di vita. Purtroppo l’effetto della terapia non dura, e la mediana di sopravvivenza si sposta in là solo di un paio di mesi. «Il vantaggio però si fa più evidente col passare del tempo» prosegue l’oncologo del San Raffaele. «Dopo un anno, nel gruppo trattato con la terapia combinata,  la sopravvivenza era del 35 invece che del  22 per cento e dopo due anni era più del doppio (9 per cento) rispetto al gruppo assegnato alla sola gemcitabina (4 per cento). In totale, la terapia riduce del 28 per cento il rischio di morire per questa malattia e incide in maniera analoga sulla sopravvivenza libera da progressione. Un risultato soddisfacente in oncologia, soprattutto alla luce delle caratteristiche di questa particolare forma di cancro».

«Il prossimo passo sarà individuare marcatori predittivi della risposta» interviene Giampaolo Tortora, direttore dell’Unità Operativa Complessa di Oncologia Medica presso l’Azienda Ospedaliera Integrata di Verona. «Uno dei primi candidati a questo ruolo è la proteina SPARC (Secreted Protein Acidic and Rich in Cysteine), una sostanza prodotta in grande quantità dai tumori, che lega l’albumina e la introduce nella cellula tumorale. E’ questa proteina quindi che veicola il farmaco, nascosto nell’albumina, all’interno delle cellule e determina così la specificità della cura, che tende a concentrarsi nelle cellule tumorali risparmiando quelle sane, le quali producono questa sostanza in quantità molto inferiori».

«Studiando i meccanismi che determinano la resistenza che interviene nei confronti del farmaco potremo poi forse riuscire ad aggirarla» conclude Siena. «Anche le leucemie infantili o il tumore al seno pochi decenni fa sembravano malattie invincibili e oggi non lo sono più. Un giorno, forse proprio a partire da questo primo successo, potremo dire lo stesso del tumore al pancreas che oggi appare tanto difficile da sconfiggere». 


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