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I precari a vita dell’università

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Giovedì scorso, 4 dicembre, è stata presentata a Roma, nell’ambito di un’iniziativa della Federazione Lavoratori della Conoscenza della Cgil, un’indagine sul lavoro precario nelle università italiane.
I precari nelle università sono lavoratori molto qualificati (hanno la laurea e spesso un PhD, molti hanno superato valutazioni e concorsi, tanti hanno lavori di prestigio su riviste scientifiche con peer review internazionali), che svolgono un lavoro di formazione e di ricerca.

Lo studio ha per titolo Ricercarsi. Indagine sui percorsi di vita e di lavoro sul precariato universitario, è stato coordinato da Emanuele Toscano, sociologo dell’Università Guglielmo Marconi di Roma, ed è stato realizzato in collaborazione con tre ricercatori (Francesca Coin, Università Ca’ Foscari di Venezia; Orazio Giancola Barbera, Università La Sapienza di Roma; Francesco Vitucci, Università di Catania) e con un web designer (Claudio Riccio).
Il lavoro di analisi sociologica è molto articolato. Con ricerche di tipo qualitativo sulle condizioni di lavoro e la percezione che ne hanno i lavoratori non stabilizzati delle università italiane. Ed è corredato da un’indagine statistica, fondata su dati ufficiali del Miur, molto interessante. Su cui conviene soffermarsi, per capire di cosa parliamo quando affrontiamo il tema del lavoro precario nelle università italiane.
Nei 96 atenei presenti nell’elenco del Miur insegnano, a tempo determinato o indeterminato, 90.701 persone.
La gran parte di questo personale che svolge attività didattica – 85.387 lavoratori, pari al 94% del totale – opera in università statali (Figura 1). 


Figura 1 (Fonte: Ricercarsi)

Ricercarsi analizza anche l’universo dei 5.344 (il 6% del totale) che insegnano nelle università non statali. Ma in questa sede, per semplicità, considereremo solo chi lavora nelle università statali.
La Figura 2 ci mostra la composizione per tipologia di contratto del personale nelle università statali, aggiornata al 31 dicembre 2013.


Figura 2 (Fonte: Ricercarsi)

L’indagine mostra come nelle università statali il 60% dei lavoratori (professori ordinari, professori associati, ricercatori) abbia un contratto stabile, a tempo indeterminato. Si tratta di oltre 50.000, tra docenti e ricercatori.
Di conseguenza il numero di precari (assegnisti, borsisti, lettori, co.co.co e co.co.pro) è pari al 40% del personale totale. Si tratta di circa 34.379 persone, la gran parte delle quali (20.295, pari al 59% del totale precari) è titolare di un assegno di ricerca. Altri 4.597 (13% del totale precari) lavorano con una borsa di studio e di ricerca per laureati.
Ci sono, ancora, 7.064 titolari di contratto di prestazione autonoma (21% dei precari) e infine 2.423 titolari di un contratto a tempo indeterminato (7% dei precari). L’età media del personale non permanente è di 35 anni. Uno su 5 ha più di quarantenni e 2 su 5 hanno più di 37 anni (Figura 3).


Figura 3 (Fonte: Ricercarsi)

A questi vanno aggiunti i giovani e i meno giovani dottorandi, ovvero coloro che, in possesso di una laurea, studiano e insieme insegnano e fanno ricerca per acquisire il PhD. Alla fine del 2013 se ne contavano 33.895. Per cui un quadro più completo di chi lavora, a vario titolo, nelle università pubbliche è quello rappresentato in Figura 4:


Figura 4 (Fonte: Ricercarsi)

I dottorandi non sono, in senso stretto, precari. Sono ancora in una fase di studio. Tuttavia occorre tenerne conto, perché svolgono un’attività non solo di studio, ma anche di lavoro. E tenendone conto, si vede come la percentuale dei lavoratori permanenti nell’universo dei prestatori d’opera nelle università pubbliche scende al 43% e, di conseguenza, la percentuale di chi ha una posizione non permanente (precari in senso stretto e dottorandi) sale al 57% e diventa maggioritaria.
In realtà non è finita. Perché bisogna tener conto dei docenti a contratto. Difficile fare un conto di quanti siano, sappiamo però quante sono le docenze a contratto (una singola persona può avere più di un contratto anche in diverse università). La Figura 5 ci fornisce un quadro complessivo non tanto delle persone, quanto delle funzioni nelle università statali. E dimostra che i due terzi (il 65%, per la precisione) di questa funzioni è da attribuirsi a personale non permanente.


Figura 5 (Fonte: Ricercarsi)


La Tabella 1 ci fornisce contemporaneamente un quadro sintetico e storico del lavoro precario nelle università statali.

È interessante notare come le posizioni permanenti siano aumentate nel quinquennio compreso tra il 2004 e il 2008, passando da 54.769 a 60.254 (+10,0%); per poi crollare nei cinque anni successivi fino a 51008 posizioni nel 2013 (-22,0% rispetto al massimo relativo; -6,9% rispetto al 2004). Al contrario i precari sono aumentati, passando da un totale di 17.268 nel 2004 a 34.379 nel 2013 (+99,1%).
L’aumento ha riguardato soprattutto gli assegnisti di ricerca, passati da 9.873 a 20.295 (+105,6%). Il numero di dottorandi ha subito prima un netto incremento – da 29.450 nel 2004 a 39.357 nel 2008 (+33,6%) – e poi un deciso decremento, scendendo a 33.895 nel 2013 (-13,9%). Comunque, nell’arco del decennio il saldo è ancora positivo (+15,1%).
Un buon riassunto di tutto quanto detto è contenuto nella Figura 6. Dove risulta evidente la diminuzione delle posizioni permanenti e il netto incremento delle posizioni precarie.

Figura 6 (Fonte: Ricercarsi)

Infine le remunerazioni. In Figura 7 sono riportate le remunerazioni medie del personale con contratto a termine. C’è una differenza di genere: gli uomini guadagnano in media più delle donne. In media il 7% ha un reddito annuo da lavoro superiore a 30.000, il 25% circa ha un reddito annuo da lavoro compreso tra 20.000 e 30.000 euro; mentre quasi la metà guadagna tra 10.000 e 20.000 euro e uno su cinque guadagna meno di 10.000 euro in un anno.


Figura 7 (Fonte: Ricercarsi)

Questi numeri riguardano i lavoratori della conoscenza più qualificati che abbiamo in Italia.
Nel loro insieme le statistiche illustrate ci forniscono una buona base per capire verso quale università (e quale società) stiamo andando e per (ri)avviare una riflessione su quale università (e su quale società) vorremmo nell’era della conoscenza.


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