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Tra consenso disinformato e dissenso misinformato, procede la vaccinazione anti Covid-19

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La pandemia, così come le epidemie, è un evento che coinvolge l’intera collettività con modalità, esiti e responsabilità differenziate. Ed è quindi compito della collettività partecipare in modo appropriato e consapevole a contrastare il diffondersi dell’infezione: un ruolo attivo, collaborativo e consenziente perché informato.  

Crediti immagine: Mufid Majnun/Unsplash

Tempo di lettura: 7 mins
  1. Un’intera famiglia di cinque adulti non vaccinati viene ricoverata per Covid-19, due dei componenti direttamente in terapia intensiva. Mobilitazioni di piazza contro il green-pass in tutta Italia, con qualche episodio di violenza. I primi si sono giustificati dicendo d’aver dato fiducia ai consigli dell’antennista. I secondi a scienziati, opinionisti e politici alternativi, tra cui alcuni vecchi squadristi (se è vero, come sta emergendo, che alcuni esponenti di Forza nuova finanziano pagine e movimenti no-vax). In entrambi i casi il rischio che si alimentino cluster tra non vaccinati o tra provocatori sociali è alto e sarebbe da prevenire e da contenere.
  2. Sono alcuni milioni i lavoratori dipendenti non vaccinati, la maggioranza del settore privato. Eppure il personale scolastico è stato normato, anche molto dettagliatamente, anche se dei risultati dell’apposito sistema di monitoraggio scolastico si sono poi perse le tracce. Allora, perché gli insegnanti dovrebbero essere vaccinati, mentre ai tranvieri milanesi dovrebbe essere riconosciuta la discrezionalità soggettiva? Perché si discute se garantire agli obiettori il tampone gratuito ogni 48 ore? Quale consenso si cerca? Su quale conoscenza si basa il diritto? E di quale diritto parliamo?

Nonostante le decine di migliaia di ore di trasmissioni radio e televisive, le decine di migliaia di articoli, le battaglie sui social, le scelte della campagna vaccinale e i presupposti della gestione dell’emergenza non sono diventate un patrimonio condiviso. Le idee sulle vaccinazioni sono spesso confuse, le informazioni si mescolano alle emozioni, le scelte identitarie prescindono dagli aspetti pratici. E questo è vero in particolare contro Covid-19, per responsabilità che nel corso della pandemia si sono andate distribuendo su tanti e diversi attori. Sulla confusione informativa e conoscitiva i no-vax e i no-green pass hanno costruito movimenti con l’idea che chiunque ha il diritto di fare ciò che vuole, ciò che ritiene più giusto, al di fuori di ogni regola istituzionale collettiva. Ognuno agisce a vantaggio proprio, poco importa se a svantaggio altrui. Pensare solo o principalmente alla propria salute vuol dire negare quella pubblica, quindi anche lo Stato e alcuni valori etici e di solidarietà.

La risposta alla pandemia ha acuito queste posizioni ma ha anche ripresentato l’incapacità di prevenirle o contenerle. È l’idea di libertà che ciascuno rivendica a essere confusa e confondente, a indicare che la complessità della lotta a Covid-19 non è solo sanitaria, ma sicuramente pubblica. L’80% degli over 12 anni è vaccinato con due dosi e a breve si raggiungerà l’85% ed è, bisogna dirlo, un risultato davvero notevole, unico in Europa. Ma il 15%, quindi, non ha mai iniziato la vaccinazione, e tra questi poco meno di 2 milioni sono persone appartenenti alle categorie a rischio. Non sappiamo esattamente chi componga questo 15%. E tra questi quanti siano gli indecisi, i cosiddetti esitanti, e perché dopo quasi un anno di campagna vaccinale e quattro mesi di green pass ci sia ancora una percentuale non trascurabile di persone apparentemente refrattarie a farsi vaccinare, disposte, per esempio, a sottoporsi ogni 48 ore al tampone, una procedura spesso più invasiva e fastidiosa dell’inoculazione del vaccino stesso. O meglio, sappiamo che c’è un problema di comunicazione e di fiducia. E ora, ormai in vista il traguardo dell’85%, si fa strada l’obiettivo del 95% di copertura della popolazione. Ma, di nuovo, non è chiaro perché il 95%, né di quale popolazione si stia parlando, né se con due dosi o più.

Agli inizi degli anni ’80 l’Organizzazione mondiale della sanità aveva indicato il 95% come traguardo della campagna internazionale contro il morbillo. Una campagna che aveva visto l’Italia addirittura anticipare la raccomandazione dell’agenzia internazionale, anche se poi, nei fatti, i relativi piani nazionali risultarono inefficaci a lungo. Il valore del 95% fu un accordo raggiunto a tavolino, arrotondando la stima effettuata sulla base delle caratteristiche del singolo patogeno e quelle delle infezioni nella popolazione. La scelta di un valore di riferimento unico voleva anche semplificare l’informazione e la comprensione: 95% per il morbillo e un valore simile per la pertosse che è un’altra infezione altamente trasmissibile. Per le altre infezioni prevenibili con vaccino il valore di copertura stimato e indicato come riferimento per garantire un efficace controllo della diffusione, da mantenere nel tempo, per pensare poi all’eliminazione o all’eradicazione, era inferiore. Per esempio per poliomielite e difterite si stabilì l’85%. Erano quindi obiettivi di coperture vaccinali a partire dalla popolazione pediatrica, cioè quella più colpita dalle infezioni indicate. Ma il tasso di copertura ideale del 95%, indicato sia per la vaccinazione antimorbillosa che oggi per Covid-19 è qualitativamente identico? Avendo per target per tutte le fasce d’età?

Il rischio di contrarre un’infezione da virus respiratori, anche grave, è maggiore nei bambini che negli adulti. Forse anche per questo, e per l’innata attitudine nazionale che comunque i bambini vanno protetti, sin dall’inizio della pandemia le scuole sono state chiuse e hanno rappresentato l’ultima attività essenziale a riprendere. Si pensava inoltre che bambini e adolescenti fossero meno suscettibili degli adulti, così venivano meno testati e diagnosticati. Con le prime due ondate pandemiche la morbilità e mortalità di Covid-19 era a carico principalmente degli anziani, in particolare i grandi anziani, a maggior rischio quelli istituzionalizzati. Ma, con l’evolvere della pandemia, della copertura vaccinale e del monitoraggio si è via via acquisita l’informazione che anche i bambini di tutte l’età hanno un rischio simile agli adulti di infezione da SARS-CoV-2, sebbene l’infezione sia meno grave e minore il rischio di ospedalizzazione e morte (indicazioni in accordo con i dati del recente rapporto ISS). Bisognerà tuttavia considerare i casi, i ricoveri e le complicanze della sindrome infiammatoria multisistemica che sembra caratterizzare gli effetti avversi in età pediatrica anche rispetto alle varianti del virus, sebbene a tutt’oggi la dimensione e le caratteristiche del rischio siano basse e comunque da definire meglio.

Distribuzione dei casi di Covid-19 e dei decessi associati nella popolazione italiana dall’inizio dell’epidemia al 6 ottobre 2021

Un recente studio americano dimostra che i bambini non solo possono contrarre l’infezione (nella metà dei casi in forma asintomatica), ma possono anche trasmetterla al 52% dei familiari coabitanti. A scuola non sappiamo. Generalizzare risultati tra realtà diverse in termini di interventi sanitari e temporalità in tema di contrasto alla pandemia non è appropriato, ma questi risultati dovrebbero stimolare alcune riflessioni su quanto fatto sinora e sui prossimi processi decisionali.

Inizia il periodo della diffusione nella comunità di malattie respiratorie come l’influenza. Il profilo epidemiologico dell’influenza è diverso da quello dell’infezione da SARS-CoV-2 e diverso è il ruolo dei bambini nella diffusione, così come è diverso l’impatto delle infezioni nelle varie fasce d’età della popolazione. Quindi due aspetti diversi di sanità pubblica che necessiterebbero di chiarimenti e indicazioni tempestive, sia verso il mondo degli operatori sanitari, sia verso i cittadini. È anche così che si fa la preparedness, senza aspettare gli aggiornamenti dei piani pandemici. Per l’influenza esistono vaccini per tutte le età a partire dai sei mesi di vita, addirittura uno vivo attenuato che può essere somministrato per via inalatoria intranasale a partire dai due anni d’età.

Il vaccino anti-influenzale è offerto gratuitamente e attivamente dal Servizio sanitario nazionale per tutte le persone oltre i 64 anni ed è raccomandato a tutti i soggetti oltre i sei mesi di vita a maggior rischio di patologia complicata. Per Covid-19 a breve dovrebbero essere presentati (sì, presentati, non necessariamente pubblicati su riviste scientifiche: i criteri dell’emergenza hanno accidentato anche il percorso scientifico) da Pfizer i risultati di un trial di efficacia e sicurezza a breve termine a partire dai sei anni d’età. Nella prima metà del 2022 dovrebbero essere presentati i risultati del trial a partire dai sei mesi di vita. Che succederà in Italia dopo l’approvazione dell’Ema e di Aifa? Si procederà come per gli adolescenti, quasi fosse una costrizione a cui non opporsi e non dare appropriata e completa informazione? Si chiederà il green pass per andare a scuola? Anche per frequentare la scuola d’infanzia e l’asilo nido? E il green pass terminerà davvero con il capodanno o sarà rinnovato?

Domande legittime dopo due anni di convivenza con Covid-19, cui ci aspettiamo che gli organi preposti non solo rispondano ma addirittura anticipino gli scenari possibili e le scelte future. Sarebbe una bellissima occasione per fare della profilassi comunicativa, per condividere con la popolazione il perché e le logiche delle scelte. I recenti dati sul ruolo dei bambini nella diffusione di Covid-19 rimandano alla comprensione che la pandemia, così come le epidemie, per esempio l’influenza stagionale, è un evento che coinvolge l’intera collettività con modalità, esiti e responsabilità differenziate. È quindi compito dell’intera collettività partecipare in modo appropriato e consapevole a contrastare il diffondersi dell’infezione: un ruolo attivo, collaborativo e consenziente perché informato, nell’interesse dell’intera collettività. Un comportamento “libero”.

 


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