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Troppa plastica per gli uccelli marini pelagici

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Un nuovo studio internazionale rivela i pericoli di un mare sempre più pieno di plastica per gli uccelli marini pelagici. Tra le zone in cui il rischio è più elevato figura anche il "nostro" Mare Mediterraneo, e i vortici oceanici di Pacifico, Atlantico e Oceano Indiano, dimostrando come, per la protezione dell'ambiente siano necessarie azioni collettive e coordinate.

Crediti immagine: Bethany Clark, petrello del Capo

Il prossimo 28 luglio sarà il Plastic Overshooting Day, ovvero il giorno in cui la quantità di rifiuti plastici prodotta in un dato anno supera la capacità di smaltirla. Plastica di ogni forma, composizione, colore e dimensioni, che come ormai è risaputo entra nei nostri mari e che trasportata dalle correnti compie viaggi lunghissimi, forma isole sintetiche nel bel mezzo degli oceani, o galleggia inerte e sinuosa tra le onde attraendo ignari animali che la scambiano per un gustoso bocconcino. Plastica che si accumula spesso proprio nelle zone in cui gli uccelli marini vanno a pesca, seguendo traiettorie apprese e tramandate di generazione in generazione.

Un nuovo studio pubblicato su Nature Communications dimostra infatti che le zone ad alta densità di plastica galleggiante corrispondono pericolosamente ai luoghi più frequentati dagli uccelli marini pelagici, specie che vivono in mare aperto. Lo studio è a firma di circa duecento ricercatori affiliati a oltre centosessanta istituti di ricerca di tutto il mondo, italiani inclusi, e utilizza i dati relativi agli spostamenti di ben 7.137 uccelli appartenenti a settantasette specie di Procellariformi provenienti da circa centocinquanta diverse popolazioni che nidificano in ventisette Paesi. L’ordine dei Procellariformi raggruppa uccelli di dimensioni e distribuzione varie, accumunati dal fatto di passare la maggior parte della loro esistenza a largo, in qualsiasi condizione meteorologica (procella in latino vuol dire “tempesta”): si fermano sulla terraferma solo nel periodo riproduttivo. Percorrono in volo centinaia di migliaia di chilometri, planando sul mare trasportati dal vento che soffia in superficie, senza quasi un battito delle loro lunghe e strette ali.

«Abbiamo scelto di focalizzarci sui Procellariformi per due motivi: in primo luogo, perché non possono rigurgitare facilmente la plastica ingerita a causa della struttura del loro apparato digerente, a differenza dei gabbiani, per esempio» spiega Bethany Clark, ricercatrice di BirdLife International e prima autrice dell’articolo. «In secondo luogo, sono suscettibili perché molti di loro si nutrono sulla superficie dell'acqua e hanno maggiori probabilità di raccogliere la plastica galleggiante, rispetto alle specie che si immergono in profondità».

Hotspot di plastica

Mappa del rischio di esposizione alla plastica per i procellariformi, a colori più scuri corrisponde un rischio più elevato. Crediti immagini: Nature Communications

Combinando gli spostamenti degli uccelli con la distribuzione della plastica, i ricercatori hanno stimato quali sono le zone più a rischio di ingestione di plastica per questi animali: tra queste spiccano il Mar Mediterraneo e il Mar Nero, e le coste del Pacifico nordoccidentale, oltre ai vortici oceanici del Pacifico, Atlantico e Oceano Indiano. Le specie che passano più tempo a pesca tra questi hotspot di plastica sono anche quelle a rischio critico di estinzione, come la berta delle Baleari, che trascorre parte dell’anno nel nostro Mediterraneo occidentale. «La plastica può essere pericolosa in diversi modi», spiega Clark. «Quella dura, una volta ingerita, può creare buchi nell'intestino e portare alla morte. La plastica flessibile, invece, può causare blocchi intestinali. La plastica può anche assorbire sostanze chimiche tossiche che vengono poi rilasciate. Gli uccelli marini possono rimanere impigliati, in particolare in vecchi attrezzi da pesca come lenze e reti». Il rischio non è uniforme in tutte le fasi dell’anno: per molte specie è più elevato nel periodo riproduttivo, nel quale si spostano verso la terraferma, dove nidificheranno in cunicoli nella roccia in falesie a picco sul mare. Per esempio, le berte maggiori, che nidificano a Malta ma passano la restante parte dell’anno in volo sull’Oceano Atlantico orientale, sono molto più a rischio di ingestione di plastica quando si dedicano alla cura dei nidiacei. I pulcini sono a rischio sia perché gli adulti possono portare loro da mangiare plastica invece che nutrienti (con tutti gli effetti di cui sopra), sia perché i genitori possono utilizzare rifiuti plastici per costruire il nido, e i piccoli possono rimanere aggrovigliati senza potersi liberare.

«Allo stato attuale delle conoscenze non sappiamo quale sia la plastica più pericolosa per gli uccelli marini» spiega Letizia Campioni, ricercatrice del Marine and Environmental Sciences Centre (MARE) dell’Università Ispa di Lisbona e tra le autrici dell’articolo di Nature Communications. «Tuttavia, sappiamo che i frammenti, la plastica laminare e i filamenti sono tra i tipi di plastica più comunemente trovati nell'intestino (la plastica più scura sembra essere più frequente). Va detto che i frammenti di plastica possono provenire da pezzi più grandi che si rompono all'interno dell'intestino. Man mano che la ricerca va avanti, si scoprono nuovi impatti della plastica sulla salute, per esempio di recente è stata identificata una nuova malattia chiamata plasticosi nella berta piedicarnicini, una specie che vive nell’Oceano Indiano. Si tratta di una fibrosi legata alla plastica che causa la formazione di un esteso tessuto cicatriziale nello stomaco».

Il Mar Mediterraneo è una zuppa di plastica?

La mappa di rischio elaborata dallo studio mostra un rischio elevatissimo per le specie che almeno in parte della loro esistenza vivono nel Mediterraneo. «È un mare chiuso, c’è molto turismo e molta pesca e quindi tanta plastica che si accumula e che non riesce a disperdersi come succede nell’Atlantico» spiega Campioni. «Il rischio di esposizione a plastica quindi è elevato. Uno studio condotto in Spagna sugli uccelli marini catturati e uccisi involontariamente (il cosiddetto bycatch) dalla pesca ha mostrato che il 94% delle berte maggiori e il 70% delle berte minori e delle berte delle Baleari avevano plastica nello stomaco». Nel Mediterraneo vivono, almeno per parte dell’anno, quattro specie di uccelli marini pelagici: la berta minore, la berta maggiore, la berta delle Baleari e l’uccello delle tempeste. Quest’ultimo è il più piccolo tra i procellariformi europei, grossomodo ha le dimensioni di un passero, e nel Mediterraneo esiste una sottospecie endemica e minacciata di estinzione. L’uccello delle tempeste si nutre di zooplancton, che cattura in volo sulla superficie dell’acqua, e che rigurgita come composto oleoso per nutrire i propri pulcini. «Nel 2022 abbiamo pubblicato un articolo in cui abbiamo quantificato l'ingestione di microplastiche nell'uccello delle tempeste nidificante in Sardegna» spiega Jacopo Cecere, ricercatore presso l’area per l'Avifauna Migratrice di ISPRA e coautore dell’articolo di Nature Communications. «Le microplastiche sono presenti nei rigurgiti del 40% degli uccelli delle tempeste analizzati. Questo risultato non ci ha sorpreso: in un precedente lavoro abbiamo trovato che gli uccelli delle tempeste selezionano per l'alimentazione delle aree marine caratterizzate da particolari correnti, che trasportano il plancton di cui si ciba. Ma le stesse correnti sono quelle che trasportano e diffondono le microplastiche in tutto il Mediterraneo». Gli studi sull’ingestione della plastica nel Mediterraneo si contano però purtroppo letteralmente ancora sulle dita di una mano, anche se qualcosa si muove, e ci sono raccolte dati in corso nell’ambito di una ricerca condotta da ISPRA in collaborazione con altri istituti di ricerca italiani.

Più cose si sanno invece sui prodigiosi viaggi delle berte del Mediterraneo. Racconta Jacopo Cecere: «Durante la riproduzione, le berte depongono l'uovo su piccole isole. Alla cova si alternano entrambi i genitori, con turni di una settimana in media, ma che possono durare anche dieci giorni. Mentre uno dei genitori è sull'uovo a digiunare, l'altro è in mare ad alimentarsi e darà il cambio al partner al suo ritorno. Anche durante l'allevamento dei piccoli, le cose non sono molto diverse. I piccoli vengono alimentati solo di notte e non sempre tutte le notti; gli adulti alternano diversi viaggi alla ricerca di cibo, che possono durare un solo giorno o più di una settimana. Durante questi lunghi viaggi, le berte coprono distanze incredibili, anche superiori ai mille chilometri. Per fare qualche esempio, le berte di Linosa vanno ad alimentarsi anche sulle coste della Libia; quelle di La Maddalena vanno fino al golfo di Genova, quelle di Capo Caccia vanno nelle Baleari e in Algeria, quelle delle isole Tremiti viaggiano per tutto l'Adriatico. Le berte del Mediterraneo possono attraversare tutto il bacino, alimentandosi poi preferibilmente in acque non troppo profonde. A fine ottobre, poi, attraversano lo stretto di Gibilterra (non volano mai sulla terra ferma) per passare l'inverno lungo le coste occidentali dell'Africa, principalmente nel golfo di Guinea».

Scampato all’estinzione, e ancora minacciato

Letizia Campioni segue il petrello delle Bermuda, una specie che vive nell’Atlantico nordoccidentale, endemica di quell’area e a rischio di estinzione: esistono al momento non più di 160 coppie. Se già stupiscono i viaggi delle berte, quelli dei petrelli delle Bermuda lasciano esterrefatti: «Compiono viaggi di alimentazione che possono portarli a 3.000 chilometri dal nido e possono fare anche 9.000 chilometri in un solo viaggio. Si nutrono prevalentemente pescando sulla superficie pesci mesopelagici che compiono migrazioni giornaliere risalendo dalle profondità per alimentarsi di plancton in superficie. Questo li espone al rischio di ingerire plastica, anche se attualmente non abbiamo registrato nessun particolare effetto su questa specie ai siti di nidificazione».

Il petrello delle Bermuda ha una storia molto particolare: si tratta infatti, racconta Campioni, di una di quelle specie definite “Lazzaro”, animali creduti estinti e che invece, a sorpresa, si sono rivelati non essere tali. Le Bermuda vennero scoperte accidentalmente nel Seicento, l’epoca dei grandi viaggi di esplorazione, quando una nave vi naufragò. Dopo questo evento, i primi ad approdare su queste isole furono gli spagnoli, ma le abbandonarono velocemente, spaventati dagli inquietanti e potenti versi che la notte riecheggiavano tra le sponde, che alle loro orecchie erano i canti delle anime perdute in mare. In realtà erano i versi striduli e lamentosi dei petrelli delle Bermuda, che scendono sulla terraferma solo nelle ore notturne, e che all’epoca non erano rari (dalle informazioni storiche si stima ce ne fossero alcune centinaia di migliaia).

Ma poi arrivarono gli inglesi, che facevano tappa alle Bermuda per rifocillarsi. Più pragmatici dei loro “colleghi” spagnoli, catturavano uccelli, uova e piccoli, e li mettevano sotto sale nei barili, pronti a ripartire per i flutti. Quando poi i primi coloni si sono insediati per vivere su queste isole, si sono portati dietro ratti, maiali e gatti, specie invasive sulle isole, che hanno completato il lavoro iniziato dai naviganti. Nel giro di qualche decennio la specie fu dichiarata estinta, fino a quando, intorno alla metà del secolo scorso non fu ritrovato un sospetto petrello morto a causa dello scontro con un faro. Iniziò una serie di esplorazioni nelle aree più remote delle Bermuda che portarono alla scoperta di una quindicina di coppie. Da lì sono partiti i progetti di tutela, l’isola in cui nidificano i petrelli è divenuta area protetta, si è lavorato molto sul ripristino degli habitat idonei alla nidificazione, l’allestimento di nidi artificiali, il contrasto alle specie aliene invasive.

Un programma di successo se si pensa che le coppie dal 1950 a oggi sono centuplicate. Ma non sufficienti a scongiurare il rischio di estinzione. «Oggi le Bermuda, che non arrivano nemmeno a 54 chilometri quadrati di superficie, contano 64.000 abitanti, nel periodo estivo coi turisti si arriva a 600.000, quindi al petrello resta uno spazio ristrettissimo. La perdita di habitat è impressionante, e lo sforzo attuale è  creare nuove colonie in isole più protette». Campioni studia come si comportano questi uccelli in mare, cosa e dove mangiano: è tutto nuovo e da scoprire. «Nel 1968 venne pubblicato su Science uno dei primi studi sulla specie, che trovava un valore molto alto di DDT nelle uova e nei pulcini morti. Il che spiegava il bassissimo successo riproduttivo osservato all’epoca. Una delle linee di ricerca che sto seguendo è il monitoraggio dei contaminanti organici per vedere la situazione attuale. I risultati preliminari suggeriscono che ci sia un ruolo di queste sostanze nell’insuccesso della schiusa delle uova, ma le analisi sono ancora in corso. La scarsa diversità genetica dovuta alla consanguineità degli individui non sembra invece essere un fattore determinante, come emerso da un lavoro che abbiamo pubblicato a maggio 2023».

Una minaccia globale, e non solo di plastica

Le aree in cui gli uccelli marini pelagici rischiano di ingerire la plastica sono quindi in tutto il mondo. La presenza di grossi accumuli di plastica in mare aperto, in corrispondenza dei vortici oceanici, costringe, come suggeriscono gli autori dell’articolo di Nature Communications, a riflettere in maniera globale e coordinata sulla risoluzione del problema, e sull’adozione di programmi che puntino a ridurre drasticamente la plastica immessa nell’ambiente. Gli uccelli marini pelagici sono tra i gruppi di specie più minacciati di estinzione al mondo. La plastica è un problema per alcune specie, ma non è la sola. Le minacce principali (e quantificate) sono in primo luogo il bycatch, la cattura accidentale, la presenza di specie aliene invasive sulle isole in cui nidificano, il sovrasfruttamento delle risorse ittiche da cui dipendono, e i cambiamenti climatici. Da non sottovalutare c’è il conflitto con le attività di pesca, che ha come risultato l’uccisione deliberata degli uccelli considerati fastidiosi competitori (problema molto diffuso nel Mediterraneo).

Perdere questi sorprendenti veleggiatori dei venti marini, sarebbe gravissimo non solo a livello di perdita di diversità, ma anche culturale. Gli sforzi di conservazione, come dimostrano la storia del petrello delle Bermuda, o i progetti di eradicazione delle specie aliene sulle isole, danno risultati, ma è necessario un investimento globale e costante per lavorare in modo sinergico e internazionale, perché la natura non conosce i nostri confini.

Una berta dell'Atlantico. Foto Bethany Clark

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