Gran libro, questo,pur se non ha scalato come avrebbe meritato le classifiche dei bestsellers. Da leggere e meditare: succoso, pieno, non paglia di parole. Chiaberge ha avuto coraggio: ha scelto George Coyne, grande astrofisico fin che si vuole, ma anche Gesuita, e quindi, almeno per quelli che lo seguono, una scatola a sorpresa. E poi ha scelto Arno Penzias, e qui ha avuto fortuna. Perché questo scienziato ortodosso, tutto d'un pezzo, e quindi in un certo senso prevedibile, ha invece assunto posizioni e fornito risposte che prevedibili non erano. Non so quanto Chiaberge conoscesse Arno Penzias, ma ho l'impressione che il ritratto che il libro ne offre sia stato inaspettato anche per lui. Avevamo, appunto, uno scienziato ortodosso, regolarmente ateo, portato a riecheggiare in modo persino fastidioso posizioni di esasperato riduzionismo, o di professorale supponenza - vedi lo sbrigativo cestino della carta straccia a cui destina la teoria delle stringhe - Pero'... Pero' questo ateo ortodosso si dichiara convinto che vi siano limiti alla scienza oltre I quail la comprensione non sarà mai possible. E sin qui, nulla di sconvolgente. Ma subito dopo, papale papale, dice che noi usiamo le leggi della fisica per dedurre cose che sono metafisiche (verbatim). E continua, come se niente fosse, dicendo di credere che esistano veramente cose come l'amore e la veritaà(ancora verbatim). Finendo con quella che per me e' la frase piu' significativa, e più bella del libro : "anche se il mondo scomparisse, il 7 sarebbe sempre un numero primo..." . Non parla del Creatore, Penzias - come potrebbe farlo un ateo convinto? -, però guarda negli occhi George Coyne e dice "vorrei credere in Dio, ma non posso". Dichiarazione di sconcertante intimita', che mi piace pensare abbia sorpreso anche Chiaberge, che ha comunque compiuto un'operazione di magistrale maieutica. Anche perché la cosa non finisce qui: Arno Penzias dichiara infatti che per lui "sarebbe orribile avere la sensazione di vivere in un mondo senza significato" , e va addirittura piu' in là, dicendo di poter descrivere la sua visione scientifica dell'universo primordiale " come se rinviasse all'esistenza di una entita' trascendente, un'entita' al di fuori del tempo e dello spazio". Non male, per un ateo dichiarato. Ed è chiaro che qui Arno Penzias si muove nel territorio della "Grundfrage" di Leibniz (quid aliquid potius nihil ?), che per il moderni professionisti della scienza corrisponde alle Colonne d'Ercole di antica memoria: al di là c'è la metafisica.
Mi accorgo di aver consumato molto dello spazio che mi era stato assegnato per uno solo degli aspetti del dialogo dei due personaggi: che hanno discusso anche di altri problemi, tutti molto interessanti, dato l'acuto spartiacque che hanno creato, e ancora creano, nell'opinione pubblica: il neo-darwinismo ed il dibattito sul disegno intelligente, il processo a Galileo e le polemiche connesse, la grande "querelle" sui problemi dell'embrione umano, le prospettive ed I problemi stessi della Chiesa nel campo della scienza. Ma qui non avevamo di fronte un biologo ed un filosofo. Avevamo di fronte due cosmologi, ed è quindi trasparente in tutto il libro l'interesse precipuo dei due dialoganti per le questioni cosmologiche: per le quali , com'è ovvio, la "variabile Dio" ha interesse tutt'affatto particolare.
Uscendo con il libro dalla Libreria della Stazione Temini, prima ancora di incominciarne la lettura nel treno che mi riportava a Padova, pregustavo il momento in cui, giunto alla fine, avrei deciso chi tra i due ne fosse uscito meglio. Confesso di essere da molto tempo un "fan" di George Coyne: di lui ammiro la coerenza culturale, e la sua capcità di farla convivere con la sua scelta di fede. Quasi un ossimoro vivente, per certo pensare politicamente corretto secondo cui il cosmologo ortodosso non può convivere con il Gesuita. Ma di lui ammiro anche l'andare, quando la ragine lo richiede, contro corrente. Ero quindi, devo dirlo, mentalmente parziale incominciando la lettura : "tenevo" per George Coyne. Quattro ore dopo, a Padova, chiuso il libro mi dicevo che una volta di piu' George Coyne non si era smentito: il Dio onnipotente, onnisciente, autocratico a cui siamo stati abituati era ora per lui un Dio che non poteva sapere se, milardi di anni dopo il Big Bang, , noi saremmo comparsi sulla Terra. Un Dio che "sperava" che noi saremmo apparsi, che magari "pregava" che noi apparissimo, ma che "non avrebbe potuto rendere necessario questo esito perche' aveva fatto un universo non determinato solo da processi di necessità". Quanto più simpatico un Dio così, mi dicevo. E quanto piu' umanizzante pensare a George Coyne nel Paradiso che lui immagina, tra un game di tennis ed un gin-and-tonic . Curiosamente simili, queste immagini, alle settanta Uri di quell'altro Paradiso...non è che qui George Coyne si sia fatto prendere un po' la mano dal gusto della battuta ? Un George Coyne d'annnata, quindi, proprio come me l'ero aspettato. Ma Arno Penzias, ecco, Arno Penzias mi aveva completamente avvinto, ben al di là di quanto, non conoscendolo personalmente, avessi potuto immaginare. Un bel pareggio tra I due, quindi, per usare un 'irriverente metafora sportiva.
Ma non mi pare giusto chiudere così. Come ho detto, portato all'estremo, il discorso di Arno Penzias sconfinava fatalmente nella "Grundfrage" di Leibniz. Finiva, appunto, contro le Colonne d'Ercole. C'e' però una differenza di fondo tra il pensare che una domanda a cui non si può dare una risposta scientifica non abbia senso e quindi non vada posta (sarà un caso, ma è proprio a Vienna che stendo queste note....), ed il pensare che, invece, ogni domanda abbia diritto di cittadinanza, e possa quindi essere posta: anche se non ha una risposta scientifica. Per George Coyne, com'è ovvio, la domanda , la gran domanda, deve essere posta, eccome. Ma il dialogo cosiì bene diretto da Riccardo Chiaberge ci ha detto, e forse pochi se l'aspettavano, che anche per Arno Penzias la domanda del "perché" puo' essere posta. Non vi è risposta scientifica possible ? E allora ?, dice Arno Penzias. Qui io ho sentito in entrambi i dialoganti lontani echi di Agostino. Non forse dell'Agostino severo che prometteva tormento mentale, e quindi inevitabile infelicità, a chi si fosse voluto incaponire nella ricerca di una risposta razionale. Forse più dell'Agostino che si limitava a sorridere bonariamente dell'inutilità del tentativo. Agostino, che non era uno sciocco.