I piccoli RNA: un corso di formazione CNR - ANISN Lazio
I punti di vista dell’organizzatrice e di un
docente partecipante
L’obiettivo che ha fatto da guida alla progettazione del corso (*) è stato comunicare la pratica della ricerca scientifica, non solo i suoi risultati. Il percepire come la scienza lavora – è stata questa l’idea - avrebbe stimolato gli insegnanti e suggerito loro modi diversi, meno impersonali e descrittivi della lezione tradizionale, per comunicare la scienza in classe.
Il corso è stato centrato su un’attività sperimentale preceduta da una breve introduzione e seguita solo da due lezioni frontali. L’esperimento proposto, basato su una strategia sperimentale ed un protocollo già definiti, consisteva nel misurare l’inibizione dell’espressione di uno specifico gene ottenuta mediante “interferenza da RNA (RNAi)” e nell’investigare alcuni effetti che questa inibizione produce nella linea cellulare analizzata. Il laboratorio non è stato pensato quindi per introdurre all’uso di una tecnica innovativa, né come strumento per promuovere un apprendimento del tipo inquiry-based. L’esperimento doveva consentire di osservare direttamente quanto potente possa essere l’RNAi nelle mani di un ricercatore che vuole ottenere informazioni sulla funzione di un certo gene. L’attività sperimentale era cioè stata ideata per mostrare una applicazione importante della scoperta dei piccoli RNA e, allo stesso tempo, per condurre all’interno di un progetto di ricerca. L’aspetto qualificante di questa attività era nel fatto – io credo - che l’esperimento proposto non era stato progettato per gli scopi didattici del corso, ma faceva parte di un progetto di ricerca che una mia collaboratrice aveva sviluppato nel corso dell’attività sperimentale prevista dal suo dottorato di ricerca. Proprio la mia collaboratrice, che nel corso ha svolto insieme a me il ruolo di tutor, ha discusso anche gli obiettivi principali e alcune linee di sviluppo del suo progetto, consentendo così ai docenti di valutare l’importanza del risultato di quel loro esperimento (basato sull’utilizzo della interferenza da RNA) agli scopi del progetto di ricerca per cui era stato ideato.
Nella stessa linea-guida, quella del comunicare il fare scienza, è stata progettata la breve introduzione con la quale s’intendeva fornire una mappa dei concetti-chiave, cioè uno schema concettuale che aiutasse a memorizzare le informazioni e a sviluppare una comprensione organizzata degli argomenti che sarebbero stati trattati. Lo strumento principale di questa introduzione è stato una presentazione PowerPoint, scelta fra le tante analizzate, disponibile nel sito web dell’Howard Hughes Medical Institute, nella sezione dedicata a insegnanti e docenti di scienze nella quale il materiale didattico è presentato con il sottotitolo “teach ahead of the textbook”. La strategia usata in questa presentazione per introdurre la scoperta dei “piccoli RNA” è quella di chiedere al docente di fare predizioni riguardo al risultato di un certo esperimento. Partendo dalla risposta, lo studente è guidato a una comprensione ragionata dei tentativi sperimentali fatti per spiegare il risultato realmente ottenuto in quell’esperimento, diverso da quello che era ragionevole attendersi. Questa strategia, attraverso la quale vengono mostrati i passi essenziali del meccanismo molecolare dell’RNAi e messi in evidenza gli aspetti principali della sua funzione, rappresenta un esempio di come, anche fuori dal laboratorio, i risultati della ricerca scientifica possano essere presentati comunicando il fare scienza.
*Il corso di formazione “Piccoli RNA: una rivoluzione nella biologia degli RNA”, al quale ho partecipato come docente e coordinatore scientifico, era rivolto a insegnanti di Scienze naturali degli istituti secondari superiori e si è tenuto a Roma presso l’Istituto di Neurobiologia e Medicina Molecolare del CNR il 29 e 30 settembre 2010. Il corso è stato frutto di una collaborazione tra ANISN Lazio e Consiglio Nazionale delle Ricerche.
I Tardigradi, questi sconosciuti … e questi fenomeni!
Attorno a noi vivono innumerevoli animali microscopici che, pur essendo sconosciuti ai più, possono offrire prospettive per il miglioramento non soltanto delle nostre conoscenze, ma anche della nostra vita. Tra questi “sconosciuti” annoveriamo i Tardigradi, diffusissimi invertebrati che hanno colonizzato tutti i tipi di ambiente: marino, d’acqua dolce e terrestre (soprattutto gli interstizi di muschi e licheni). In quest’ultimo caso i Tardigradi, di fatto organismi acquatici, conducono vita attiva solamente quando circondati da almeno un velo d’acqua.
La prima descrizione di un Tardigrado risale al 1773; Johann A. E. Goeze lo definì “kleiner Wasser Bär” (orsetto d’acqua), nome ancor oggi utilizzato dagli autori di lingua tedesca ed inglese (water bear). Fu poi definito da Bonaventura Corti “il brucolino” (1774) e finalmente “il tardigrado” da Lazzaro Spallanzani (1776). Da allora, sono state descritte oltre un migliaio di specie.
I motivi di interesse per i Tardigradi sono diversi: questi animali hanno probabilmente condiviso la prima parte del percorso evolutivo con gli Artropodi, un gruppo di organismi dal successo strepitoso con oltre un milione di specie descritte, moltissime a noi estremamente familiari (es. api, mosche, zanzare, ragni, millepiedi, aragoste). I Tardigradi hanno evoluto diverse strategie riproduttive: fecondazione incrociata (unione di uovo e spermatozoo di individui diversi), ma anche autofecondazione in organismi ermafroditi e, in presenza di sole femmine, partenogenesi (sviluppo di uova non fecondate). La partenogenesi e l’autofecondazione sono vantaggiose in animali che, come i Tardigradi, sfruttano la dispersione passiva (soprattutto attraverso il vento) per colonizzare nuovi territori anche con un con un solo individuo. La dispersione passiva è a sua volta favorita dalla capacità di attuare diverse forme di dormienza in risposta diretta o indiretta a variazioni ambientali. I Tardigradi sono in grado di formare cisti, produrre uova di durata (cioè con schiusa molto ritardata) e attuare diverse forme di criptobiosi (vita nascosta), sia congelandosi (criobiosi) che disidratandosi (anidrobiosi) se nel loro habitat l’acqua si congela o evapora. Quando il ghiaccio scongela o l’acqua è di nuovo presente, questi animali tornano rapidamente a vita attiva. L’anidrobiosi fu studiata già nel 1776 da Spallanzani che riteneva il fenomeno una “reviviscenza” (resurrezione); ancor oggi è molto indagata per le sue possibili applicazioni, dato che i Tardigradi anidrobionti aumentano notevolmente la resistenza ad agenti fisici e chimici che ucciderebbero immediatamente organismi attivi. Come possono riuscire a sopravvivere a simili stress? Questa è la domanda alla quale recentemente diversi studiosi stanno cercando di dare una risposta, conducendo studi sui meccanismi molecolari alla base di queste sorprendenti caratteristiche. Su queste basi i Tardigradi sono stati scelti come modello di organismi pluricellulari per studiare le strategie adattative e i meccanismi molecolari che consentono la vita nello spazio. Sono stati coinvolti in due progetti (TARDIS, promosso dall’Agenzia Spaziale Europea; TARSE, promosso dall’Agenzia Spaziale Italiana) con esperimenti condotti a bordo del modulo spaziale FOTON M3 in orbita per 12 giorni nel Settembre 2007. I Tardigradi non hanno deluso le aspettative, mostrando una buona resistenza anche agli stress dell’ambiente spaziale (vuoto, microgravità, radiazioni). Durante il volo gli esemplari attivi sono stati persino in grado di riprodursi e svilupparsi.
Carpire il segreto di questa straordinaria capacità di sopravvivenza attraverso l’individuazione delle molecole e dei processi che la permettono rappresenta un obiettivo da perseguire che, se raggiunto, potrà certamente essere di grande aiuto all’uomo, ad esempio nella preservazione di tessuti ed organi e nella stabilizzazione di vaccini e cellule.
I piccoli RNA: un corso di formazione CNR - ANISN Lazio
I punti di vista dell’organizzatrice e di un docente partecipante
Una settimana prima dell’inizio del corso, i partecipanti avevano ricevuto del
materiale didattico con l’invito a darvi uno sguardo. Non sarebbe stata data per già
acquisita nessuna conoscenza dell’argomento ma, spiegava un messaggio, il materiale
didattico era fornito semplicemente allo scopo di orientare l’attenzione sull’argomento
e sulle attività che sarebbero state proposte.
Il materiale didattico comprendeva: a) un articolo di carattere molto generale nel
quale Carlo Cogoni, uno dei docenti del corso, descrive il meccanismo
dell’“Interferenza da RNA (RNAi)” (dalla scoperta ai ruoli che l’RNAi svolge nella
cellula, alle strategie terapeutiche basate su di esso) con l’intento di rendere l’argomento
dei “piccoli RNA” accessibile a un pubblico di non-specialisti; b) un manoscritto
nel quale Christian Barbato, anch’egli docente del corso, raccoglie e comunica
i risultati recenti a sostegno di uno specifico ruolo dei microRNA nello sviluppo
e nelle funzioni del sistema nervoso;c) materiale preparato da me contenente
la descrizione degli obiettivi dell’esperimento e i principi della tecnica che sarebbe
stata usata nell’attività di laboratorio.
Mappa dei concetti-chiave per orientare e organizzare l’apprendimento
La breve Introduzione che ha preceduto l’attività di laboratorio è stata pensata
con l’intenzione di fornire gli elementi necessari perché ciascuno dei partecipanti
potesse costruirsi una rappresentazione mentale, semplificata, dei contenuti del
corso. Questa “mappa” doveva cioè rappresentare i concetti-chiave, le connessioni
tra di loro, e le principali relazioni tra i nuovi concetti e le conoscenze pre-esistenti.
Ciascuno avrebbe poi arricchito questa mappa autonomamente, disponendo e
organizzando al suo interno le informazioni acquisite via via. L’intenzione era di
fornire uno strumento che ne facilitasse la memorizzazione, aiutasse a sviluppare
una comprensione organizzata degli argomenti e consentisse qualche grado di autonomia
nell’apprendere.
In pratica, l’Introduzione ha preso avvio con la proiezione di un’immagine familiare,
tratta da un testo di Biologia comunemente adottato nelle scuole, la quale
propone uno schema riassuntivo della sintesi proteica in una cellula batterica, a partire
dalla trascrizione del gene. La lettura di questo schema ha consentito di definire
un terreno comune di conoscenze e di partire da qui per orientare l’attenzione
sul nuovo argomento (spesso le pre-conoscenze condizionano pesantemente l’apprendimento
successivo).
Lo strumento principale dell’Introduzione è stato una presentazione powerpoint
interattiva, scelta tra le tante analizzate, disponibile nel sito internet dell’Howard
Hughes Medical Institute, alla sezione “risorse per insegnanti e studenti di scienze”.
Interesserà forse notare che il materiale didattico di questa sezione del sito web è
presentato con il sottotitolo “teach ahead of the textbook”. La strategia usata in tale
presentazione per introdurre la scoperta dei “piccoli RNA” è quella di chiedere allo
studente di fare predizioni riguardo al risultato di un certo esperimento. Partendo
dalla risposta, lo studente è guidato ad una comprensione ragionata dei tentativi
sperimentali fatti per spiegare il risultato realmente ottenuto in quell’esperimento,
diverso da quello che era ragionevole attendersi. Questa strategia rappresenta, quindi,
un esempio di come si può comunicare il “fare scienza”. Attraverso di essa vengono
introdotti i passi essenziali del meccanismo molecolare dell’RNAi e messi in
evidenza gli aspetti principali della sua funzione (meccanismo di difesa dell’integrità
del genoma, meccanismo di regolazione dell’espressione genica, strumento per
studiare la funzione di un gene, potenziale mezzo per il trattamento di malattie). Le
informazioni date, benché insufficienti a consentire una reale comprensione dell’argomento,
forniscono uno schema concettuale di orientamento e sono presentate
in modo da stimolare la curiosità e l’interesse ad approfondire. Questa presentazione
PowerPoint è stata usata appunto per disporre ad apprendere (perché uno strumento
d’insegnamento che facilita l’apprendimento di uno studente non dovrebbe
essere adatto anche ad un insegnante?).
L’attività di laboratorio come strumento per apprendere e fare scienza
Il risultato dell’esperimento proposto nelle ore di laboratorio doveva consentire
di misurare l’inibizione dell’espressione di uno specifico gene ottenuta mediante
“interferenza da RNA” e di osservarne direttamente gli effetti sulla morfologia delle
cellule. L’obiettivo dell’esperimento era mostrare quanto potente sia l’RNAi
nelle mani di un ricercatore che vuole ottenere informazioni sulla funzione di un
gene d’interesse.
La tecnica proposta (un’immunofluorescenza indiretta che prevede l’uso di due
anticorpi secondari come mezzo per amplificare l’intensità del segnale) è una tecnica
molto collaudata e ampiamente utilizzata nei laboratori di biologia molecolare.
L’esperimento era basato su una strategia sperimentale già definita e consisteva nell’esecuzione
del protocollo fornito. L’attività in laboratorio non è stata quindi proposta
né per introdurre l’uso di una tecnica innovativa, né per promuovere un
apprendimento del tipo inquiry-based. Il laboratorio è stato pensato soprattutto
come strumento per sviluppare attenzione, per rendere tangibili concetti astratti,
per aiutare a comprendere piuttosto che a memorizzare informazioni.
Inoltre, a posteriori, si è osservato come l’attività di laboratorio aiuti a “sincronizzare”
i tempi di apprendimento, diversi naturalmente per ciascuno, facilitando
così il compito del docente.
Gli intervalli, tra un passaggio dell’esperimento e il successivo, sono stati usati
per discutere i limiti e i vantaggi della tecnica, per illustrare il sistema cellulare in
esame, per descrivere la strategia adottata per produrre nelle cellule il silenziamento
del gene d’interesse, ecc. L’attenzione generata dal “fare” l’esperimento ha così
aiutato a fissare alcuni dei concetti-chiave proposti nell’Introduzione e a ritenere
nuove informazioni.
La ricostruzione e la discussione dell’intero percorso dell’esperimento (dalla produzione
del retrovirus per silenziare il gene, agli effetti che il silenziamento induce
nelle cellule) ha aiutato a predire gli utilizzi della tecnica e ad anticipare alcuni degli
argomenti che sarebbero stati approfonditi nel corso delle lezioni successive. Per
alcuni dei partecipanti è stato facile, per esempio, pensare autonomamente che
l’RNAi poteva essere usata per ridurre la produzione di una proteina dannosa e
quindi per sviluppare trattamenti contro alcune malattie.
L’aspetto qualificante dell’attività di laboratorio è però nel fatto che l’esperimento
proposto non era stato progettato per gli scopi didattici del corso, ma faceva
parte di un progetto di ricerca del quale ero responsabile e che una mia collaboratrice,
Francesca Gabanella, ha sviluppato nel corso dell’attività sperimentale prevista
dal suo dottorato di ricerca. La dottoressa Gabanella, che nel corso ha svolto
il ruolo di tutor, ha quindi illustrato direttamente anche gli obiettivi principali e le
linee di sviluppo del suo progetto, consentendo così ai docenti di scienze di valutare
l’importanza del risultato di quell’esperimento (basato sull’utilizzo della “interferenza
da RNA”) agli scopi del progetto di ricerca.
Termino con una considerazione generale. Io credo che una parte importante
del successo del corso sia dovuta allo spirito di collaborazione con il quale il gruppo
di ricercatori ha lavorato insieme ai docenti di scienze nelle giornate del corso.
Questo desiderio di collaborare, al di là dei confini istituzionali, nasce dal riconoscimento
di un background culturale comune e delle differenze nei ruoli e nella pratica
professionale, e si fonda sulla consapevolezza che migliorare l’educazione scientifica
nella scuola è un obiettivo d’interesse comune.
Anna Maria Salvatore
Ricercatore CNR
Attorno a noi vivono innumerevoli tipi di animali che sono sconosciuti ai più per motivi molto semplici: non sono riconoscibili ad occhio nudo e non procurano danni, o portano vantaggi, né direttamente, né indirettamente, all’uomo o alle sue attività. Eppure questi animali possono avere caratteristiche di estremo interesse ed anche offrire prospettive per il miglioramento non solo delle conoscenze, ma anche della vita umana. Tra questi possiamo annoverare i Tardigradi (Figure 1 e 2), microscopici Metazoi a simmetria bilaterale e di forma solitamente affusolata, con lunghezza in genere oscillante tra i 200 ed i 700 µm (raramente meno, ancor più raramente sopra il mm). I Tardigradi, anche se poco conosciuti, sono tutt’altro che rari. Innanzitutto esistono specie marine, specie di acque dolci (limniche) e specie di ambiente terrestre; quindi tutti i tipi di ambiente sono colonizzati da questi animali. In particolare, attorno a noi sono abbondantissimi negli interstizi di muschi, licheni, lettiera di bosco e terreni prativi, dove conducono vita attiva solamente quando circondati da almeno un velo d’acqua. Per questo motivo i Tardigradi sono da considerare organismi acquatici, anche quando vivono sulle terre emerse; in particolare, quelli che vivono in ambiente terrestre vengono definiti semiterrestri.
Le prime osservazioni dei Tardigradi, date le loro ridotte dimensioni, sono successive alla messa a punto del microscopio. Il primo a descriverne uno fu Johann August Ephraim Goeze nel 1773 che lo definì “kleiner Wasser Bär” (orsetto d’acqua), nome volgare ancor oggi utilizzato dagli autori di lingua tedesca ed inglese (water bear). L’anno successivo Bonaventura Corti lo definì “il brucolino”, ma fu Lazzaro Spallanzani che nel 1776 lo denominò “il tardigrado”, nome assegnato definitivamente al gruppo animale da Louis Michel François Doyère nel 1840. La prima specie formalmente descritta è stata Macrobiotus hufelandi; Carl August Sigismund Schultze nel 1834 la dedicò a Christoph Wilhelm von Hufeland, l’inventore del termine macrobiotica (Makrobiotik). Da allora le specie descritte hanno superato il migliaio, metà delle quali individuate negli ultimi cinquant’anni. Un elenco delle specie ed i criteri per l’individuazione dei taxa sono riportati da Guidetti e Bertolani (2005). Esiste una recente chiave per la classificazione a livello di genere della sola classe Eutardigrada (Pilato e Binda, 2010); l’ultima chiave per la classificazione a livello di specie e per tutto il phylum data quasi una trentina d’anni (Ramazzotti e Maucci, 1983); dello stesso periodo vi è anche una chiave relativa alle specie delle acque interne italiane (Bertolani, 1982). E’ presumibile che il numero delle specie possa incrementare notevolmente a seguito di indagini basate su una combinazione di studi di morfologia fine e di DNA barcoding (Cesari et al., 2009; Bertolani et al,. 2010), una tecnica di studio di recentissima applicazione che affianca ad indagini di morfologia, anche fine, lo studio delle sequenze nucleotidiche di tratti opportunamente scelti di DNA (Hebert et al., 2003). Qualcosa di simile a quanto in tempi recenti si fa in criminologia per l’identificazione delle persone. Il phylum Tardigrada è suddiviso in due classi: Heterotardigrada, sia marini che semiterrestri (con rarissime specie limniche); Eutardigrada, semiterrestri, o limnici. L’esistenza di una terza classe, Mesotardigrada (una sola specie di acque dolci termali, rinvenuta una sola volta negli anni ’30), è messa in discussione.
I Tardigradi, nonostante le loro microscopiche dimensioni, sono animali abbastanza complessi (Figura 3). Innanzitutto, sono metamerici e in particolare formati da cinque segmenti; il primo (capo), non ha zampe, mentre gli altri quattro ne presentano un paio ciascuno. Le zampe, di solito poste in posizione latero-ventrale, non sono articolate. Questa caratteristica differenzia i Tardigradi dagli Artropodi con i quali (e con gli Onicofori) il phylum Tardigrada, secondo i più recenti studi sul rDNA 18S (Ruppert et al., 2004), sarebbe correlato filogeneticamente e compreso nel gruppo (superphylum) Panarthropoda (Nielsen, 1997). Caratteristica comune ai Panarthropoda (oltre alla metameria) è la presenza di un esoscheletro chitinoso rinnovato ripetutamente attraverso mute, che nei Tardigradi è solitamente alquanto sottile. Per la loro peculiarità di rinnovare l’esoscheletro (ecdisi) e per caratteristiche molecolari, sempre legate al rDNA 18S, i Panartropodi vengono accomunati ad altri phyla nel gruppo degli Ecdysozoa (Giribet et al., 1996; Aguinaldo et al., 1997). Il primo motivo di grande interesse per questi animali è rappresentato dalla loro assai probabile condivisione della prima parte del percorso evolutivo utilizzato dagli Artropodi. Questi ultimi hanno sfruttato la presenza di metameria e la duttilità dell’esoscheletro (assieme alla sua capacità di arricchirsi di sali di calcio, o scleroproteine, e di articolarsi) per adattarsi in pratica ad ogni tipo di ambiente (mare, acqua dolce, ambiente terrestre ed aereo) e ad un’infinità di habitat, esprimendo di gran lunga il massimo della diversità a livello di numero di specie. I Tardigradi, invece, si sono specializzati a vivere negli interstizi di sedimenti o di organismi vegetali, ottimizzando il loro corpo a svolgere tutte le funzioni vitali con dimensioni microscopiche ed un numero limitato (e spesso costante) di cellule.
I Tardigradi sono in molti casi incolori, ma non di rado appaiono pigmentati di giallo, arancio, rosso, verde, o bruno. La cuticola, come si è detto solitamente sottile e di natura chitinosa, è formata da tre strati. Può apparire liscia o variamente ornamentata; negli Eterotardigradi semiterrestri è quasi sempre rinforzata dorso-lateralmente da piastre cuticolari. In questi minuscoli animali la cuticola è sufficiente a garantire gli scambi gassosi. Su di essa, all’estremità di ogni zampa sono solitamente inserite unghie (talvolta sostituite da “dita” in qualche genere marino), quattro o più (raramente meno) negli Eterotardigradi, due e di norma provviste di due rami (diplounghie) negli Eutardigradi (pochissime specie di questa classe ne sono prive). Cuticola e unghie sono sostituite con la muta; la nuova cuticola è secreta da sottostanti cellule epidermiche particolarmente appiattite; le unghie sono prodotte da apposite ghiandole pediali all’interno di ogni zampa. Internamente, l’epitelio pavimentoso epidermico è a contatto con l’ampia cavità del corpo, chiaramente di natura pseudocelomatica e quindi omologabile all’emocele degli Artropodi. Tale cavità è indivisa, ripiena di liquido e di cellule passivamente fluttuanti, dette globuli cavitari, con funzione di accumulo di sostanze di riserva. Nella stessa cavità sono presenti fibre muscolari longitudinali, o trasversali (queste ultime collegate alle zampe), ma mai circolari; queste fibre si inseriscono sulla cuticola e consentono la sola contrazione, con movimento antagonista dovuto alla risposta dello scheletro idrostatico (liquido pseudocelomatico) ed all’elasticità della cuticola. Come vedremo qui di seguito, altra muscolatura è presente nell’apparato bucco-faringeo e attorno all’intestino medio.
L’apparato digerente è completo e suddiviso in tre parti: intestino anteriore, medio e posteriore. L’intestino anteriore, di origine ectodermica, è formato dall’apparato bucco-faringeo, seguito caudalmente da uno stretto esofago. Il primo inizia con la bocca, anteriore o sub-terminale, seguita da un tubo boccale cuticolare che si inserisce in un bulbo faringeo di natura mio-epiteliale. Ai lati del tubo boccale sono posizionati due stiletti di carbonato di calcio sostenuti da supporti cuticolari e disposti obliquamente che, attraverso apposite fessure nel tubo boccale, possono essere protrusi all’esterno. Gli stiletti sono mossi da muscoli protrattori e retrattori, gli unici che consentono un movimento antagonista di natura muscolare. L’apparato bucco-faringeo è quindi un apparato pungente-succhiante: gli stiletti perforano cellule, o cuticole; il bulbo faringeo, contraendo le proprie cellule disposte a raggiera, dilata la propria cavità interna, creando una depressione che consente di risucchiare fluidi o cibo particolato. In questo modo i Tardigradi si nutrono di cellule vegetali, di ife, oppure di fluidi di altri animali, compresi talvolta altri Tardigradi. La muta del tardigrado inizia con l’espulsione delle parti sclerificate dell’apparato bucco-faringeo, per cui l’animale resta temporaneamente incapace di nutrirsi (stadio “simplex”). Contemporaneamente alla nuova cuticola, queste parti vengono ricostituite dal bulbo faringeo e da due grosse ghiandole, dette ghiandole boccali, che iniziano ai lati della bocca, ma che si sviluppano in forma di sacche soprattutto caudalmente al bulbo faringeo e che si portano anteriormente a questo durante la muta. L’intestino medio, di origine endodermica, è una grossa struttura sacciforme che fa seguito all’esofago ed entro la quale si attuano i processi digestivi. E’ formato da grosse cellule ed è circondato da una serie di fibre muscolari longitudinali. Ad esso fa seguito l’intestino posteriore, rappresentato dal retto che termina in un ano (Eterotardigradi), o in una cloaca (Eutardigradi). Nel retto degli Eutardigradi sboccano tre ghiandole escretrici (ghiandole malpighiane). Nelle rare specie marine di Eutardigradi (secondariamente marine) queste ghiandole appaiono fortemente ingrossate, evidenziando un loro ruolo anche nell’osmoregolazione. Gli organi escretori degli Eterotardigradi sono in gran parte sconosciuti; in alcuni casi sono note ghiandole ventrali di natura epidermica.
Il sistema nervoso centrale dei Tardigradi è relativamente complesso. Nel segmento cefalico vi è un cerebro plurilobato collegato attraverso un anello nervoso ad un ganglio sottoesofageo ventrale; questo, a sua volta è connesso tramite due cordoni nervosi paralleli ad una serie di quattro gangli ventrali, uno per segmento provvisto di zampe. Come organi di senso possiamo trovare due macchie oculari (talvolta assenti) connesse con le terminazioni posteriori dei lobi del cerebro. Altre strutture sensoriali sono rappresentate da filamenti e papille cuticolari (negli Eterotardigradi) che spesso ricoprono strutture di natura ciliare, e bottoni cuticolari negli Eutardigradi.
I Tardigradi si riproducono esclusivamente attraverso gameti. I sessi sono spesso separati ma, specialmente in ambiente non marino, non mancano specie ermafrodite (Bertolani, 2001). In entrambi i sessi (e negli ermafroditi) la gonade, l’unico residuo di sacchetti celomatici che si formano durante lo sviluppo embrionale, è sacciforme, posta dorso-caudalmente e più o meno allungata in avanti a seconda del contenuto in gameti. Nei maschi, al testicolo fa seguito una coppia di deferenti (a volte terminanti con vescicole seminali), mentre nelle femmine e negli ermafroditi vi è un solo gonodotto, in modo da non creare problemi al passaggio delle uova. Nelle femmine di alcune specie è presente una spermateca. Negli Eutardigradi i gonodotti terminano in una cloaca, negli Eterotardigradi in un gonoporo. Gli spermatozoi dei Tardigradi sono sempre provvisti di flagello ed assumono forme alquanto differenti. In alcune specie hanno la testa e l’acrosoma particolarmente allungati, tanto da far raggiungere al gamete anche i 100 µm di lunghezza (circa un quarto della lunghezza dell’intero animale. Le uova hanno caratteristiche particolari; alcune sono provviste di guscio con ornamentazioni specie specifiche (Figura 4). Altre hanno un guscio liscio, ma vengono deposte all’interno dell’esuvia (vecchia cuticola) al termine della muta. I maschi sono talvolta semelpari (cioè si accoppiano una sola volta nella vita), mentre le femmine e gli ermafroditi sono sempre iteropari, deponendo uova (da una a più di 30) più volte nella loro vita.
Le modalità riproduttive rappresentano un secondo motivo di grande interesse dei Tardigradi (Bertolani, 2001). Se da un lato la totalità delle specie marine si riproduce per anfimissi (unione di un uovo e di uno spermatozoo), la maggioranza delle specie limniche e semiterrestri si riproduce per partenogenesi, ovvero producendo prole attraverso lo sviluppo di un uovo non fecondato, anche se l’anfimissi non è del tutto persa in ambiente non marino. Inoltre, nelle specie ermafrodite la riproduzione avviene per autofecondazione. I Tardigradi, pertanto, rappresentano un vero campionario di modalità riproduttive, anche perché la partenogenesi può essere attuata con modalità dal significato genetico alquanto differente. La partenogenesi sembra essere sempre obbligatoria e continua (quando è presente, nelle popolazioni non si individuano mai maschi; partenogenesi telitoca), ma può essere attuata attraverso una maturazione ameiotica (apomissi), o meiotica (automissi) dell’ovocita e può essere realizzata sia in popolazioni diploidi, che poliploidi (Bertolani, 2001). Nel caso di apomissi si ottengono dei veri e propri cloni, mentre nel caso di automissi si può avere ricombinazione nella profase meiotica, che tuttavia perde di significato con il permanere nelle generazioni della partenogenesi, perché vi è la tendenza a raggiungere col tempo una completa omozigosi. La stessa situazione si ottiene con il permanere dell’autofecondazione nelle popolazioni ermafrodite sufficienti. Tale omozigosi è stata effettivamente osservata analizzando alcuni allozimi in una popolazione diploide automittica (Rebecchi et al., 2003). Il successo dell’autofecondazione e soprattutto della partenogenesi in ambiente non marino (in mare la partenogenesi è estremamente rara in qualsiasi organismo) è giustificato dal vantaggio che questo tipo di riproduzione offre ad organismi che, come i Tardigradi, sfruttano la dispersione passiva per colonizzare nuovi territori. Un organismo che raggiunge passivamente un substrato a lui idoneo è certamente avvantaggiato se è in grado di riprodursi senza dover ricercare un partner. Lo svantaggio è rappresentato da una forte riduzione della variabilità genetica, limitata agli effetti di eventi mutazionali, svantaggio che potrebbe essere mitigato dalle capacità criptobionti di questi animali (vedi dopo). Ulteriore motivo di interesse della partenogenesi in questi animali è rappresentato dalla presenza del fenomeno sia in linee evolutive che comprendono anche popolazioni (o specie affini) anfimittiche, sia in linee evolutive (anche intere famiglie) in cui i maschi sono sconosciuti (Guidetti et al. 2005). La prima situazione ci consente comparazioni tra anfimissi e partenogenesi; la seconda ci dice che la partenogenesi è presente da un tempo decisamente lungo, tale da permettere un differenziamento in specie ed in generi senza l’intervento della ricombinazione, ma solamente su base selettiva, similmente a quanto si verifica nei Rotiferi Bdelloidei. L’uovo dei Tardigradi è omolecitico. Il modo di formazione del celoma è discusso; in ogni caso, le cinque paia di sacchetti celomatici che si formano poco dopo si dissolvono, tranne i due più caudali che, fondendosi formano la gonade. Lo sviluppo è diretto negli Eutardigrada, indiretto (mancanza di ano e gonoporo, numero minore di unghie rispetto all’adulto) negli Heterotardigrada. Alla nascita, ogni individuo presenta lo stesso numero di cellule che avrà da adulto (costanza cellulare), per cui l’accrescimento avviene soltanto per aumento del loro volume. Tuttavia, anche dopo la nascita si verificano divisioni cellulari, sia nella gonade, sia in alcuni tessuti somatici, che servono però soltanto a rimpiazzare cellule andate perdute. Questi organismi miniaturizzati cercano quindi di ottenere la massima resa con organi costituiti dal numero minimo di cellule possibile.
La vita di un tardigrado, a seconda delle specie, può durare da qualche settimana di vita attiva fino ad oltre un anno (518 giorni), come verificato in allevamenti controllati (Altiero et al., 2006). La vita effettiva diventa poi, in termini di tempo, molto più lunga se si sommano ai momenti di vita attiva quelli di dormienza.
La dormienza, appunto, è il terzo motivo di grande interesse dei Tardigradi. Essa riguarda soprattutto, ma non esclusivamente, i Tardigradi semiterrestri e può essere distinta in due fenomeni: diapausa e quiescenza. La diapausa è dovuta a stimoli endogeni, può essere solo indirettamente una risposta a modificazioni ambientali e non termina con il variare di tali condizioni. La quiescenza, invece, è una risposta diretta a fenomeni esterni all’animale e cessa con la fine della condizione ambientale che l’ha provocata. La diapausa è rappresentata dall’incistamento e dalle uova di durata. Il tardigrado, quando forma la cisti, non perde acqua, ma forma a protezione nuovi involucri cuticolari, modificando anche alcuni apparati interni. Per moltissime specie però il fenomeno non è noto; non è nemmeno chiaro cosa provochi questo stato, anche se recentemente sono state individuate correlazioni con la stagionalità (Guidetti et al., 2008). Le uova di durata, scoperte molto recentemente, sono prodotte da femmine che depongono anche uova con tempi di sviluppo normali; per far proseguire il loro sviluppo è necessario uno stimolo rappresentato da una disidratazione, seguita da una reidratazione. Il significato adattativo di questa plasticità fenotipica va individuato nella possibilità di non far nascere tutti gli individui con le stesse condizioni ambientali (che potrebbero anche essere sfavorevoli), mantenendo una quota di uova per momenti successivi (Altiero et al., 2010).
La quiescenza dei Tardigradi è rappresentata dalla criptobiosi (= vita nascosta) nelle sue varie manifestazioni, accomunate da un rallentamento (sospensione?) del metabolismo senza la produzione, come nell’incistamento, di nuove strutture, ma al più con modificazioni di forma. In particolare, l’anidrobiosi è dovuta a perdita della massima parte dell’acqua per disidratazione; la criobiosi è la capacità di sopravvivere al congelamento; l’anossibiosi (o stato asfittico) è causata dalla carenza di ossigeno nell’acqua che provoca una distensione completa e immobilità dell’animale; l’osmobiosi è dovuta a forti variazioni della pressione osmotica nel liquido circostante l’animale. La criptobiosi può essere attuata dai Tardigradi in qualsiasi fase del loro ciclo vitale, uovo compreso, per tempi a volte molto lunghi (almeno nell’anidrobiosi e nella criobiosi) e comunque dipendenti dalle specie e dalle modalità di conservazione del materiale. Non è senza sorpresa che pochissimo tempo fa, nel nostro laboratorio, è stato esaminato un campione di muschio conservato da 10 anni in un freezer (a -80°C) dal quale sono usciti animali che, dopo breve tempo dallo scongelamento, sono risultati decisamente attivi. L’anidrobiosi è stata inizialmente studiata e ben caratterizzata già dallo Spallanzani che riteneva il fenomeno una vera resurrezione (da lui fu chiamata reviviscenza) ed è ancor oggi molto indagata per le sue possibili applicazioni, per cui è la forma più conosciuta di criptobiosi. Quando l’acqua inizia a mancare, l’animale si contrae formando la cosiddetta “botticella” (tun; Figura 5) perché è importante che la disidratazione sia lenta e consenta a tessuti e cellule di organizzarsi opportunamente in vista dell’essiccamento. In questo momento inizia la sintesi di uno zucchero, il trealosio, in grado di sostituirsi all’acqua, impedendo la rottura delle citomembrane (Westh e Ramløw 1991; Wrigth 2001). In anidrobiosi i Tardigradi possono restare per mesi e a volte per anni. La notizia che possano sopravvivere per più di un secolo, apparsa su alcune riviste di divulgazione scientifica, non ha supporto scientifico; per alcune specie sono stati superati i quattro anni di sopravvivenza in stato essiccato in condizioni normali di presenza di ossigeno nell’aria (Rebecchi et al., 2006). I Tardigradi in anidrobiosi aumentano notevolmente la loro resistenza ad agenti fisici e chimici. In questo stato possono infatti meglio superare periodi di congelamento, ma anche sopportare dosi di radiazioni UV e ionizzanti che ucciderebbero organismi attivi, temperature molto basse o elevate (fino a –273°C e a +151°C), elevatissime pressioni atmosferiche (600 MPa) e sostanze chimiche (come etanolo, H2S, OsO4, bromuro di metile), vuoto (5 x 10-4 Pa) (Rebecchi et al. 2007, 2009; Horikawa et al. 2008; Jönsson et al. 2008; Ono et al. 2008; Altiero et al., in stampa).
L’anidrobiosi termina con il ritorno dell’acqua. E’ sufficiente aggiungerne un poco al substrato e in un tempo variabile dalla mezz’ora a poco più di un’ora (in relazione a quanto è durata l’anidrobiosi) l’animale riprende a muoversi, come ebbe già occasione di osservare lo Spallanzani. La capacità di attuare l’anidrobiosi ha consentito ai Tardigradi di occupare le terre emerse, probabilmente assieme alle Briofite, e non solo; la criptobiosi nelle sue varie modalità ha consentito ai Tardigradi di colonizzare gli ambienti cosiddetti estremi (per noi, più che per loro), o ostili alla vita, quali quelli di elevate latitudini e altitudini e i deserti. In questi ambienti, così come nei muschi e nei licheni esposti a ripetuti essiccamenti e reidratazioni, i Tardigradi, assieme ai Nematodi ed i Rotiferi, sono spesso gli unici Metazoi presenti. La capacità di attuare l’anidrobiosi offre quindi il vantaggio di sfuggire alla maggior parte dei predatori.
La notevole capacità di resistenza dei Tardigradi ha portato diversi studiosi, soprattutto in questi ultimi anni, ad approfondire le conoscenze del fenomeno ed in particolare a tentare di capire cosa possa permettere questa quasi incredibile sopravvivenza. A tal proposito, si sta indagando il ruolo svolto da determinate molecole biologiche. Tra queste devono essere citate le proteine da shock termico, Hsps (Heat shock proteins), una famiglia di proteine con diversi pesi molecolari il cui ruolo riguarda non soltanto la resistenza al calore, ma anche ad altri tipi di stress (disidratazione, radiazioni UV e ionizzanti, ecc.) (Goyal et al., 2005; Jönsson e Schill, 2007; Schill et al., 2004) Altre molecole oggetto di studio perché potrebbero essere coinvolte sono le proteine LEA (Late Embryogenesis Abundant) (Battista et al., 2001; Hoekstra et al., 2001; Tunnacliffe et al., 2005; Kikawada et al., 2006). Anche gli enzimi antiossidanti svolgono un ruolo molto importante nel rimuovere radicali liberi dall’ambiente intracellulare e quindi proteggere dai danni derivanti da processi ossidativi (Rizzo et al., 2010).
Recentemente i Tardigradi, proprio per le loro sorprendenti caratteristiche di resistenza agli stress fin qui descritte, sono stati selezionati come modello di organismi pluricellulari da impiegare per esperimenti nello spazio. Nel Settembre 2007, durante la missione FOTON M3 (dal nome del modulo spaziale utilizzato, in orbita per 12 giorni) sono stati sviluppati due progetti che avevano come modello i Tardigradi, uno all’esterno del modulo con animali essiccati (progetto TARDIS, promosso dall’ESA, European Space Agency; Jönsson et al., 2008), un altro all’interno della navicella con animali attivi ed essiccati (progetto TARSE, promosso dall’ASI, Agenzia Spaziale Italiana; Rebecchi et al., 2009¸ Rebecchi et al., in stampa). Nel progetto TARDIS animali essiccati erano esposti al vuoto, schermati, o esposti alle radiazioni solari e cosmiche. Parallelamente venivano effettuati controlli a terra nell’ambiente di un laboratorio. Nel solo vuoto la sopravvivenza era del tutto comparabile con quella di controlli tenuti a terra; quando esposti all’azione combinata di vuoto e radiazioni solari la sopravvivenza dei Tardigradi c’era, ma per gli animali era minima, per le uova (anche quelle, ovviamente, essiccate) elevata e comparabile con i controlli. Il progetto TARSE ha avuto lo scopo di analizzare la resistenza a fattori di stress quali microgravità e radiazioni, confrontando le risposte di Tardigradi attivi ed essiccati all’interno del modulo spaziale, esaminati al ritorno dal volo, con controllo a terra. E’ stata evidenziata un’ottima sopravvivenza, fino al 94%, dei Tardigradi secchi e al 60 % dei Tardigradi attivi. La microgravità e le radiazioni (queste ultime presenti, anche se l’ambiente era parzialmente schermato) non hanno provocato danni al DNA dei Tardigradi, né secchi, né attivi. Inoltre l’ambiente spaziale ha indotto (nei soli Tardigradi secchi) l’espressione di proteine Hsps (Hsp70 e Hsp90). Nei Tardigradi attivi, invece, è stata evidenziata una risposta antiossidativa. Infine, nonostante sia noto che in altri animali (quali l’anfibio Xenopus laevis) la microgravità influenza negativamente lo sviluppo embrionale (Rizzo et al., 2002), nei Tardigradi non è stato così. Durante il volo gli esemplari attivi sono stati in grado di riprodursi, deponendo uova che si sono schiuse originando prole con normale morfologia e comportamento. I nati da queste uova, allevati in laboratorio, sono stati a loro volta in grado di riprodursi.
Queste serie di esperimenti hanno consentito di incrementare le nostre informazioni sulle eccezionali capacità dei Tardigradi, iniziando a focalizzare l’attenzione sugli aspetti biochimici che consentono la sopravvivenza in ambienti a noi così ostili. Essi dimostrano, fra l’altro, che non solo i Batteri e i Protozoi, ma anche organismi pluricellulari possono rappresentare un valido strumento per studiare le strategie adattative e i meccanismi molecolari che consentono la vita nello spazio. Carpire il segreto di questa straordinaria capacità di sopravvivenza attraverso l’individuazione delle molecole e dei processi che la permettono rappresenta un obiettivo da perseguire che, se raggiunto, potrà certamente essere di grande aiuto all’uomo, ad esempio nella preservazione di tessuti ed organi e nella stabilizzazione di vaccini, cellule, piastrine e lisosomi.
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Didascalia delle figure
Fig. 1 – Esemplare di Milnesium tardigradum (microscopio elettronico a scansione; barra =
50 µm).
Fig. 2 – Esemplare in vivo di Hypsibius dujardini
(microscopio a contrasti interferenziale secondo Nomarski; barra = 15µm).
Fig. 3 – Organizzazione di un tardigrado: b:
apertura boccale; bf: bulbo faringei; c: cerebro; e: esofago; gb: ghiandole
boccali; gc: globuli cavitari; gm: ghiandole malpighiane; gp: ghiandole pediali;
i: intestino medio; o: ovario; ov: ovidotto; tb: tubo boccale (da Bertolani,
1982).
Fig. 4 – Uovo di Macrobiotus macrocalix (microscopio elettronico a scansione; barra
= 5 µm).
Fig. 5 – “Tun” di tardigrado (microscopio
elettronico a scansione; barra = 25 µm; da Rebecchi et al. 2007).
Tiziana Altiero, Roberto Bertolani