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Volterra, ce ne fossero come lui!

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Vito Volterra è un libro molto bello scritto da un matematico e un esperto di archivi e documentazione su una figura sconosciuta ai più. Quando dico ai più, voglio dire a qualcosa come il 99% degli italiani: non ho dati certi, ma se davvero 600.000 persone, in Italia sapessero dire anche per sommi capi chi era e cosa ha fatto sarei pronto ad ammettere pubblicamente che mi sono sbagliato, e con grossolanità e superficialità. Insomma, niente da dire sul culto di D’Annunzio, di Cavour, di Totò, e persino di padre Pio, ma nelle scelte biografiche della memoria collettiva c’è una tendenza a staccare la spina alle persone più importanti. Volterra Vito fu Abramo, come diceva lo scarno comunicato del commissariato di polizia di Piazza in Lucina, a Roma, alla sua morte nel 1940 – precisando: “giudeo” – è una delle persone più straordinarie di cui possiamo vantarci in tutto il mondo. Matematico colto e profondo, lucidamente dedito all’importanza della matematica per la comprensione del mondo, cosciente della necessità di dare spazio alla disciplina nella cultura frullata dalla retorica umana, convinto della convenienza di fare delle scienze un “pubblico interesse”, Volterra ebbe una storia ordinariamente borghese come potremmo averla tutti noi, ma riuscì a distinguersi grazie alla sua intelligenza, alla sua curiosità e al suo indomito attivismo. Seppe approfittare di grandi maestri (che forse resteranno più sconosciuti di lui, come Ulisse Dini, Cesare Arzelà e Enrico Betti), seppe scegliere i problemi più significativi della sua epoca, seppe farsi conoscere dalla comunità internazionale, seppe occuparsi dei suoi simili facendo nascere, per loro, il Consiglio Nazionale delle Ricerche. Insomma, seppe contribuire a fare dell’Italia un paese moderno, un paese dal quale molta della politica di questi giorni vuole espellerci per trasformarlo in uno stupido mercato per faccendieri e usurai.

Questo libro andrebbe studiato nelle scuole, al posto di tanta cianfrusaglia che pretende di essere lo scheletro della “tradizione culturale”. La matematica di Volterra non sta nei ghiacci dell’astrazione: mi verrebbe voglia di dire che “la capirebbe anche un bambino”, nel senso che, pur avendo le sue difficoltà tecniche, non subisce mai quei processi di oscuramento gergale che fanno dire a troppi, come fosse una sfida per difendere un diritto, “io la matematica non la capisco” . Non disprezza, per altezzosità delle forme, di occuparsi di problemi assai concreti come gli spostamenti dell’asse terrestre dovuti al moto delle masse sul pianeta (gustosa la diatriba con il grande Giuseppe Peano, a Torino); inventa la matematica delle popolazioni, contribuendo alla biometrica; dà il via a una classe di equazioni, le “equazioni integrali di Volterra”, esempio di formalizzazione e modalità di calcolo completo e trasparente, di grande valore pratico nelle applicazioni. E’ un “fisico matematico”, diverso dai fisici teorici ma anche da molti dei matematici afflitti da introversione disciplinare, frequenti a cavallo della fine dell’’800. E’ un innovatore ma anche un intellettuale nuovo in tutti i sensi.

Ma Volterra è soprattutto un “servitore dello stato”, convinto del fatto che il paese, per crescere abbia bisogno di scienza; e di scienza di qualità tale da accreditarsi nella comunità scientifia sovranazionale. In verità, in quegli anni tra l’inizio del ‘900 e l’inizio della seconda guerra mondiale, non mancano in Italia i personaggi intenzionati a uscire dal guscio nazionale: Orso Mario Corbino, il fisico che alleva e protegge il celebre gruppo di via Panisperna, è di questi e opera in accordo con Volterra sebbene con diversa concezione della politica. Benedetto Croce, che non è certo stato un entusiasta sostenitore del pensiero scientifico, non frapporrà troppi ostacoli, come già aveva fatto con Federigo Enriques. Da una intensa attività di scambi internazionali, particolarmete con l’astronomo americano George Hale che è ben conscio del valore sia scientifico che pratico di un’impresa come l’osservatorio di Mount Wilson, nasce quello spirito di collaborazione che darà vita alle prime forme di “big science”. Ma già Volterra è conscio dell’importanza del lavorare insieme, sin da quando, nel primo conflitto mondiale, si è occupato di dirigibili, di clima, di tavole di tiro per l’artiglieria e di una infinità di problemi concreti che mettono ordine nel mondo degli inventori e lo trasformano in uno in cui ricerca di base e ricerca applicata possono convivere uilmente. Vito Volterra ha una determinazione politica molto lucida: non esita a schierarsi contro l’Austria e poi la Germania, nel ’15-18, e a rifiutare i contatti con i colleghi tedeschi che non riconoscono la gravità dell’aggressione imperialista in atto da parte dei loro governi. Poi si adopera per costituire in Italia il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), che nascerà dalle sue esperienze personali e dal suo impegno maturato nella Società Italiana per il Progresso delle Scienze (SIPS), nell’Accademia delle Scienze detta dei XL e nell’Accademia dei Lincei. Il libro descrive gli alti e bassi del gradimento politico verso il suo sforzo, spesso inviso ai colleghi troppo schivi; come lo sono, purtroppo, gli accademici, per natura.

Alla fine, prevale, per nostra fortuna: molte di quelle vicende possono essere rilette oggi alla luce fastidiosa ma attualizzante della grettezza del nuovo qualunquismo dilagante in Italia all’alba del XXI secolo. Il pregio che va riconosciuto agli autori (se lo meritano!) è quello di avere descritto l’eccezionalità di un grande uomo virtuoso ma pienamente responsabile contrastandola con i vizi e le virtù (più modeste) di tutto il resto del mondo, comprese quelle dell’amata comunità scientifica. Perché non si legge anche nelle scuole?


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