Precedenti
E’ del 2013 l’individuazione del primo caso di presenza del batterio di Xylella in Europa.
E’ stata l’équipe diretta da Maria Saponari a individuarlo nelle Puglie. Indagini condotte in seguito hanno evidenziato che i comuni interessati erano i seguenti: Alezio, Alliste, Collepasso, Copertino, Galatina, Gallipoli, Lecce, Matino, Melissano, Neviano, Parabita, Racale, Sannicola, Sternatia, Taviano, Trepuzzi, vale a dire 18 846 ettari interessati, per 13998 aziende. Tuttavia altri focolai sono stati scoperti dopo in altri territori pugliesi.
Si è notato che gli olivi colpiti non sono delle giovani piante bensì piante vecchie di almeno 100 anni. In queste zone è colpito anche il mandorlo e l’oleandro.
Tuttavia è da un secolo almeno che sul continente americano la Xylella genera danni su piante coltivate sia erbacee che arboree e su piante ornamentali. Alcune piante erbacee appartenenti alle graminacee e al genere carex sono contaminate ma non presentano i sintomi delle precedenti, sono, però, un serbatoio d’inoculo molto importante.
Sono state riscontrate diverse sottospecie di Xylella fastidiosa e almeno 4 sono ben distinte, comunque tutte sono generate dallo stesso batterio, ma con DNA più o meno mutato (da qui le 4 sottospecie) che s’insedia nelle cellule dello xilema (i condotti delle piante per la linfa grezza ascendente, composta da acqua e sali minerali,) forma colonie che producono un biofilm-gel che ostruisce i condotti e fa seccare la parte soprastante in quanto l’acqua della linfa grezza non arriva più alle cellule delle foglie e dei rametti.
Sulle varie piante che colonizza, Il batterio è trasportato da insetti ad apparato boccale pungente-succhiante e questo s’infetta man mano che questo entra ed esce da una pianta ospitante il batterio.
Esiste la Xf subsp “fastidiosa”, distribuita in America del centro e del nord, che colpisce la vite, l’arancio, il mandorlo ed il caffè; la Xf subsp “multipex, distribuita in USA e Brasile, che colpisce il mandorlo, il pesco, il pruno, il mirtillo, la quercia e il pecan; la Xf subsp “pauca”, distribuita nell’America del sud (Brasile Paraguay e Argentina), che provoca la malattia negli agrumi e nelle piantagioni di caffè; la Xf subsp “Sandyi” che si trova in USA sull’oleandro.
I sintomi che evidenziano gli attacchi di queste quattro sottospecie sono diversi, ma i due principali sono: la “clorosi sparsa degli agrumi“ (Citrus Variegated Chlorosis/CVC) con induzione a produrre frutti piccoli e piante che non crescono come le altre, fu trovata per la prima volta nel 1987 negli stati brasiliani di San Paolo e Minas Gerais; la malattia di Pierce delle viti (Pierce’s diseases) che provoca un ingiallimento e successivamente arrossamento delle foglie della vite ed è conosciuta fin dal 1880, data nella quale un attacco ha distrutto ben 14.000 viti nei dintorni di Los Angeles, ma il batterio patogeno è stato isolato nel 1887 e la malattia fu descritta da Newton Pierce, da qui il nome. Nel 1987 vi è stata una ulteriore recrudescenza della malattia a seguito dell’importazione nel sud degli USA di un insetto pungente-succhiante (Homolodisca vitripennis) che ha permesso di ridare impulso alla malattia.
Ora la fonte dell’agente dell’infezione che ha raggiunto l’Italia non è quella californiana, infatti grazie alle analisi di Annalisa Giampetruzzi si ascrive la fonte batterica italiana alla sottospecie pauca e quindi la vite non sarebbe l’ospite preferito. Si sono individuati anche i più probabili vettori del batterio, essi sono la Cicadella viridis L. (Cicadellidae) e Philaenus spumarius L. (Aphrophoridae) che sono gli insetti più conosciuti per diffondere virosi, batteri e micoplasmi. Tuttavia la lista di questi vettori non finisce di allungarsi e la colonizzazione di nuove aree, dove il vettore non trova subito predatori adeguati, comporta fiammate di nuovi focolai. Per giunta sono molto polifagi. Il nome ufficiale dato da noi è “Complesso del Disseccamento Rapido dell’olivo” (CoDIRO) e da qui è derivato il nome di questa nuova sorgente d’infezione ed anche la scoperta che la stessa conformazione genotipica di questo batterio è presente in Costarica e quindi si reputa che questo paese sia il punto di partenza.
E di queste settimane (22 luglio scorso) la notizia che il batterio ha raggiunto anche la Corsica e precisamente in un zona commerciale di Propriano. La specie vegetale colpita è la Polygala myrtifolia, non solo, ma sembra proprio che l’origine dell’infestazione sia la stessa nostra, vale a dire un’importazione dall’Olanda di piante ornamentali dalla zona Centramericana. Tuttavia, stante ad una dichiarazione del Ministero dell’agricoltura francese non si tratterebbe delle sottospecie “pauca”, ma della “multiplex”.
Da notare inoltre che un documento del 2014 della Regione Puglia cita che in provincia di Lecce un’infezione era stata trovata anche su Polygala. Dopo il primo rinvenimento, quindi in una settimana sono state individuati altri focolai di poligala infetta ad Aiaccio ed a Portovecchio. Altro aspetto curioso è che dei fiori ornamentali quali la “pervinca” (Vinca minor e V. rosea) molto diffusi nel commercio di piantine floricole da pieno sole, sono da tempo soggette ad appassimento e nanizzazione e quindi varrebbe la pena fare un’indagine a questo proposito. Inoltre, avendo prima di tutto potuto stabilire la data della messa a dimora del cespuglio ornamentale, si è stabilito che probabilmente l’infezione non data di quest’anno, ma di qualche anno fa. Successivamente si è pure individuato il vivaista fornitore delle piante per l’allestimento del verde nel centro commerciale.
Azioni di contrasto
Non esistono ancora metodi di lotta risolutivi ma noi italiani ci siamo subito distinti per dare libero accesso a discutere del problema a persone che non avevano nessuna competenza.
Basti solo citare che è stata diffusa la notizia che il batterio è stato prodotto da una multinazionale brasiliana denominata “allelyx”, che, se si osserva bene, non è altro che l’anagrmma di “xylella”; guarda caso comprata nel 2008 dalla Monsanto (… e ti pareva che non c’entrasse). Si è poi passati ad incolpare gli ambienti scientifici di essere i colpevoli della trasmissione del batterio, in quanto lo si era importato precedentemente per scopi di studio, ma sicuramente mettendo in atto tutta la metodologia prevista dal protocollo di prevenzione circa l’eventuale possibilità di sfuggita del parassita dal confinamento. Ecco, al massimo agli organismi di controllo deputati si doveva chiedere di verificare se presso il CNR e l’Università di Bari il protocollo di quarantena era stato messo in atto correttamente. L’intervento della Magistratura invece si colloca nella volontà, sempre ed in ogni occasione, di una sua supplenza nei riguardi di altre istituzioni e che ormai imperversa in Italia. D’altronde con la scoperta di focolai così diffusi in Puglia, penso proprio che agli scienziati non vi sia da dare nessuna imputazione perché l’infezione è sicuramente datata.
Successivamente, quando gli organismi competenti hanno deciso l’abbattimento delle piante visibilmente colpite, si è ricorsi al TAR, oppure si sono inventate pratiche di guarigione (vedi irrorazioni con solfato di rame) della malattia che nulla avevano di scientifico e di provato. Tutto ciò è avvenuto peraltro in un contesto di ormai presenza diffusa di focolai di infezione.
Eppure da sempre si sa che l’unica pratica da mettere in atto con buon senso è quella di limitare l’aumento delle fonti di inoculo batterico da dove gli insetti vettori possono infettarsi, mediante, appunto, la distruzione della vegetazione circostante gli ulivi con pratiche di tipo agronomico: come la fresatura e l’erpicatura e, perché no, il diserbo con erbicidi totali, se meccanicamente possibili.
Nel contempo si deve assolutamente evitare che il vettore o i vettori s’incrementino di numero e si carichino d’inoculo, ma il farlo comporta, purtroppo, o una disinfestazione con insetticidi o l’eradicazione di tutte le piante arboree e arbustive diverse dagli ulivi che sono verificate ospitare il batterio e procedere al taglio selettivo delle branche colpite e perfino l’abbattimento delle intere piante di olivo al fine di creare una zona tampone delimitante il focolaio. Tuttavia di fronte a focolai ben individuati non vi è altra strada che la distruzione delle piante infette e relativa bruciatura.
Ecco noi italiani per mettere in atto con sistematicità queste pratiche abbiamo atteso l’aut-aut della Commissione di Bruxelles che obbligano a pratiche di quarantena generalizzata. Eppure sapevamo benissimo che a causa di questi potenziali rischi la X. fastidiosa era nella lista A1 di quarantena di EPPO (European and Mediterranean Plant Protection Organization).
Non solo, ma da quando il governo ha promesso, ed ora stanziato fondi per incrementare la ricerca e procedere ai giusti indennizzi, molte delle proteste mediatizzate sono rientrate. Tuttavia il problema continua ad aggravarsi. Chiunque abbia conoscenze di entomologia e parassitologia sa che i metodi suddetti hanno una certa componente di aleatorietà, ma è altrettanto conscio che senza nessun intervento e rimanendo ancorati alle discussioni di commissioni con tutte le parti interessate, si genera solo immobilismo e di conseguenza un aumento indisturbato dei focolai d’infezione. Meglio avrebbero fatto magistrati e sedicenti “maitres à penser” ambientalisti se avessero interpellato subito Alexander Purcell, professore emerito alla University of California. Almeno avrebbero saputo molto prima del 12 giugno cosa suggeriva l'esperto.
Ma quali azioni hanno messo in pratica altre nazioni di fronte a un simile problema?
Se guardiamo la Francia, ultima arrivata nel novero degli Stati interessati dal potenziale flagello, essa già nell’aprile 2014 aveva interdetto l’importazione in Corsica di 200 specie vivaistiche sospette ospitare il batterio e ciò pur avendo collezionato casi di negatività nei molti controlli del 2014 che anche nel lasso di tempo del 2015 già trascorso.
Nel momento della scoperta della positività poi, si è proceduto subito per un raggio di 100 m attorno alle aiuole di Polygala myrtifolia, a estirpare innanzitutto tutti i cespugli di polygala e tutte le piante che rientrano nella lista di possibili ospiti; inoltre tutto questo materiale vegetale è stato bruciato ed è stata attuata una disinfestazione generalizzata di tutti gli insetti, evidentemente mediante insetticidi ( si pensi che in California per la malattia di Pierce usano irrorare le piante erbacee circostanti la vite con neonicotinoidi che sono ad azione sistemica, mentre noi li interdiciamo, eppure anche la California ha bisogno delle api, anzi forse più di noi per la caratteristica della sua agricoltura, fatta da produzioni frutticole, orticole e di sementi).
Successivamente è stata delimitata una zona di 10 km di raggio minimo dove si distingue appunto la zona “infetta” e una zona “tampone”. In questa seconda zona verrà messa in atto una puntigliosa azione di controllo di insetti e piante onde individuare subito presenza di vettori infetti e piante parassitate dal batterio. L’azione come detto sopra ha già fatto scoprire altre piante infette.
Da questa zona non può entrare o uscire alcun materiale vegetale. Dunque siamo in presenza di un’azione preventiva di monitoraggio che ha permesso di evidenziare subito il primo focolaio, inoltre all’interno delle zone delimitate si è svolta da subito un’azione di limitazione della propagazione della malattia. Tuttavia è convinzione che questo focolaio non sia il frutto di un’infezione recente, ma che essa possa essere datata di 5 anni prima. Se è vero quanto asseriscono i francesi, è lecito chiedersi da quando è datata l’infezione delle Puglie, vista l’estensione geografica dei focolai di olivi infetti? Perché si è atteso così tanto tempo prima di intervenire? Altro aspetto e quello di com’è stato regolamentata la circolazione delle olive di territori infetti ai frantoi? Abbiamo messo in atto, adattandolo evidentemente, quanto in California si fa per l’uva?
Seppure per un batterio diverso, ma sempre veicolato da insetti e che provoca il “Citrus Greening” in Florida e non solo, il comportamento degli agrumicoltori statunitensi è stato questo, come riporta il New York Times.
Comunque la cosa più importante da ritenere è che laddove (USA e Brasile) si sono messe in pratica le azioni di contrasto descritte si sono ottenuti dei risultati in Brasile nei confronti del Citrus Variegated Chlorosis/CVC, mentre quasi nulla si è ottenuto in USA per la malattia di Pierce. I fattori che spiegano questo comportamento sono tanti, ma di notevole impatto è la molteplicità di piante ospiti del batterio, e sovente asintomatiche, e con l’aggiunta che molti insetti succhiatori di linfa, e non definibili parassiti, fanno da vettori. Piante ed insetti vettori devono essere senz’altro tutti individuati e studiati. Nel contempo occorre, però, passare il più presto possibile a vere e proprie azioni di difesa che ancora sono solo allo stadio di studio.
Linee di ricerca per una difesa
Dobbiamo subito dire che l’ipotizzato uso di antibiotici è la peggiore soluzione possibile, prima di tutto perché potrebbe rendere il prodotto non commestibile ed in secondo ordine, ma non per importanza, si possono facilmente generare ceppi di batteri resistenti.
L’idea degli antibiotici è da scartare senz’altro anche perché vi può essere una soluzione molto più elegante e più rispettosa dell’ambiente che è l’uso di piccoli peptidi antimicrobici (PAMs) che potrebbero essere definiti come “peptidi di difesa dell’ospite” (HDP). Ricordiamoci sempre che nei mammiferi la difesa dell’organismo attaccato da qualcosa di estraneo è automatica, appunto per lo svilupparsi di meccanismi innati (macrofagi, granulociti neutrofili) o, successivamente di meccanismi adattativi (linfociti B, linfociti T) e tra l’altro si tratta di cellule mobili. Le piante, invece, sono sprovviste totalmente di questi meccanismi, ma ve ne sono altri come la barriera fisico-meccanica della parete pecto-cellulosica delle cellule vegetali, ma questa barriera viene meno quando vi sono ferite o operano batteri forniti di enzimi idrolitici. E’ attraverso questa via che i batteri si possono inserire nell’apoplasma cellulare (spazio intercellulare).
Ci sono poi gli stomi fogliari o gli idatodi (la parte terminale situata sui bordi fogliari del tessuto vascolare delle piante attraverso i quali avviene il fenomeno di guttazione). Ebbene date queste porte d’entrata ineliminabili la pianta ha messo in atto un meccanismo di riconoscimento delle strutture molecolari elementari onnipresenti alla superficie di tutti i microbi, questi, che potremmo definire “elicitori di reazione di difesa”, si associano ai recettori membranari e si genera una scambio di ioni che produce prodotti tossici per la membrana batterica ed anche dei polimeri che rinforzano la parete cellulare vegetale ed addirittura generano occlusioni di vasi che non fanno arrivare il nutrimento ai batteri limitandone l’espansione nella pianta.
Altra conseguenza è che gli ioni calcio che entrano in gioco favoriscono l’entrata in attività di geni che sono quelli che producono i peptidi antimicrobici PAM (sono piccole proteine da 12 a 50 amminoacidi).
Negli ultimi 20 anni i PAM isolati sono stati numerosi sia da invertebrati, che da insetti e piante. Il meccanismo di azione può essere paragonata ad una azione detergente tensioattiva sulle pareti cellulari batteriche di dissolvimento. Il vantaggio di questa azione antibatterica è che non produce l’insorgere del fenomeno della resistenza o se lo fa i casi sono molto rari. Le cellule umane con pareti ricche in fosfolipidi (colesterolo) hanno pochissime interazioni con questi peptidi antimicrobici. Nelle piante sono già stati individuati numerosi PAM nei tessuti di tutte le parti della pianta, come le tionine, difensivine, e proteine di trasferimento di lipidi.
Quasi tutte le specie batteriche, di funghi, di virus e protozoi sono in queste condizioni. Inoltre le concentrazioni di peptidi sono molto limitate per essere attive (1-5 µ/ml) e si presterebbero bene per curare gli ulivi pugliesi, molto meglio degli antibiotici che sono solo batteriostatici e non eradicanti come i PAM. Qualche peptide (PAM) è già usato in medicina umana e come conservante, come ad esempio la nisina identificata come E234 nella lista dei conservanti ammessi all’uso.
Come operare?
Occorre individuare un PAM ed il gene che lo codifica, trasferire il gene negli olivi e farlo operare su batteri che sono presenti nello xilema e attaccati a cellule morte dello stesso. Ma gli ulivi diverrebbero delle PGM, vale a dire autoproduttori di biopesticidi. Qui però entriamo in un campo minato!
Un’altra strada è l’individuazione di virus batteriofagi. Un esperimento è già in corso in California ed è uscito dal confinamento sperimentale. Una terza strada è il trattare gli ulivi con della N-acetilcisteina (NAC) (già usata in medicina per diluire il muco delle tossi catarrali) in modo che essa possa sciogliere il biofilm che produce il batterio. Un tentativo è già in atto in Brasile sugli agrumi clorosati e per far pervenire la sostanza nella pianta si usa l’irrigazione goccia a goccia. Altra strada è quella di interferire nel meccanismo cellulare che regola la sintesi dei DSF al fine di ridurre la capacità dei batteri dall’infettare lo xilema o a colonizzare il vettore.
Questa strada non modifica né la pianta e né il batterio. L’acronimo SDF sta ad indicare dei segnali, per la precisione dei segnali molecolari assimilabili a delle vere e proprio « parole chimiche » o « autoinduttori », capaci di controllare vari processi vitali del batterio. Il nome inglese è “quorum sensing” ed è stato dimostrato che molti di questi segnali sono implicati nel comportamento del vettore, evidentemente modificando i segnali si può arrivare a modificare a nostro uso e consumo anche la colonizzazione dell’insetto vettore o il diffondersi del batterio nello xilema. Si tratta anche di accoppiare le varie indicazioni antibatteriche qui accennate onde aumentare e sfruttare le varie azioni in sinergia.
Nota
Molte delle notizie qui riportate le potete trovare a questo link (http://www.agriculture-environnement.fr/dossiers/entretiens/article/quelles-pistes-pour-eradiquer-xylella-fastidiosa#.VbCr3mV3Euo.twitter)