Segavano i rami sui quali erano seduti. E si scambiavano a gran voce le loro esperienze, di come segare più in fretta. E precipitarono con uno schianto. E quelli che li videro, scossero la testa e continuarono a segare. (Bertold Brecht)
L’attuale modello economico è basato sull’ideale di crescita illimitata, e sempre più chiaramente dimostra la propria insostenibilità sia ecologica che sociale. L’uomo contemporaneo, condizionato dall’imperativo economico, ha dimenticato l’obiettivo del vivere bene, nel rispetto di sé, degli altri e dell’ambiente. I suoi comportamenti, troppo spesso irresponsabili e distruttivi, sono correlati alle tendenze culturali, economiche, scientifiche e filosofiche predominanti nell’età moderna e contemporanea. Da dove partire per ristabilire un equilibrio? Prendendo spunto dalle idee della “decrescita felice” e dai principi dello Zen, vedremo come sia in primo luogo auspicabile un lavoro personale per risvegliare la nostra umanità, ed essere ospiti degni (e felici) della vita, e del Pianeta.
Insostenibilità ecologica e sociale del modello economico attuale
Il sistema economico attuale si basa sulla crescita illimitata, che ormai da più parti viene ritenuta insostenibile sia a livello ecologico che a livello sociale. L’indicatore della crescita economica nel corso del tempo è il PIL (Prodotto Interno Lordo), che considera solo le attività che implicano una transazione monetaria. In base al PIL anno dopo anno i Paesi giudicano e confrontano fra loro i risultati delle proprie economie.
- Insostenibilità
ecologica.
Se la produzione di beni e servizi deve essere sempre crescente, allo stesso modo crescono sia la quantità di materia ed energia degradate in maniera irreversibile sia l’impatto sugli ecosistemi. La produzione, basata sullo sfruttamento di risorse finite non rinnovabili, non può crescere in maniera illimitata, essendo vincolata dai limiti fisici della biosfera. Riguardo a questo aspetto il PIL funziona in maniera paradossale; per esempio aumenta quando si inquina e poi si bonifica (poiché viene generata attività economica) ma non quando un comportamento rispettoso non produce danni all'ambiente. - Insostenibilità sociale.
Il PIL trascura tutte le attività che non hanno un riscontro monetario, come la produzione di beni e servizi all'interno delle famiglie, la cura dei malati, la custodia dei bambini. Se stiamo male il PIL cresce, ma solo se andiamo in ospedale o compriamo le medicine. Giocare con i propri figli non fa aumentare il PIL; pagare l'asilo invece sì.
La parola economia e la parola ecologia condividono la radice greca “oikos”, che significa casa. Tuttavia, come fa notare Vandana Shiva, oggi l'economia non solo è separata dai processi ecologici e dal benessere sociale e individuale, ma addirittura si oppone a essi. II modello economico dominante è “contro la vita”: più diventiamo ricchi e più diventiamo - in termini ecologici e culturali - poveri.
L’euristica del maiale
Produttività, competizione, crescita: come sottolinea Paolo Cacciari[3], l’imperativo economico condiziona pesantemente il modo in cui concepiamo noi stessi e la vita: identifichiamo sempre più spesso la crescita personale con l’accumulazione privata di beni; diciamo che “il tempo è denaro”; addirittura misuriamo il rendimento di uno studente con “crediti” e “debiti”.
In una società orientata e finalizzata al consumo, il possesso di denaro è fondamentale nel determinare la serenità, la socialità e l’agio complessivo della vita di ogni individuo. Inoltre l’aumento dei redditi e delle capacita tecnologiche, nonostante promettesse di aumentare il tempo e le risorse a nostra disposizione rendendoci più liberi, ci ha legato sempre più strettamente alle esigenze della produzione e dell’allargamento del mercato. Ciascuno è isolato nel suo interesse personale, in permanente competizione con i suoi simili. Il consumo si risolve in un’attività solitaria, in una compensazione per le deprivazioni sociali e umane subite. Viviamo immersi nell’insicurezza, nello stress, nelle ansie. Come ha scritto Bauman: “La società dei consumi si fonda sull’insoddisfazione permanente cioè sull’infelicità”. L’essere umano, nota Cacciari, sembra aver perso da tempo la capacità di condurre una vita armoniosa: ha perso il senso del limite, scatenato l’aggressività fino a colpire i propri simili, dimenticato la dimensione fisica e naturale del proprio corpo; ha smarrito l’obiettivo del vivere bene.
“Abbiamo messo in piedi un sistema che non riusciamo più a controllare e che ora ci domina, facendo di noi i suoi schiavi, le sue vittime” scrive Thich Nhat Hanh, monaco zen vietnamita, promotore di un movimento basato sulla pratica attiva della nonviolenza e sull’attenzione alle problematiche ambientali. “Fra noi, la maggioranza di coloro che vogliono possedere una casa, un’automobile, un frigorifero, un televisore e così via deve sacrificare in cambio il proprio tempo e la propria vita. Siamo perennemente incalzati dal tempo”. “Tranquillizzarci buttandoci sui consumi non serve a niente” continua il monaco. “L’avvelenamento del nostro ecosistema, l’esplosione di bombe, la violenza di quartiere e nella società, la pressione della fretta, del rumore e dell’inquinamento, la gran massa di persone sole – tutto ciò è stato generato dal ritmo della nostra crescita economica ed è fonte di malattia mentale”.
Molti hanno notato che le teorie economiche dominanti prendono come riferimento una personalità umana basata sull’avidità e sull’invidia, e ci hanno portato a identificare la quantità con la qualità, il più con il meglio; in altri termini, a ragionare secondo quella che Danilo Fum a lezione chiamava euristica del maiale.
“Il fine della civiltà moderna è il consumo cioè lo sterco” scrive Alberto Moravia. “La quantità dello sterco emesso dal consumatore è in effetti la prova migliore che il consumatore ha consumato”. La vera libertà di un individuo, sostiene Cacciari, non si esprime nelle preferenze di acquisto, ma nel riuscire a sottrarre risorse e tempo ai meccanismi del mercato “tenendole per sé”: per realizzare la propria personalità e dare un senso profondo alla fatica di vivere.
Crescita infelice e “decrescita felice”
La “decrescita felice” è quel filone teorico dell’economia ecologica che ha in Serge Latouche e in Maurizio Pallante due tra i primi e più convinti sostenitori. Dal momento che si propone come paradigma culturale alternativo ne metteremo qui in luce alcuni aspetti, senza pretesa di esaustività.
La differenza tra merce e bene è uno dei punti fondamentali: non tutti i beni sono merci e non tutte le merci sono beni. La frutta e la verdura coltivate in un orto familiare per autoconsumo sono beni, qualitativamente migliori delle corrispondenti merci che si possono acquistare al supermercato. Oltre a essere più sane e gustose, non sono state coltivate con prodotti di sintesi chimica, non hanno impoverito l’humus, non hanno contribuito a inquinare le acque. Dal momento che non passano attraverso una intermediazione mercantile fanno diminuire il PIL, perché chi produce da sè la frutta e la verdura non ha bisogno di andarle a comprare.
Le attività che producono beni generalmente non vengono conteggiate nelle statistiche del lavoro: sono considerate lavorative soltanto le attività svolte in cambio di denaro. Il concetto di lavoro è stato ridotto al concetto di occupazione e svincolato dal concetto di utilità. La maggior parte dei servizi alla persona che si possono prestare direttamente e gratuitamente nell’ambito dei rapporti familiari è qualitativamente superiore allo stesso tipo di servizi prestati in cambio di denaro. Tuttavia li affidiamo a “personale specializzato”, così da avere il tempo di produrre merci e ottenere in cambio il denaro per pagare chi ci fornisce questi servizi. Lo stesso accade a chi svolge questi servizi al nostro posto: dal momento che impiega il suo tempo a lavorare per noi, ricevendo quel denaro potrà pagare chi li presta in sua vece. Questa spirale accresce la produzione di merci e aumenta il PIL attraverso un peggioramento della vita di tutti i soggetti coinvolti. Nel paradigma culturale della decrescita l’indicatore della ricchezza non è il reddito monetario (la quantità delle merci che si possono acquistare), ma la disponibilità dei beni necessari a soddisfare i bisogni esistenziali. È povero chi non può mettere a tavola i pomodori di cui necessita, non chi non ha il denaro per comprarli.
Da qui il nome del movimento: “decrescita” indica soltanto una diminuzione della produzione di merci, il cui valore monetario è misurato dal PIL, non dei beni. La decrescita si realizza smettendo di acquistare merci che non sono beni e incrementando l’autoproduzione di beni. Una società fondata sulla decrescita ridimensiona la portata degli scambi mercantili estendendo quella dell’autoproduzione di beni e servizi e quella degli scambi fondati sul dono e la reciprocità. La dinamica del dono e del controdono (dono del tempo, delle capacità professionali, della disponibilità umana, dell’attenzione, della solidarietà) inoltre crea legami sociali.
Un altro valore fondante della decrescita è la sobrietà. A chi si limita a utilizzare con sobrietà quanto serve per vivere senza restrizioni né sprechi, rimane il tempo per rispondere a bisogni esistenziali più profondi, per vivere più intensamente e umanamente. La sobrietà non è solo uno stile di vita, ma anche una guida per orientare la ricerca scientifica e le innovazioni tecnologiche a ottenere di più con meno, distinguendo il più dal meglio, la quantità dalla qualità. Tutte le innovazioni tecnologiche che riducono l’impronta ecologica, consentendo al contempo la rigenerazione delle risorse, comportano una decrescita economica che contribuisce a migliorare la qualità degli ambienti e la vita degli esseri umani. Una “decrescita felice”.
Ecologia profonda, scienza e tecnologia
Nel libro Il punto di svolta, scritto nel 1982 ma ancora attuale, Fritjof Capra sostiene che bisogna maturare una maggiore consapevolezza eco-filosofica per correggere radicalmente i comportamenti umani, troppo spesso irresponsabili e distruttivi.
Secondo l’autore questi comportamenti sono intimamente correlati alle tendenze culturali, economiche, scientifiche e filosofiche predominanti nell’età moderna e contemporanea: ogni visione del mondo è associata a un conseguente atteggiamento nei riguardi della natura. “Il mutamento drastico nell’immagine della natura da organismo a macchina ebbe un forte effetto sugli atteggiamenti della gente nei confronti dell’ambiente naturale. La concezione organica del mondo propria del Medioevo aveva implicato un sistema di valori sfociante in un comportamento ecologico”. Un ambiente culturale che considera la Terra come un organismo vivo e sensibile contiene entro certi confini le azioni degli esseri umani, poiché compiere atti distruttivi contro di essa costituisce una violazione etica. Per contrasto secondo Capra l’epoca moderna è dominata dall’influenza del paradigma meccanicistico e dai suoi risvolti antiecologici. La visione cartesiana dell’universo come sistema meccanico ha fornito una sanzione scientifica alla manipolazione e allo sfruttamento della natura, e ha esercitato una forte influenza su tutte le nostre scienze e sul modo di pensare occidentale in generale. “Il metodo della riduzione di fenomeni complessi a elementi basilari e della ricerca dei meccanismi con cui questi elementi interagiscono, è ormai così profondamente ingranato nella nostra cultura che è stato spesso identificato col metodo scientifico (…). In conseguenza di questo accento dominante posto sulla scienza riduzionistica, la nostra cultura è andata progressivamente frammentandosi e ha sviluppato tecnologie, istituzioni e stili di vita che sono profondamente malsani”.
Affascinati dai miracoli della tecnologia ci siamo convinti che essa possa offrire la soluzione per ogni problema. “Si fa fronte a un consumo eccessivo di energia sviluppando centrali nucleari, (...) e si rimedia all’avvelenamento dell’ambiente naturale sviluppando tecnologie speciali che, a loro volta, incidono sull’ambiente in modi che sono ancora ignoti. Ricercando soluzioni tecnologiche a tutti i problemi non facciamo altro che spostarli un po’ più in là nell’ecosistema globale, e spesso gli effetti collaterali della soluzione sono più dannosi del problema originario”.
Stiamo raggiungendo i limiti sociali, psicologici e concettuali della crescita prima ancora di averne raggiunto i limiti fisici. Abbiamo una tecnologia “incline alla manipolazione e al controllo anziché alla cooperazione, autoassertiva anziché integrativa, e adatta a un’organizzazione centralizzata più che a un’applicazione regionale per opera di individui e di piccoli gruppi. Di conseguenza questa tecnologia è diventata profondamente antiecologica, antisociale, malsana e disumana”. Benchè queste tecnologie implichino spesso le scoperte scientifiche più recenti, il contesto in cui vengono sviluppate e applicate è quello della concezione cartesiana della realtà. È allora necessario ridefinire la natura della tecnologia, mutando la sua direzione e rivalutando il sistema di valori che è alla sua base. Le nuove forme di tecnologia devono essere piccole, decentrate e sensibili a condizioni locali, così da accrescere l’autosufficienza e fornire la massima flessibilità; il loro impatto sull’ambiente deve essere molto ridotto grazie all’uso di risorse rinnovabili e al riciclaggio costante di materiali. Anziché fondarsi sui princìpi e sui valori della scienza cartesiana, esse incorporano i princìpi osservati in ecosistemi naturali e riflettono quindi una saggezza sistemica. Adottare un pensiero sistemico significa cominciare a pensare in termini di connessioni e contesto, considerare la rete complessa delle varie relazioni e non solo le singole unità costitutive.
Un’ecologia superficiale, in cui gli esseri umani sono posti al di sopra e al di fuori della natura e dove la natura ha un valore strumentale, non può nulla per risolvere la crisi attuale. Serve una prospettiva in cui gli esseri umani si considerano come parte integrante della natura, come nient’altro che un filo speciale nel tessuto della vita; serve un’ecologia profonda. “L’ecologia profonda” sostiene Capra “è sostenuta dalla scienza moderna e in particolare dal nuovo approccio sistemico, ma è radicata in una percezione della realtà che va al di là della cornice scientifica per attingere a una consapevolezza intuitiva dell’unità di ogni forma di vita, dell’interdipendenza delle sue molteplici manifestazioni”.
Prendersi cura dell’ambientalista per prendersi cura dell’ambiente
Scrive Thich Nhat Hanh: “Si sta distruggendo l’armonia e l’equilibrio a livello individuale, sociale e naturale; le persone sono malate, la società è malata, la natura è malata. Dobbiamo assolutamente ristabilire l’armonia e l’equilibrio. In che modo? Da dove far partire l’opera di guarigione, dall’individuo, dalla società o dall’ambiente? (…) Entrambi gli sforzi, quello per cambiare noi stessi e quello per cambiare l’ambiente, sono necessari, ma un cambiamento non può compiersi senza l’altro. (…) La nostra salute mentale richiede che si dia priorità allo sforzo di recuperare l’umanità personale. Recuperare una buona salute mentale non significa semplicemente adattarsi al mondo moderno in rapida crescita economica: il mondo è malato, adattarsi a un ambiente malato non può portare alla vera salute”.
Un lavoro personale per recuperare la propria umanità come presupposto di qualsiasi cambiamento, dunque; bisogna, nelle parole del monaco Zen, “prendersi cura dell’ambientalista per prendersi cura dell’ambiente”. Un’impresa non da poco quella di ripulire l’idea di felicità dal fardello consumistico che l’ha avvolta e soffocata, che richiede impegno e pazienza. Nel compierla ciascuno seguirà un proprio percorso; ci sono però almeno tre obiettivi (parzialmente sovrapposti) che meritano di essere considerati.
- Essere consapevoli dell’interconnessione fra noi e l’ambiente. Per spiegare questo punto Thich Nhat Hanh ricorre a una storia: “La città con un albero solo”. Immagina, scrive il monaco, una città in cui sia rimasto un albero solo. I suoi abitanti soffrono di malattie mentali per l’alienazione che hanno sviluppato rispetto alla natura. Un medico del posto comprende la ragione per cui si stanno ammalando tutti, e prescrive la seguente cura a ognuno dei suoi pazienti: ogni mattina dovrà prendere l’autobus, raggiungere l’unico albero rimasto nel centro della città e abbracciarlo per un quarto d’ora. “Guardi quel bell’albero verde, ne annusi la corteccia profumata”, dice a ciascuno di loro.
Tre mesi di questa pratica e i pazienti si sentono molto meglio. Però sono in tanti a soffrire della stessa malattia, e il dottore prescrive a tutti lo stesso rimedio; in poco tempo la coda di persone che aspettano il proprio turno per abbracciare l’albero si allunga sempre più, e la gente comincia a perdere la pazienza. Interviene il Consiglio Comunale, che stabilisce un tetto massimo di cinque minuti a testa. In seguito lo dovrà abbassare a un minuto solo; poi a pochi secondi.
Alla fine non c’è rimedio per quella malattia di cui tutti soffrono.
“Se non siamo consapevoli” chiosa Thich Nhat Hanh “presto potremmo ritrovarci nella stessa situazione. È bene ricordarci che il nostro corpo non si limita a ciò che è racchiuso entro i confini della nostra pelle ma è ben più grande, è immenso. Noi sappiamo che se il cuore smette di battere il flusso della vita si arresta, ma non ci diamo il tempo di notare i tanti fattori esterni al nostro corpo che sono altrettanto essenziali alla nostra sopravvivenza. (…) Anche il sole alto nel cielo è il mio cuore. Se il mio cuore cedesse, morirei all’istante; ma morirei subito anche se l’altro mio cuore esplodesse o smettesse di irradiare la sua luce. (…) Siamo prigionieri della nostra identità ristretta, pensiamo solo a fornirle questa o quella comodità e intanto distruggiamo il nostro sé più vasto”.
- Essere consapevoli dell’interconnessione fra noi e gli altri. In genere ci lamentiamo di quanto il cattivo umore o il nervosismo altrui ci influenzi in maniera negativa. Se questa interconnessione tra noi e gli altri esiste, allora troppo raramente ci rendiamo conto del fatto che se chi ci è attorno sta bene stiamo meglio anche noi, e viceversa. Esserne consapevoli porta a dare più spazio alla compassione - intesa nel buddismo con l’accezione di “provare sentimenti insieme” (cum patior), senza la sfumatura di superiorità e di pietismo che denota l’uso corrente in italiano - che alla competizione.
- Assumersi la responsabilità dei propri stati d’animo ancor prima che delle proprie azioni. Agire in maniera responsabile equivale nel nostro caso a riconoscere e accettare i limiti di sfruttamento degli ecosistemi; a curare, mantenere e amministrare con saggezza il patrimonio naturale. L’homo sapiens sapiens in questo senso si sta comportando in modo del tutto irresponsabile. “In tutto il globo” ci ricorda Thich Nhat Hanh “si verificano inondazioni, siccità, incendi estesi; nell’Artide si stanno sciogliendo i ghiacci marini; uragani e ondate di calore uccidono migliaia di persone. Le foreste vanno scomparendo rapidamente, aumentano le zone desertiche, ogni giorno si estinguono alcune specie viventi – eppure noi continuiamo a consumare risorse (…). Il nostro modo di stare al mondo influenza fortemente il mondo animale e vegetale, eppure ci comportiamo come se la nostra vita quotidiana non avesse niente a che vedere con le condizioni del mondo”.
L’abitudine a scaricare le proprie responsabilità su qualcun altro o su eventi esterni incontrollabili è ben radicata nell’essere umano. Normalmente non ci assumiamo nemmeno la responsabilità dei nostri stati d’animo. Quando diciamo “mi hai fatto arrabbiare” o “mi hai reso felice” usiamo una struttura semantica causale, che riflette una precisa teoria implicita dei rapporti interpersonali: sono gli altri la causa del mio stato d’animo, del quale io non sono responsabile e sul quale non ho alcun potere. Il paradosso insito in questa concezione, che Zuczkowski chiama “causalità affettiva”, è che “io sarei il responsabile dei sentimenti altrui ma non dei miei; gli altri sarebbero le cause e i responsabili dei sentimenti altrui ma non dei loro. Ognuno di noi sarebbe così in balìa (affettiva) degli altri, potrebbe avere potere sui sentimenti altrui ma non sui propri”. Assumere su di sé la responsabilità dei propri stati d’animo è un presupposto importante per sentirsi responsabili delle proprie azioni: impedisce di ricorrere a scuse basate su una particolare (e incontrollabile) condizione psicologica che ha “causato” un’azione impropria, irrispettosa o irresponsabile.
Essere ospiti degni (e felici) della vita, e del Pianeta
Per scardinare l’irragionevolezza dell’attuale modello economico, sostiene Cacciari, non basta usare argomenti logici e razionali; è necessario recuperare parametri di valutazione etici. “In fondo al cervello di ognuno di noi, per quanto allettato e alterato dal consumismo, persiste un’idea etica con cui riusciamo a valutare le azioni nostre e degli altri. Mi riferisco all’imperativo categorico kantiano, che è dentro ciascuno di noi, o – a libera scelta – alle mille altre forme di illuminazione dell’anima o di presa di coscienza, che ci giungono ancora quasi intatte dalle tradizioni culturali, storiche e religiose in ogni parte del mondo”.
“Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio”, scrive Paolo di Tarso ai romani.
O, con Thich Nhat Hanh: “Essere vivi è allo stesso tempo una benedizione e un onore di cui essere degni”.