Nuova allerta delle Nazioni Unite su effetto serra e global warming, questa volta contenuto in una bozza di 127 pagine che sintetizza l'ultimo rapporto del pannello intergovernativo dell'Onu (Ipcc) che a ottobre verrà presentato alla Conferenza sul Clima di Copenaghen.
Ancora una volta al centro del mirino le alte concentrazioni di gas serra – CO2, CH4 e N2O, ma anche i più pericolosi alocarburi – prodotti dall'antropizzazione del pianeta Terra e che il Protocollo di Kyoto ha più volte intimato di abbassare dell'8% rispetto al 1990. Perchè se i gas serra, esclusi gli alocarburi, sono prodotti dalla stessa natura, l'eccessiva presenza di questi gas in atmosfera, dovuta all'azione umana, porta con sé un lento ma progressivo riscaldamento globale. E un'impronta tutt'altro che secondaria è quella del settore agricolo e alimentare.
Se andiamo a indagare questo campo scopriamo che nonostante i moniti di Kyoto, il settore continua a produrre enormi quantità di CO2 equivalente, e in molti paesi come la Cina e l'India, quantità assai più elevate rispetto al 1990.
Esaminando i dati Faostat sui Big 10, cioè gli stati più popolosi del mondo scopriamo che solo in Argentina e Francia il settore agricolo emette oggi meno quantità di CO2 equivalente rispetto al 1990, mentre se consideriamo gli stati europei le cose paiono andare molto meglio.
Nel caso della Russia invece, oggi il terzo paese più popolato al mondo, il confronto con il 1990 è più complesso e meno veritiero, alla luce dei mutamenti geopolitici dovuti alla caduta della cortina di ferro.
Il settore agricolo e alimentare produce sostanzialmente tre tipi di gas serra: biossido di carbonio (CO2), ossido di diazoto (N2O) e metano (CH4), e la loro quantità rilasciata in atmosfera viene misurata tramite il concetto di CO2 equivalente, cioè alla quantità di CO2 a cui corrispondono. L'anidride carbonica equivale infatti a 1 CO2 equivalente, il metano a 21 CO2 equivalenti, l'ossido di diazoto a 310 CO2 equivalenti. In altre parole, ciò significa che il metano ha un potenziale di riscaldamento 21 volte superiore rispetto alla CO2 e cioè che una tonnellata di metano equivale a 21 tonnellate di CO2 equivalente. La stessa cosa vale per il N2O: una tonnellata di protossido di azoto equivale a 310 tonnellate di CO2 equivalente.
Detto questo, quello che emerge dai dati FAO è che le fonti di emissione di gas serra in agricoltura sono molte, ma non tutte pesano allo stesso modo sul pianeta. Il biossido di azoto per esempio è prodotto principalmente dalle pratiche di fertilizzazione, mentre il metano viene generato dalla cosiddetta fermentazione enterica, cioè dalla digestione dei ruminanti, nelle risaie e dalle attività di fermentazione delle sostanze organiche. Per non parlare dei fertilizzanti sintetici, del letame e dei residui colturali che vengono bruciati.
In una prospettiva globale quello che colpisce dai dati FAO sono anzitutto i dati relativi ai 10 maggiori produttori di gas serra al mondo. Dopo Cina, India, Brasile e Stati Uniti, la cui presenza pare scontata se consideriamo le grandi dimensioni di questi paesi, troviamo Pakistan e Sudan rispettivamente all'ottava e alla nona posizione. E più in generale se osserviamo la mappa delle emissioni di CO2 equivalenti totali emessi nel 2011 ci accorgiamo che per esempio nel continente africano questa distribuzione è tutt'altro che disomogenea tra paesi cosiddetti industrializzati e non.
Solo con la coltivazione del riso le emissioni di CO2 equivalente della Cina nel 2011 hanno equiparato quelle agricole totali dell'intera Russia. E sempre se consideriamo la sola produzione di riso, Cina, India, Thailandia e Indonesia messmesse insieme nel 2011 hanno prodotto la stessa quantità di CO2 equivalente complessiva di tutti gli Stati Uniti. Un impatto globale quello del riso, decisamente da non sottovalutare, specie alla luce dei prossimi appuntamenti in materia di alimentazione, come Expo 2015 il cui slogan è appunto “nutrire il pianeta”.
Come si diceva, un ruolo di primo piano nelle emissioni di CO2 equivalente lo giocano anche gli animali, cioè l'allevamento, impatto che si misura facilmente attraverso i gigagrammi – dove un gigagrammo equivale a un milione di chili – di CO2 equivalente emessi dalla fermentazione enterica, cioè dalla digestione degli animali, oltre che dalle emissioni derivanti dalle loro feci.
Qui è l'India a dominare la scena con più di 300mila gigagrammi di CO2 equivalente derivanti da fermentazione enterica, cioè quasi quanto emettono globalmente gli Stati Uniti o l'intera Unione Europea. Segue la Cina con 200 mila gigagrammi.
In altre parole in questi paesi vengono emessi più CO2 dalla digestione animale rispetto alle emissioni totali, quindi comprese il riso, i fertilizzanti sintetici e quant'altro, dell'intera Unione Europea.
Quanto al nostro Paese, secondo i dati UNFCCC delle Nazioni Unite, rispetto al 1990 nel 2011 le emissioni totali di gas serra in Italia sono diminuite del 9,1%. E secondo dai faostat, nel settore agricolo le cose andrebbero ancora meglio: le emissioni sarebbero passate da 39 mila gigagrammi di CO2 equivalente del 1990 a a 30 mila gigagrammi del 2011, un quarto in meno.
I dati ci raccontano anche che la fetta più grande delle emissioni italiane è data dalla fermentazione enterica, 45% del totale, seguita dalla gestione dei concimi e fertilizzanti sintetici.
In ogni modo la situazione, come rilevano OMS e Nazioni unite, è complessa. La popolazione mondiale sta crescendo e con essa la domanda di cibo, ragione per cui l'idea di produrre semplicemente meno pare difficilmente percorribile.
Forse vale la pena partire anche da questi dati per discutere come “nutrire il pianeta” da qui al 2050, in modo che, oltre che nutriti, i futuri abitanti del pianeta Terra siano anche in salute e in sicurezza rispetto agli effetti del riscaldamento globale sui cambiamenti climatici in atto.