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Aziende agricole o agro-energetiche? Luci e ombre del biogas

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I meccanismi di incentivazione e disincentivazione sono leve con cui la politica orienta le scelte dei soggetti economici, e dei cittadini, per il raggiungimento di obiettivi di medio e lungo periodo.
Negli ultimi anni la produzione di energia da fonti rinnovabili è stata certamente il caso di governance più emblematico del nostro paese, anche se non sempre ha prodotto vantaggi sostenibili e equamente distribuiti.
Via via che si sono modulati e rimodulati gli incentivi, con variazioni su scala regionale, si sono avute incidenze maggiori di impianti eolici o fotovoltaici – spesso di grandi estensioni, con impatti sul paesaggio e significativa occupazione di suolo oppure medio-piccoli, installati sulle coperture delle abitazioni, negli insediamenti industriali e sugli edifici pubblici.
Tra le fonti rinnovabili per la produzione di energia la legislazione comunitaria include anche le biomasse che definisce come "la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall'agricoltura, dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l'acquacoltura, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani".
In Italia esistono circa 1300 impianti di produzione di biogas in ambito agricolo. Nel solo 2013 il valore aggiunto ammonta a 347,5 milioni di euro con 2695 occupati diretti. Con una crescita del numero degli impianti del 490% e un aumento del 267,4% dell’energia prodotta negli ultimi 5 anni, nel 2013 abbiamo ottenuto con il biogas 7,5 mila GWh, circa il 10% del totale dell’energia prodotta dalle FER (Fonti di Energia Rinnovabile). Il quadro è emerso nel corso dell’evento Biogas Master, organizzato il 29 settembre scorso dal CIB, Consorzio Italiano Biogas, al Museo della Scienza di Milano.
Se in generale si può dire che gli incentivi abbiano funzionato rispetto all’aumentata capacità di produzione di energia, è interessante riflettere sulla misura, i meccanismi e le condizioni con cui gli incentivi hanno condizionato il comportamento dei soggetti coinvolti. Casi in cui la produzione agricola è diventata funzionale a quella energetica, aumentando la dipendenza dal mercato dell’azienda agricola, si contrappongono a esempi virtuosi in cui la produzione di energia ha consentito la chiusura del ciclo dei rifiuti agricoli – comprese le deiezioni animali – riducendo il loro impatto ambientale e provvedendo al contempo al soddisfacimento del fabbisogno energetico dell’azienda.

L’evoluzione del settore – dalle poche decine di impianti degli anni ’90 ai 398 del 2011 – è stata oggetto di una ricerca qualitativa, con interviste in profondità a testimoni qualificati: agricoltori, progettisti, agronomi, tecnici della produzione. Energy production from biogas in the Italian countryside: Policies and organizational models, è l’articolo pubblicato da Giovanni Carrosio – sociologo dell’ambiente, docente universitario a Trieste e Venezia e membro del Gruppo Progettisti della Strategia Nazionale Aree Interne, del Dipartimento Politiche di Coesione e Sviluppo del Ministero dello Sviluppo Economico.

La produzione di energia da biogas agricolo in Italia e la modulazione degli incentivi

Il sistema di produzione di energia è formato da un digestore, dentro il quale fermentano materie organiche come le deiezioni animali e vari tipi di colture energetiche (mais, triticale, miscanto), e un im­pianto di cogenerazione che produce energia termica ed elettrica grazie alla combustione del biogas prodotto durante il processo di dige­stione anaerobica. Dal 2008 al 2013 (quando è stato introdotto un nuovo sistema incentivante) se l’impianto a biogas era di taglia inferiore a 1000 kWe rientrava nel regime della tariffa omnicomprensiva di 28 centesimi e non necessitava di essere sottoposto a VIA (Valutazione di Impatto Ambientale).
Oltre all’aumento degli impianti installati, questa combinazione di incentivi ha rappresentato una svolta nella loro tipologia e diffusione sul territorio nazionale. Le province a più alta concentrazione sono state quelle di Cremona e Brescia, caratterizzate da numerosi allevamenti di suini e vacche da latte e con un’alta concentrazione dei capi allevati rispetto alla superficie agricola utilizzata. Vi sono poi province come quella di Rovigo, Pavia e Cuneo nelle quali vi è una preponderanza di grandi estensioni monocolturali di mais.

Il mercato del biogas agricolo e la riorganizzazione delle aziende

La ricerca evidenzia come le aziende agricole si siano adattate al mercato del biogas, non competitivo ma costruito dalle politiche d’incentivazione, confluendo verso i modelli organizzativi più performanti rispetto agli incentivi. Nel periodo considerato dalla ricerca, gli impianti di potenza tra i 500 e i 1000 kWe, – di cui il 90% con potenza di 999 kWe – sono diventati dominanti passando dal 29% del 2004 al 35% nel 2007, al 50% del 2010 con una stima del 55% per il 2011. Questi tipi di impianti utilizzano un mix di input, indicativamente il 20% di reflui zootecnici e l’80% di colture energetiche.
E’ del tutto evidente che la quasi totalità delle aziende ha scelto l’impianto che garantisce un rendimento certo (28 centesimi/kWe prodotto), anche se probabilmente sovradimensionato rispetto alla propria capacità produttiva per la sua alimentazione. Poiché il ritorno dell’investimento è relativamente rapido a patto che il prezzo delle materie prime resti costante nel tempo, diverse aziende zootecniche hanno sostituito le produzioni agricole per l’alimentazione degli animali con quelle per la produzione di energia.
Acquistando i mangimi sul mercato le aziende hanno dunque scelto di rischiare sulla sostenibilità  economica degli allevamenti - con il prezzo dei mangimi fuori dal loro controllo – salvaguardando quella della produzione di energia – la cui materia è prodotta internamente. In buona sostanza, si può affermare che queste aziende hanno modificato il loro “core business” diventando imprese agro-energetiche.

Modernizzazione agricola vs ricontadinizzazione

In base alla tipologia di impianto acquistato e alla sua gestione all’interno delle aziende agricole, la ricerca riconduce i cambiamenti organizzativi con cui le aziende cercano di far fronte alla crisi del settore agricolo a due paradigmi di sviluppo: la modernizzazione e la ricontadinizzazione.
La “modernizzazione” (modello imprenditoriale) che porta a un ampliamento della dimensione aziendale e a una maggiore industrializzazione del processo; all’esternalizzazione di diverse attività (gestione e manutenzione dell’impianto, produzione di colture per l’alimentazione degli animali) e alla riduzione del margine di profitto per “oggetto di lavoro”. La tecnologia adottata – ci dice Giovanni Carrosio – ha infatti una forza normativa nei confronti dell’azienda agricola, che tende ad adattare il proprio funzionamento alle esigenze dell’impianto”.
Il paradigma della “ricontadinizzazione”, al contrario, tende a mantenere l’azienda all’interno di un circuito non commerciale. “Alla riduzione dei margini di profitto, l’azienda non risponde con un ampliamento, ma lavora metodicamente per ridurre i costi” e “il biogas diventa un modo per raggiungere l’autonomia energetica dell’azienda aumentando significativamente il margine di profitto per “oggetto di lavoro”.  Perché ciò si possa verificare, occorre che l’impianto sia proporzionato alla disponibilità aziendale di reflui zootecnici e adattato alle caratteristiche produttive dell’azienda agricola. Che significa che l’impianto deve essere “personalizzato” e difficilmente alimentato da colture energetiche. L’azienda non specula sugli incentivi per la produzione di energia ma persegue “la costruzione di un sistema produttivo stabile”.  

Lo stile aziendale: gli incentivi rafforzano le pratiche di modernizzazione agricola

Dalle interviste in profondità emerge che le “traiettorie di sviluppo” sono scelte in base allo “stile aziendale”, ovvero “una serie di pratiche agricole, frutto dell’interazione tra l’orientamento culturale dell’agricoltore, le pressioni del mercato e le tendenze delle politiche agricole”.  E tuttavia in Italia le politiche d’incentivazione hanno rafforzato le pratiche di “modernizzazione” agricola a causa di tre “tipi di pressione”:

- normativa: oltre che dal sistema di incentivazione di cui si è detto, gli agricoltori sono stati incoraggiati ad adottare gli impianti di biogas per far fronte alla Direttiva nitrati dell’Unione Europea;

- mimetica: progettisti e costruttori hanno pubblicizzato le loro realizzazioni, trasformandole in best practices che sono state presentate agli agricoltori nel corso di vere e proprie visite guidate presso aziende testimonial.

- coercitiva: l’ottenimento dei finanziamenti bancari è stato spesso subordinato alla sostenibilità economica dell’impianto, portando alla ricostruzione dei “cicli produttivi aziendali in base alle esigenze degli impianti”, realizzati con il  “monopolio della conoscenza e della tecnologia” , appannaggio dei consulenti e “soprattutto di alcune industrie tedesche che vengono considerate in modo unanime le avanguardie del settore e pertanto le più  affidabili”

Produzione vs efficienza  energetica, autonomia vs integrazione nel mercato

Nelle sue conclusioni, la ricerca mette in luce potenziali “conseguenze anche contraddittorie” derivanti dal sistema d’incentivazione delle rinnovabili. Notoriamente sbilanciati sul lato della produzione rispetto a quello dell’efficienza, si è visto che gli incentivi possono orientare l’attività agricola “più alla crescita della produzione e all’integrazione nel mercato che al risparmio energetico e all’autonomia dei sistemi produttivi”. L’ulteriore crescita dei rapporti di dipendenza dal mercato” implica il rischio dell’eventuale ma anche sensibile oscillazione dei prezzi nel reperimento di mangimi.
Paradossalmente, privilegiando le economie di scala rispetto all’efficienza dei processi produttivi si determinano impatti ambientali anche importanti a fronte di un iniziale intenzione di processo virtuoso nella chiusura del ciclo dei rifiuti. “Sono diversi i casi in cui gli imprenditori agricoli decidono di aumentare il numero di capi allevati per produrre ulteriori deiezioni destinate ai digestori e per incrementare il giro d’affari dell’azienda – afferma Carrosio – che auspica che la riorganizzazione degli incentivi promuova “l’integrazione socio-territoriale, incentivando l’utilizzo del calore e premiando l’utilizzo di sottoprodotti dell’agricoltura, in modo da integrare le filiere locali e disinnescare la competizione per la terra”.  Si tratterebbe di diversificare gli impianti, favorendo una loro progettazione personalizzata, funzionale alle esigenze e agli scopi di un’azienda agricola: la produzione agricola sostenibile di alimenti per il fabbisogno umano. Sebbene si sia provveduto alla rimodulazione degli incentivi, la filosofia dominante sembra essere un’altra.


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