fbpx Test prenatali: cosa può svelare il sangue di mamma? | Scienza in rete

Test prenatali: cosa può svelare il sangue di mamma?

Primary tabs

Tempo di lettura: 4 mins

Ogni mamma lo sa: un figlio lo senti dentro al cuore, ti entra proprio nel sangue. Ecco: da quando lo hanno scoperto pure gli scienziati, nulla è stato più come prima. Nel 1997 uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista The Lancet dimostrava per la prima volta la presenza di DNA fetale nel sangue materno: la ricerca, firmata da Yuk-Ming Dennis Lo dell'Università cinese di Hong Kong, svelava che circa il 13% del DNA libero circolante nelle vene di mamma è, in pratica, un “dono” del nascituro.
Quel piccolo e innocuo pacco regalo, però, può essere aperto: basta metterlo sopra un vetrino da laboratorio per scoprire preziose informazioni sulla salute del bambino. Lo hanno capito subito i ricercatori, che si sono lanciati in una lunga corsa ad ostacoli per mettere a punto nuovi test genetici prenatali il più possibile precisi ed affidabili: era troppo attraente la possibilità di scalzare la vecchia amniocentesi con una nuova generazione di esami non invasivi, rapidi e sicuri.
La svolta è arrivata il 17 ottobre del 2011 con l'arrivo sul mercato statunitense di MaterniT21, il primo test genetico su sangue materno per la sindrome di Down, prodotto dalla Sequenom di San Diego, in California. Pochi giorni dopo, in un editoriale su Nature, Erika Check Haden si interrogava già sul forte dibattito etico che questi test avrebbero sollevato. Ma forse non aveva ancora fiutato il branco di affaristi in cerca di facili guadagni che si stava avvicinando.

Mentre sulle riviste scientifiche internazionali continuavano a fioccare nuovi studi molto promettenti (come quello dell'Università di Standford, che nel 2012 pubblicava su Nature la prima mappa del DNA di feto interamente ottenuta da un campione di sangue materno), i nuovi test prenatali hanno cominciato a farsi strada anche sul mercato europeo. Sequenom, Ariosa, Verinata e Natera sono i nomi delle società produttrici dei test di maggiore successo. Lo “tsunami” ovviamente non ha risparmiato l'Italia, dove l'ansia delle mamme è proverbiale.
Rivolgendosi a laboratori e studi medici privati, bastano (si fa per dire) poco più di 700 euro per poter leggere il futuro del proprio bimbo nella palla di cristallo della genetica. Il passaparola, amplificato anche dai forum online dedicati alla gravidanza, ha fatto sì che sempre più gestanti facessero richiesta di questi nuovi esami non invasivi nella speranza di dribblare l'amniocentesi e la villocentesi. Un desiderio, questo, che viene confermato anche dai dati dell'ultimo censimento della Società Italiana di Genetica Umana (SIGU), curato dall'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. I numeri, relativi al 2011, riportano un calo del 5% delle indagini cromosomiche prenatali (passate da 136.000 a 129.000 nel giro di quattro anni) e dei test su liquido amniotico (calati da 102.000 a 97.000), mentre gli altri test invasivi come le indagini su villi coriali (26.000) e su sangue cordonale (383) frenano per la prima volta dopo anni di continua ascesa. Questo trend negativo, secondo il direttore scientifico del Bambino Gesù Bruno Dallapiccola, è da attribuire all'affermazione del cosiddetto test combinato, che comprende il dosaggio di due ormoni del sangue materno e la misurazione ecografica della translucenza nucale: in futuro, secondo il genetista, il calo potrebbe essere ancora più accentuato dal diffondersi del test del DNA fetale nel sangue materno.

Le aziende produttrici lo sanno bene e per questo, con le loro strategie di marketing, si muovono sempre lungo la linea del fuorigioco. “Esame non invasivo”, “privo di rischi”, “affidabilità” sono i termini più evidenti nelle pubblicità, dove invece passa in secondo piano il fatto che il test non è adatto a tutte e, soprattutto, non porta a nessuna diagnosi. Ma andiamo con ordine. I test prenatali da sangue materno non possono essere usati in maniera indiscriminata da qualsiasi gestante: la loro affidabilità è elevata solo nelle donne considerate ad alto rischio, come ricordano gli esperti della SIGU. Anche in questi casi, comunque, il risultato positivo non deve essere letto come una condanna senza appello. Il test valuta esclusivamente il rischio di anomalie genetiche e per avere una diagnosi certa bisogna comunque ricorrere agli esami più invasivi come l'amniocentesi.

Bisogna poi cancellare l'idea del test genetico “fai-da-te”. Anche se l'esame può apparire così facile e immediato, necessita in realtà della consulenza di un esperto come tutti i test genetici. “Conoscere l'intero genoma di una persona, di per sé, non ci dà delle risposte”, spiega Elia Stupka, capo dell'Unità Funzione del Genoma dell'IRCCS San Raffaele di Milano. Difficile non credergli, visto che a soli 22 anni è stato selezionato per partecipare al grande progetto di ricerca internazionale Genoma Umano che ha letto l'intero DNA dell'uomo. “La tecnologia sta facendo passi da gigante e sta rendendo il sequenziamento sempre più facile, rapido e meno costoso. Un domani potremo avere anche l'intera mappa del nostro DNA sullo smartphone che teniamo in tasca – aggiunge – ma questa mole di informazioni non ci servirà a nulla senza una corretta interpretazione, che ad oggi rimane comunque difficile e complicata da numerose variabili tutte da studiare. Per questo, dopo l'era del genoma, stiamo entrando in quella dell'interpretoma”.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

La COP29 delude. Ma quanti soldi servono per fermare il cambiamento climatico?

Il presidente della COP 29 di Baku, Mukhtar Babayev, chiude i lavori con applausi più di sollievo che di entusiasmo. Per fortuna è finita. Il tradizionale tour de force che come d'abitudine è terminato in ritardo, disegna un compromesso che scontenta molti. Promette 300 miliardi di dollari all'anno per aiutare i paesi in via di sviluppo ad affrontare la transizione, rimandando al 2035 la "promessa" di 1.300 miliardi annui richiesti. Passi avanti si sono fatti sull'articolo 6 dell'Accordo di Parigi, che regola il mercato del carbonio, e sul tema della trasparenza. Quella di Baku si conferma come la COP della finanza. Che ha comunque un ruolo importante da giocare, come spiega un report di cui parla questo articolo.

La COP 29 di Baku si è chiusa un giorno in ritardo con un testo variamente criticato, soprattutto dai paesi in via di sviluppo che hanno poca responsabilità ma molti danni derivanti dai cambiamenti climatici in corso. I 300 miliardi di dollari all'anno invece dei 1.300 miliardi considerati necessari per affrontare la transizione sono stati commentati così da Tina Stege, inviata delle Isole Marshall per il clima: “Ce ne andiamo con una piccola parte dei finanziamenti di cui i paesi vulnerabili al clima hanno urgentemente bisogno. Non è neanche lontanamente sufficiente.