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"L’Ape e l’Architetto", un ricordo di Marcello Cini

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Per quanto possa sembrare strano, immaginandolo dall’Italia di oggi, c’è stato un tempo in cui la pubblicazione di un libro poteva avere la capacità di catalizzare il dibattito intellettuale per settimane, anche al di fuori delle mura degli ambienti accademici. L’esercizio di immaginazione si fa poi quasi intollerabile all’idea che, almeno una volta, trentacinque anni fa, il libro che per un determinato periodo polarizzò le discussioni su giornali e riviste sia stato una raccolta di saggi a tema scientifico: un’opera apertamente tecnica, sul rapporto tra scienza e società.

L’Ape e l’Architetto esce nel 1976, per i tipi di Feltrinelli, a firma di quattro fisici teorici dell’istituto Enrico Fermi dell’Università La Sapienza di Roma: Giovanni Ciccotti, Marcello Cini, Michelangelo de Maria e Giovanni Jona-Lasinio. Suscita da subito un acceso dibattito per le posizioni poco ortodosse che gli autori vi espongono. Il tema è quello del rapporto tra l’evoluzione della conoscenza scientifica e il “tessuto sociale circostante”. Il sottotitolo del libro è Paradigmi scientifici e materialismo storico, e neanche questo deve stupire. Siamo in un periodo in cui le parole chiave del marxismo suonano familiari anche ai non esperti. A meno di dieci anni dal ’68 e  alle porte di nuovi fermenti politici, sono infatti all’ordine del giorno articoli, pamphlet e saggi che, come questo, si confrontano (da destra o da sinistra) con la teoria marxista anche da ambiti, come quello scientifico, apparentemente più distanti dalle teorie socio-economiche.  

I quattro autori sono, nel ’76, tutti bene o male vicini ai movimenti extraparlamentari alla sinistra del Partito Comunista Italiano (con l’eccezione forse di Jona-Lasinio, il meno radicale del gruppo). Cini in particolare, all’epoca cinquantatreenne, è un volto noto di quell’ambiente intellettuale: tra i cofondatori de “il manifesto”, era già professore alla Sapienza durante le proteste sessantottine, e fu allora una delle prime figure del mondo accademico a schierarsi apertamente con gli studenti in rivoltaAnche le questioni più prettamente epistemologiche e scientifiche, nel testo, sono sempre affrontate attraverso la lente della teoria marxista, e quindi inevitabilmente distorte dalla particolare lettura che gli autori fanno della teoria stessa. È proprio per i temi più squisitamente politici dell’opera che Giorgio Bocca arrivò poi a definire Marcello Cini uno dei “cattivi maestri” della sinistra italiana, colpevoli di aver avviato una generazione verso il terrorismo. Nelle pagine del libro i quattro fisici si concentrano sulle dinamiche attraverso le quali la società plasma la scienza, e analizzano in che modo in grembo a società diversamente organizzate possano nascere progressi scientifici differenti. “Entra in crisi” scrive Cini “la concezione che considera la scienza e la tecnica strumenti neutrali di progresso della società, indipendentemente dai rapporti sociali”. Nulla di più vero. O meglio: nulla di più accademicamente accettato oggi. Oggi, per l’appunto, perché nel 1976 tesi del genere non sono ancora affermate. Suonano anzi provocatorie all’orecchio di molti e non mancano di attirare critiche feroci. Contro L’Ape si scagliano così anche penne importanti come Lucio Colletti dalle pagine de L’Espresso e Giovanni Berlinguer da quelle di Repubblica. 

Qualche mese fa, a novembre, l’editore Bicocca – FrancoAngeli ha pubblicato una nuova edizione del libro, ormai da tempo fuori catalogo. Il testo originale del ’76  è stato integrato da nuovi saggi a commento, a firma degli autori di allora e di alcuni ospiti (Arianna Borrelli, Marco Lippi, Dario Narducci, Giorgio Parisi). 

Pregi e difetti del libro

Come forse si potrà immaginare già dalle premesse, la lettura di alcuni capitoli de L’Ape e l’Architetto risulta, a distanza di anni, faticosa, intrisa com'è nel dibattito di allora fra diverse fazioni e correnti del pensiero marxista. 

Un passaggio del libro che invece rimane subito impresso per chiarezza e lungimiranza è quello in cui Cini riporta un suo intervento risalente a otto anni prima, al 1968, e dove in poche righe prevede e anticipa lo sviluppo di personal computer e informatica, capendo il ruolo di primo piano che essi avranno nella società che verrà e avanzandone da subito un’aspra critica: 

Io sono abbastanza convinto che nei prossimi venti o trenta anni avremo uno sviluppo dell’industria dei calcolatori derivante dall’aumento del consumo privato del calcolatore, esattamente analogo a quello che è stato il consumo privato dell’automobile […]. Questo sviluppo introdurrà forme di selezione ulteriore, di asservimento ulteriore, di competizione ulteriore, di imprigionamento dell’uomo in una logica sempre più inesorabile, dovute soprattutto al consumo privato. È chiaro che questa è un’industria che, se dal punto di vista economico può veramente dare uno sviluppo al sistema del tutto analogo a quello della motorizzazione privata, si presta a dare al singolo un consumo che lo asservisce, lo narcotizza, lo droga.

In anticipo sui tempi è anche l’analisi critica sul profitto che il capitalismo punta e punterà a trarre dalle merci immateriali. Se è vero che già in quegli anni, negli Stati Uniti, le ricerche finanziate dai privati superavano per la prima volta quelle foraggiate da fondi federali, è però solo nel 1980 che il mercato si imporrà davvero come terzo protagonista nel dialogo tra scienza e società. In quell’anno, infatti, si avranno i primi brevetti  a protezione della proprietà intellettuale su tecniche scientifiche (come quella di clonazione del DNA ricombinante) e addirittura su organismi viventi, come quella che il Patent and Trademark Office (PTO) statunitense concederà su un batterio geneticamente modificatoGli autori avevano tuttavia già allora chiaro come il sistema capitalistico negasse ogni differenza tra beni materiali e immateriali, riducendo l’informazione a merce. E l’attenzione è puntata non solo ai processi di produzione di conoscenza scientifica, ma anche ai processi di produzione di conoscenza tout court: dalla cultura al managment. Indice, questo, di una certa perspicacia, sebbene a conclusione del ragionamento manchi il passo successivo, fondamentale: quello di riconoscere che un accesso ineguale alle conoscenze avrebbe creato una disuguaglianza grande almeno quanto quella creata dalla disomogenea distribuzione della ricchezza. Punto chiave, questo, per capire le criticità della società della conoscenza e dell’informazione dei giorni nostri. 

Tra i vari obiettivi del libro, gli autori si soffermano principalmente su quello della demistificazione della non neutralità della scienza. Il titolo dell’opera, un’azzeccata citazione del Capitale, ne riassume in questo senso perfettamente lo spirito e testimonia quello che era il punto chiave nell’analisi proposta: una forte critica, da sinistra, allo scientismo. Ovvero a quella tendenza intellettuale, forte anche nelle teorie marxiane, di considerare le scienze naturali e i loro metodi di investigazione come veri in assoluto, uno specchio neutro della realtà. Scriveva Marx:

L’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore, è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nell’idea del lavoratore [..]. Egli realizza [...] il proprio scopo, da lui ben conosciuto, che determina come legge il modo del suo operare e al quale deve subordinare la sua volontà. (Il Capitale, libro I)

Nella mente di Cini e compagni l’architetto è quindi lo scienziato che, a differenza dell’ape dotata del suo istinto animale, realizza un proprio scopo, perfettamente conosciuto o quanto meno conoscibile, rintracciabile prima ancora della sua realizzazione. E, rimanendo nella metafora, è allora la società il “committente” del lavoro dell’architetto/scienziato. La scienza non dev’essere più vista, insomma, come la semplice ricerca di una verità assoluta.  Essa è piuttosto il risultato di un tentativo di “costruire un insieme di relazioni astratte che si accordino non soltanto con l’osservazione e la tecnica, ma anche con la pratica, i valori e le interpretazioni dominanti”. In parole povere, che lo si voglia o no, è indissolubile il legame tra la crescita della conoscenza scientifica e il tipo di società  all’interno della quale essa si sviluppa (e i meccanismi di produzione e i rapporti sociali della società stessa).

Come già sottolineato, quella di non considerare più scienza e società come entità impermeabili e autonome apparve all’epoca quasi una provocazione. Da destra, ma anche e soprattutto da sinistra, dove la visione dominante era quella di un positivismo spesso acritico, che portava a una fiducia incondizionata nella scienza e nel progresso. In questo quadro scienza e società  non erano viste in alcun modo come compenetrate l’una nell’altra. Dialogavano anche poco, avevano tutt’al più un rapporto conflittuale: la scienza elaborava delle proposte che solo in un secondo momento stava alla società accogliere o rigettare. L’Ape e l’Architetto provò a sovvertire questo paradigma. E fu la prima volta, in Italia, che qualcuno lo fece con tanta risoluzione. Sono queste le pagine più significative del libro, che hanno lasciato un contributo reale al dibattito scientifico italiano. E che, non a caso, meno delle altre hanno risentito del passare del tempo. La dimensione sociale e politica (quando non religiosa o culturale) della scienza è oggi pane quotidiano del confronto intellettuale su questi temi. 

L’Ape e l’Architetto nasce, per dirla con le parole di Ciccotti e de Maria, per essere un “libro non accademico e di battaglia ideologica”. Questo porta non solo, ad esempio, ai lunghi e oggi praticamente incomprensibili strali contro l’ortodossia leninista della sinistra d’allora di cui si è già accennato. Ma spinge anche gli autori a evidenti forzature concettuali, come quella avanzata all’interno del secondo saggio: l’abbandono, in fisica delle particelle, della tradizionale descrizione dinamica della fisica classica a favore di una descrizione globale (di campi di particelle), “potrebbe essere messa in corrispondenza” – scrivono gli autori - con il passaggio dalla meccanizzazione all’automazione nei processi produttivi. Nonostante poi la presenza di diverse citazioni da Popper, Lakatos e Kuhn, gli autori dedicano tutte le loro energie alle questioni più prettamente politiche, e non sembrano tutto sommato granché interessati all’idea di cercare per esempio un confronto con gli studi e le ricerche delle scienze sociali dell’epoca. Allo stesso modo, la scienza è quasi sempre identificata con la sola fisica, nonostante siano a conti fatti ben altri i settori in cui rapporti e conflitti tra scienza e società sono più patenti. Durante la lettura, insomma, il saggio argomentativo e storico d’ampio respiro su scienza e società cede troppo spesso il passo a quello che rischia di essere nient’altro che uno sterile quanto specifico ritratto della sinistra universitaria italiana, e in particolare romana e interna al dipartimento di Fisica, nel 1976. O, bene che vada, una testimonianza preziosa del profilo di un’epoca ormai completamente tramontata.

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L’Ape e l’Architetto tra scienza e società

Per capire quali erano e in che modo stavano cambiando i rapporti tra scienza e società negli anni Settanta, è necessario fare un passo indietro, alla fine della seconda guerra mondiale. In quegli anni, infatti (negli Stati Uniti d’America prima, e nel resto del mondo subito dopo), si concluse la cosiddetta fase accademica della scienza – quella iniziata nel XIX secolo e durante la quale la comunità scientifica aveva realizzato la propria istituzionalizzazione all’interno del mondo delle università. La transizione alla fase post-accademica fu complessa. Il configurarsi  dei  primi veri mutamenti avvenne solo a seguito di accesi dibattiti e lunghe lotte politiche. Volendo peccare in semplificazione, tuttavia, non si sbaglierebbe di troppo nell’identificare nel documento Science: The Endless Frontier [La scienza: una frontiera senza confini] il mattone fondante di quel nuovo modo di concepire la ricerca che caratterizzò i decenni a venire. Era il luglio 1945. Redatto a guerra non ancora conclusa da Vannevar Bush (direttore dell’Office of Scientific Research) quel memorandum era destinato a finire sulla scrivania del presidente americano Harry S. Truman, che aveva da poco accettato l’incarico a seguito della morte di Franklin Delano Roosvelt. Le linee guida per la nuova politica di ricerca scientifica che il rapporto Bush proponeva non vennero mai attuate operativamente così com’erano state ideate. Quello che però sopravvisse al filtro dello scontro politico a cui il documento venne sottoposto fu la filosofia di fondo che esso conteneva. Bush  muoveva le proprie mosse a partire da una semplice constatazione: la ricerca di base porta più innovazione tecnologica, e, a cascata, più benessere e maggiore efficienza contro il nemico. È quindi compito dello stato finanziare la scienza di base condotta nelle università, perché il tornaconto che esso ne ricava è senza pari in termini di sicurezza e sviluppo economico nazionali.

Di lì a poco questi stessi ragionamenti maturarono anche nei paesi europei, così come in Giappone e in Unione Sovietica. Le politiche economiche che ne seguirono, in termini di ricerca scientifica, andarono a definire i connotati dell’era post-accademica: scienza e tecnologia rispondevano ora ai bisogni politici e sociali della nazione, in occidente come nei paesi del blocco comunista. Liberalismo e statalismo conferirono quindi alla stessa maniera alla ricerca pura un ruolo strategico in ambito sociale, politico ed economico. Con il rovescio della medaglia, implicito e non trascurabile, che sotto la pioggia di finanziamenti e l’apparente libertà, la scienza era in questo modo messa in una condizione di subalternità. Diventava, in poche parole, scienza di Stato. Ordinati così gli avvenimenti, sono forse più facili da capire le reazioni indignate che seguirono la pubblicazione de L’Ape e L’Architetto: a distanza di trent’anni dal documento di Bush (anche di meno, se consideriamo che Cini aveva già sollevato il problema dopo lo sbarco statunitense sulla Luna, nel ‘69) s’era ormai sedimentata, nelle menti di molti, l’idea della scienza come indiscutibile fattore di progresso, nazionale e mondiale. In parallelo a tale fiducia nella scienza, sopravviveva forte però anche l’idea positivista che essa fosse vera a prescindere e sempre uguale a se stessa perché al di sopra di ogni condizionamento esterno. Il paradosso creato dalla convivenza di due visioni così contrastanti può forse sembrare evidente, oggi. All’epoca non era così. E analizzare, come si fa ne L’Ape e l’Architetto, il sistema di produzione scientifica, allargando l’inquadratura e svelandone i meccanismi di funzionamento, significava fondamentalmente andare contro il pensiero dominante. La riflessione sulla non neutralità della scienza, nel libro, ha il pregio, tra gli altri, di riuscire a guardare oltre i confini nazionali e assumere così un respiro ampio su questioni tanto fondamentali. Certo è pur vero che, a voler ragionare sul solo caso italiano, sui  rapporti tra scienza e società ci sarebbe stato forse molto poco da dire. 

“Abbandonata a se stessa. Deve morire da noi la scienza?”, così titolava Il Nuovo Corriere della Sera già nel dicembre 1945 (in un articolo che peschiamo dal vasto lavoro sulle fonti fatto da Angelo Guerraggio e riportato in bibliografia). Avanzando poi velocemente all’ottobre 1969, un editoriale della neonata Le Scienze di Felice Ippolito denuncia: la classe politica ha tradito e illuso l’Italia nel non dare seguito ai discorsi “sul ruolo che scienza e ricerca insieme avrebbero svolto nel futuro progresso economico del Paese”. Quello che accadde negli oltre vent’anni che separano i due articoli è qualcosa di più della solita stasi italiana. È l’incapacità e il disinteresse, da parte della politica e della classe imprenditoriale, di sostenere l’università e l’innovazione tecnologica, mancando così di cavalcare l’onda del boom economico. È la scelta consapevole (dovuta a una miscela di questioni culturali, politiche e burocratiche) di puntare su un modello di sviluppo senza ricerca. Cini e compagni ne L’Ape e l’Architetto spingono il dibattito dove i vertici del Partito Comunista Italiano non usavano (e non osavano). E compiono lo sforzo, da sinistra, di rimettere le questioni scientifiche nuovamente in primo piano nel dibattito sulle modalità di trasformazione della società. Nel libro, infatti, i problemi della ricerca scientifica e tecnologica del nostro Paese sono posti nella prospettiva di uno “stretto collegamento con le lotte di classe operaia”: secondo Cini bisognava liberare la ricerca dal pesante condizionamento esercitato da un tipo di sviluppo che non faceva altro che consolidare il sistema stesso. 

Cosa successe, invece, dopo la pubblicazione del libro? Come in parte preconizzato da Cini e compagni, il quadro dei rapporti tra scienza e società cambiò gradualmente ma radicalmente con il rafforzarsi dei finanziamenti privati nel mondo della ricerca. Di lì a poco (a partire dai primi anni Ottanta) andò a formarsi quella che oggi viene chiamata tecnoscienza. Nei settori medico-farmaceutici, così come nelle biotecnologie e nell’informatica, si aprì una forte interpenetrazione con il mercato, che diventò da allora un attore ineliminabile nello scenario dei legami tra scienza e società. L’Ape e l’Architetto ha quindi la caratteristica unica di essere un libro che vive a cavallo di due epoche. Agli albori della tecnoscienza, ne intuisce sin da subito alcune caratteristiche. Ora che iniziamo a interrogarci sugli squilibri e le problematicità che questo sistema porta, è senza dubbio utile andare a rileggere un documento come questo, nato nel periodo di transizione tra Ieri e Oggi.

Riproporre a distanza di trentacinque anni un lavoro come L’Ape e l’Architetto, così indissolubilmente legato ai tempi in cui venne scritto, è una mossa editoriale audace ma sicuramente lodevole. Se il libro ha, come detto, un’importanza che potremmo definire “storica”, sarebbe tuttavia un errore quello di guardare oggi a L’Ape e l’Architetto solamente come a un feticcio intellettuale. Al netto dei tanti passaggi legati a un'epoca ormai tramontata, il merito maggiore che va riconosciuto agli autori è infatti quello d’aver affrontato temi importanti e troppo spesso ignorati, sviluppando ragionamenti che si sarebbero rivelati fallaci o lungimiranti a seconda dei casi, ma ponendosi comunque prima di altri domande assolutamente rilevanti sulla scienza e sui contesti che la determinano. Dopo Cini, in pochi in Italia hanno seguito il tentativo di indagare i rapporti tra i meccanismi di produzione scientifica e quelli di organizzazione sociale. Pochissimi tra scienziati e ricercatori. 

Oggi, soprattutto nel nostro paese - ci sembra - assistiamo a una recrudescenza di quello scientismo che il libro aveva all’epoca così lucidamente criticato. Molti saggi e articoli sul tema cedono nuovamente alla tentazione di considerare le scienze naturali e i loro metodi di investigazione come veri in assoluto, uno specchio neutro della realtà, nonché portatori indiscutibili di progresso e democrazia. Riproporre a distanza di trentacinque anni un lavoro come L’Ape e l’Architetto è allora una mossa editoriale audace ma lodevole, e forse addirittura necessaria, che ci fa ricordare nel giorno della sua scomparsa la lucidità e l'audacia intellettuale di Marcello Cini.

 



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