Il progetto SEpiAs,
Sorveglianza epidemiologica in aree
interessate da inquinamento ambientale da arsenico di origine naturale o
antropica, è stato realizzato dall’Istituto di fisiologia Clinica del
Consiglio nazionale delle ricerche, finanziato dal programma CCM (Centro per il
controllo e la prevenzione delle malattie) del Ministero della Salute.
Il 9 maggio, presso la sede del Consiglio nazionale delle
ricerche a piazzale Aldo Moro, 7 – Roma ore 10-16,30, verrà illustrata la
pubblicazione scientifica che raccoglie i risultati del progetto SEpiAs.
Lo studio si è realizzato nella zona dell’Amiata, nel viterbese, a Taranto
e Gela, tutte zone di cui si
conosceva l’esistenza di inquinamento da arsenico, in particolare nelle acque
nei primi due casi, nelle emissioni industriali nei secondi due.
Il caso della provincia di Viterbo è noto, legato
all’approvvigionamento di acqua potabile, che negli ultimi anni e fino
all’inizio del 2013 è stato garantito “in deroga” ai limiti sempre più severi
previsti dall’Unione Europea per alcuni inquinanti: nell’area vulcanica le
acque provenienti dal sottosuolo sono ricche di metalli, tra cui l’arsenico.
Analogo problema, oggi risolto, hanno avuto diversi comuni dell’Amiata, zona a
vocazione mineraria e attualmente di sfruttamento geotermico. Le prime due aree
sono quindi definite aree con inquinamento da arsenico di origine naturale.
Il Comune di Gela, assieme a quelli di Niscemi e Butera,
hanno fatto parte per tanti anni dell’ “area ad alto rischio ambientale”, poi
“sito di interesse nazionale per la bonifica”, e già nel 2009 uno studio
realizzato da IFC CNR in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della
Sanità aveva riscontrato livelli alti di arsenico totale nel 20% dei campioni
di sangue e urina donati dalle circa 300 persone reclutate (studio Sebiomag). A
Taranto infine esistono diversi impianti industriali che emettono arsenico, ed
è entrata come seconda area industriale nello studio epidemiologico.
Nel complesso sono state fatte analisi su 282 soggetti
adulti residenti in aree del Monte Amiata, nel viterbese, a Taranto e Gela. Nelle urine è stato misurato il contenuto di arsenico,
separando le diverse specie organiche e inorganiche. E’ noto infatti che l’arsenico
inorganico e alcune specie arsenicali sono quelle riconosciute più pericolose,
e cancerogene certe.
Sono stati misurati inoltre nel sangue, numerosi
biomarcatori di suscettibilità genetica, di danno al DNA e di effetto precoce:
si tratta di modifiche strutturali del DNA e dei geni (genetiche) e funzionali
dei geni (epigenetiche), che sono state collegate in altri studi alla presenza di
arsenico e forniscono segnali di modifiche utili alla prevenzione.
Infine i volontari in ogni zona hanno fatto un esame
cardiologico per verificare parametri di rischio cardiovascolare, mediante
ecodoppler carotideo e ECG cardiaco. Anche in questo caso si tratta di piccole
modifiche dei tessuti, che si possono osservare e in altri studi sono state
associate alla esposizione delle persone ad arsenico.
Ad ogni partecipante è stato somministrato un approfondito e
dettagliato questionario, con l’aiuto di un operatore addestrato, con domande sulle abitudini di vita,
l’ambiente, la storia medica, le abitudini alimentari, la storia lavorativa e
una sezione dedicata alla percezione dei rischi e alle fonti informative cui le
persone sono solite accedere.
Lo studio del CCM-Ministero della Salute è coordinato
dall’Istituto di fisiologia clinica del Cnr, di cui è responsabile Fabrizio Bianchi, ed è pubblicato sulla
rivista Epidemiologia & Prevenzione in un supplemento disponibile on
line dal 9 maggio.
Numerose le informazioni di carattere scientifico e sanitario
che emergono dallo studio. “Le quattro aree risultano caratterizzate
diversamente per distribuzione e tipologia di arsenico assorbito dai
partecipanti al biomonitoraggio e anche per alcune caratteristiche genetiche”, ha
dichiarato Fabrizio Bianchi. “Per quanto riguarda l’arsenico inorganico sono
stati osservati valori medi di concentrazione elevati in un soggetto su quattro
sul totale, ma con rilevanti differenze nelle 4 aree: 12% Amiata, 15%
viterbese, 30% Taranto, 40% Gela. Questi dati, da usare con cautela in
considerazione dei piccoli campioni, non sono marcatori di malattia ma testimoniano
l’avvenuta esposizione a arsenico”.
Le soglie sono state definite sulla base dei valori di riferimento nazionali e
internazionali per il biomonitoraggio umano, che sono illustrati anche nell’articolo
introduttivo al volume di Epidemiologia & Prevenzione presentato a Roma:
una rassegna degli studi di esposizione ad arsenico a dosi oggi definite basse.
Sono emerse alcune associazioni statisticamente
significative tra concentrazione di arsenico e fattori di rischio indagati col
questionario, principalmente con l'uso di acqua di acquedotto e di pozzo, ma
anche con esposizioni occupazionali e con consumo di alimenti quali pesci, molluschi
o cereali, che dovranno essere indagate con studi specifici sulla dieta.
Lo studio dei biomarcatori genetici e di danno precoce ha
fornito indicazioni importanti per la definizione di sistemi di sorveglianza
specifici per le aree studiate, e viene raccomandata l’inclusione di marcatori di suscettibilità
individuale all'arsenico, cioè di indicatori della minore o maggiore capacità
di metabolizzare l’arsenico (metilazione e ossidazione).
La valutazione della percezione dei rischi ambientali per la
salute ha mostrato una preoccupazione acutissima, specie nelle due aree industriali.
Le persone riconoscono i rischi ambientali esistenti e la propria esposizione,
a Taranto e Gela circa il 60% del campione giudica la situazione grave e
irreversibile; ma soprattutto oltre l’80% ritiene certo o molto probabile che
in aree inquinate ci si possa ammalare di tumore o avere un figlio con
malformazioni congenite. Il quadro è quello di comunità certamente allarmate,
che ricevono molte informazioni dai media sull’ambiente, soprattutto a Taranto,
a Gela e Viterbo, e che si fidano degli enti locali nel 27% dei casi a Viterbo,
nel 40% nell’Amiata, ma solo nel 6% a Taranto e nel 16% a Gela. Chi vive in
queste ultime due aree ripone maggiore fiducia nelle informazioni che riceve da
associazioni locali e organizzazioni ambientaliste.
“Le raccomandazioni
finali suggeriscono interventi di prevenzione primaria sulle fonti inquinanti
conosciute e la prosecuzione del monitoraggio periodico dell'andamento
dell'esposizione, a iniziare dai soggetti con i valori più elevati per i quali
è stato proposto un protocollo di presa in carico, assieme ad una informazione
costante e attenta da parte delle autorità, avvalendosi dei ricercatori e degli
operatori della sanità pubblica”, conclude Bianchi.
La presentazione dei risultati di SEpiAs arriva a qualche giorno di distanza dalla pubblicazione del nuovo Rapporto Sentieri che ha indagato le incidenze tumorali in 18 siti di interesse nazionale per le bonifiche (SIN) del Paese.