Dopo la descrizione del centro di Emergency in cui si trova, nella terza puntata di Ebola, visto da vicino Roberto Satolli si sofferma sulla sperimentazione che sta contribuendo a organizzare insieme a Emergency, all’Istituto Spallanzani e all’IRCCS di Reggio Emilia.
Quando lo sento su Skype,
Roberto è appena tornato da un incontro di coordinamento delle varie
istituzioni e ONG che operano in Sierra Leone. “Sono riunioni surreali. Non
saprei in che altro modo descriverle,” mi dice subito. “Si passa da argomenti
concreti a discussioni durante le quali viene da chiedersi se quello che sento
sia stato detto davvero. Per esempio, oggi, fra le altre cose, si è parlato di
uno strumento Wi-Fi-server che dovrebbe servire per migliorare la raccolta dei
dati e la comunicazione all’interno dei centri, ma che è stato presentato come ‘la
soluzione’ per monitorare i pazienti senza entrare in zona rossa.” Siccome il
virus si trasmette tramite contatto, c’è insomma chi suggerisce di eliminare
ogni interazione umana. Un’idea che fa il paio con quella degli infermieri
robot.
La medicina senza medici. Surreale, appunto.
“Il problema è che qui ci sono anche persone che non hanno idea né di come si affronta una malattia infettiva, né di come si dovrebbe condurre la sperimentazione,” mi confida Roberto. “Ti faccio un altro esempio: di recente è stato aperto un centro con cento posti letto dei quali, dopo una settimana, solo tre o quattro erano operativi. E hanno già avuto un medico infetto, uno dei volontari cubani, ora trasferito a Ginevra. La buona volontà non basta. A volersi improvvisare a volte si rischia di far più danni che altro.”
Anche Emergency non aveva esperienza con
Ebola, ma è riuscita a costruirsela sul campo. L’organizzazione è presente in
Sierra Leone fin
dal 2001, quando aprì un centro chirurgico – che dal 2002 divenne anche
pediatrico – a Goderich, nei sobborghi di Freetown. L’arrivo di Ebola mise gli
operatori del centro davanti a un problema. “Arrivavano sessanta bambini al
giorno con la febbre, come si faceva a capire chi aveva Ebola e chi no?” mi
spiega Roberto. È nata quindi l’esigenza di una tenda separata e di un
protocollo specifico, intorno ai quali costruire una risposta adeguata. Talmente
adeguata che nessun caso di infezione è mai stato accidentalmente portato
all’interno del centro di Goderich. I buoni risultati ottenuti, in termini di
contenimento, hanno fatto sì che il Ministero della salute della Sierra Leone
chiedesse a Emergency di creare un centro dedicato all’isolamento e al
trattamento dei malati di Ebola. Lo stesso nel quale Roberto adesso si trova
per pianificare la sperimentazione dell’amiodarone.
“Gino mi ha parlato per la prima volta dell’amiodarone ad agosto, al ventennale di Emergency a Milano,”
racconta Roberto. “Era stato contattato da Aldo Baritussio, ricercatore di Padova,
che aveva usato questo farmaco per simulare gli effetti di una rara malattia
genetica che stava studiando e nella quale risulta difettosa l’endocitosi.”
L’endocitosi è un
processo grazie al quale la cellula ingloba elementi esterni trasportandoli nel
proprio citoplasma. Una porta d’ingresso sfruttata dai membri della famiglia
dei filovirus – cui appartiene Ebola, insieme al non meno temibile Marburg
– per infettare un organismo. Una porta che l’amiodarone, un farmaco
anti-aritmico usato da più di cinquant’anni in cardiologia, è in grado di sbarrare.
“L’amiodarone si è
rivelato efficace contro Ebola in laboratorio, ma ora bisogna vedere se
funziona anche sul campo. L’idea iniziale era di dispensarlo come terapia
compassionevole, ma poi abbiamo sentito il bisogno di mettere a punto un
protocollo per la sperimentazione che è in fase di registrazione ufficiale su ClinicalTrials.”
Il problema è che senza
un termine di paragone non si può capire se un certo trattamento ha effetto
oppure no. L’obiettivo principale dovrebbe essere la riduzione della mortalità
di Ebola ma, a tutt’oggi, è addirittura difficile quantificare questa
mortalità.
“Il Ministero della salute della Sierra Leone manda ogni giorno un rapporto
sulla situazione in ciascun distretto, ma noi abbiamo grossi dubbi sul modo in
cui questi dati vengono raccolti,” mi dice Roberto. “Per esempio, secondo il
Ministero ci sono distretti dove la mortalità supera il 50%, mentre nel nostro sarebbe
solo del 14%. Peccato che, secondo i nostri dati, è del 64%. E in certi
distretti è anche più alta. Queste discrepanze sono preoccupanti, perché
significa che il conteggio dei decessi è
sottostimato e raccolto in modo random. Per di più, si pubblicano in questo
momento, persino su
riviste come il NEJM, casistiche anche consistenti di centinaia di
pazienti, per descrivere la presentazione clinica della malattia di Ebola, ma
ci si ‘dimentica’ di esporre l’aspetto più importante: la letalità. In
condizioni del genere, senza protocolli e standard definiti, come si fa a
capire se una terapia sta funzionando?”
Il tutto senza contare
che, nello stesso momento, meno
del 25% dei pochi casi di Ebola trattati in ospedali occidentali sono
risultati letali, il che significa che il tipo di cure di contorno pesa molto
sull’efficacia di qualsiasi trattamento.
“Da questo punto di vista, uno degli aspetti secondo me importanti della
sperimentazione con l’amiodarone è che ci sarà un gruppo di controllo ben
definito, grazie al quale oltre a capire se effettivamente questo farmaco ha
qualche effetto positivo, avremo anche un punto di riferimento anche per altri
possibili interventi da sperimentare, come per esempio il siero
di convalescenti.”
Un punto, questo del
gruppo di controllo, su cui è in corso un acceso dibattito, che vede schierati,
su fronti opposti, due
pesi massimi come l’Organizzazione
Mondiale della Sanità e la Food and Drug Administration.
La prima
mette in discussione l’eticità del ricorso a gruppi di controllo, mentre la
seconda difende lo standard di sperimentazione dei farmaci mediante trial
clinici randomizzati, nei quali i pazienti vengono suddivisi casualmente in due
gruppi e a uno solo di essi viene somministrato il farmaco sperimentale. “Dal
punto di vista etico, la randomizzazione
ha sicuramente molti difetti, ma farne a meno porterebbe a problemi etici e
scientifici ancora più gravi. A meno che non si voglia rinunciare del tutto alla
sperimentazione clinica,” chiarisce Roberto. “Molti pensano che siccome questa
gente muore, allora bisogna comunque dar loro qualcosa, dando per scontato che somministrare
un farmaco mai sperimentato sia meglio che non dare niente. Il che non è vero.”
L’amiodarone stesso non è
del tutto innocuo, dal momento che può provocare aritmie in certi soggetti. “Prima
di somministrarlo dobbiamo essere sicuri che i pazienti già debilitati dalla
disidratazione e dalle altre conseguenze di Ebola non siano anche a rischio di
aritmie. Darlo a tutti indiscriminatamente sarebbe meno etico che darlo solo ad
alcuni.”
Il rischio è di arrivare all’immissione sul mercato di trattamenti i cui
benefici sono sovrastimati e le cui controindicazioni, al contrario,
sottostimate. “C’è addirittura chi sta pensando di usare l’amiodarone in
maniera preventiva. Dare un farmaco che può provocare controindicazioni a
persone sane, senza averne testato prima l’efficacia: assurdo.”
Un atteggiamento
anti-scientifico, quindi? “No,” mi corregge Roberto. “Forse lo chiamerei a-scientifico, o pre-scientifico. È un atteggiamento che emerge da una non
comprensione delle ragioni profonde della sperimentazione. Quando si fa ricerca
in medicina, la domanda centrale è: se a un determinato malato non avessimo
dato un determinato farmaco, cosa sarebbe successo? Sarebbe vivo oppure no? Si
tratta di una totale astrazione, poiché stiamo pensando a qualcosa che non è
accaduto.”
Quello che mi descrive Roberto è un
approccio che appare controintuitivo, per via di alcuni vincoli cognitivi
innati presenti nel nostro cervello. Si tratta di vincoli che i processi
evolutivi hanno plasmato nel corso del tempo e che sono spesso vantaggiosi, ma che
in alcuni casi ci portano fuori strada. Per questo non possiamo eliminarli (né
dovremmo provarci), ma possiamo educarci a riconoscerli e a capire quando ci
stanno suggerendo soluzioni troppo semplici a problemi ben più complessi.
“È come con le illusioni ottiche,” conclude Roberto. “Quando immergi un remo nell’acqua non puoi smettere di vederlo spezzato, ma puoi imparare che quello è un inganno percettivo e che il remo è in realtà intatto. Soprattutto, puoi capire il perché di quell’illusione, e agire di conseguenza.”