fbpx Centocinquant’anni di ecologia | Scienza in rete

Centocinquant’anni di ecologia

Primary tabs

Read time: 8 mins

Nel 1866, centocinquanta anni fa, Ernst Haeckel dava alle stampe la Generelle Morphologie der Organismen: un libro sulla morfologia generale degli organismi destinato a diventare famoso perché il biologo tedesco usa una nuova parola: oekologie, derivata dal greco οίκος e dal greco lόgος, attribuendole il significato di «scienza dell'insieme dei rapporti degli organismi con il mondo circostante, comprendente in senso lato tutte le condizioni dell'esistenza». Ernst Haeckel creava così un sostantivo e, forse, una scienza: l’ecologia.

In greco οίκος vuol dire casa. La nuova parola ha dunque la medesima radice etimologica di economia. Che, in fondo, è la scienza della gestione della casa. Per analogia, l'ecologia può essere definita come la scienza della gestione dell'ambiente, che è la casa di tutti gli organismi viventi.

Natura madre o matrigna?

Quanto al concetto scientifico, molti sostengono che in realtà l’ecologia non nasce nel XIX secolo con la definizione e il progetto scientifico di Haeckel, ma nasce già nel XVIII secolo, con l'idea cara a Linneo di «economia della natura». La quale, come una madre, gestisce la casa comune assegnando a ogni specie vivente il suo giusto posto, il giusto accesso al cibo, il giusto tasso di crescita demografica. Nel quadro di quell'armonia insieme razionale e provvidenziale con cui la natura, secondo Linneo, crea e governa la rete di interdipendenze tra le sue singole parti.

In realtà già Aristotele aveva prestato attenzione all'armonia della natura e, in particolare, all'armonia tra le specie viventi. E, dopo Linneo, molti naturalisti si erano dedicati allo studio delle catene alimentari e del controllo delle popolazioni biologiche. Cosicché le radici culturali della scienza ecologica sono profonde e piuttosto ramificate.

Tuttavia è solo nella seconda parte del XIX secolo che l'ecologia può iniziare a essere o, almeno, a proporsi come scienza. Solo dopo, cioè, che la scoperta delle grandi estinzioni di massa ha iniziato a minare alla base l'idea provvidenziale di armonia della natura. E solo dopo che Charles Darwin, con la sua teoria dell’evoluzione biologica per selezione naturale del più adatto esposta nell’Origine delle specie (1858) ha riformulato in termini dinamici e, per certi versi drammatici, l'idea razionale di armonia della natura. Nella teoria darwiniana, infatti, la natura non è sempre una madre. Può essere anche matrigna. In ogni caso la natura non ha alcun fine. La casa comune dei viventi è in costante cambiamento. E i rapporti tra le specie non sono solo di armonica interdipendenza, ma anche di drammatica e spesso tragica competitività. In definitiva, nella teoria darwiniana le specie e l'ambiente coevolvono alla ricerca perenne di un adattamento reciproco che è cieco (non sa dove va) e non è mai concluso.

È a questa visione del tutto nuova della natura che Haeckel, pioniere dell'evoluzionismo in Germania, fa riferimento quando nel 1866 pubblica la Generelle Morphologie der Organismen e propone la parola, l’idea e la scienza dell’oekologie.     

I lavori sul campo dei primi ecologi riguardano il rapporto tra la fisiologia e geografia delle piante. Ma nasce subito un’ecologia teorica che si interroga sui fondamenti di questa disciplina. Partendo dal presupposto che l'ecologia non è una semplice branca della biologia.

John S. Burdon Sanderson, nel 1893, sostiene per esempio che l'ecologia costituisce certamente, insieme alla fisiologia e alla morfologia, una delle tre grandi parti in cui si divide la biologia. Ma l’ecologia si distingue dalla fisiologia e dalla morfologia perché rappresenta «la filosofia della natura vivente».

Ecologia globale ed ecosistemi

Il 12 aprile del 1913, infine, nasce a Londra la prima società di ecologia, la British Ecological Society. Gli studiosi di ecologia iniziano a formare una comunità scientifica che si autoriconosce. Che propone i suoi modelli di interpretazione della natura. Negli anni ’20, per esempio, Alfred Lotka e Vito Volterra propongono i primi modelli matematici per spiegare le relazioni tra prede e predatori in natura. E Vladimir Vernadsky propone il primo modello di ecologia globale: la Terra come casa comune di tutti gli organismi viventi e di tutti i rapporti tra gli organismi viventi. Vernadsky considera la Terra come un solo e inscindibile sistema ecologico. Tuttavia molto utile si rivela il concetto limitato di “ecosistema” che Arthur Tansley introduce, nel 1935, con un articolo sulla rivista Ecology, definendolo come l’insieme degli organismi viventi e delle componenti non biologiche necessarie alla loro sopravvivenza in una certa area.

Ora lo studio integrato delle componenti biotiche e delle componenti abiotiche degli ecosistemi, siano essi grandi come la foresta amazzonica o il deserto del Sahara, o piccoli come un laghetto di montagna, è decisivo per comprendere la complessità irriducibile che caratterizza i sistemi ecologici.

Tuttavia è la scoperta delle dimensioni globali dell’ecologia che pone questioni fondamentali alla scienza ecologica. Questa scoperta, come abbiamo detto, va riconosciuta a Vladimir Vernadsky e, dunque, risale agli anni ’20 del XX secolo. Tuttavia, come rileva Eugene Odum, è solo intorno agli anni ’60 che diventa un concetto diffuso, anche a livello di grandi masse. La scoperta di massa dell’ecologia e dell’ecologia globale coincide e fortemente dipende dalla constatazione che l’uomo è (anzi, è diventato) un attore ecologico globale. Capace di influenzare non solo singoli ecosistemi, ma l’intera ecosfera.

È negli anni ’60, infatti, che i mezzi di comunicazione di massa scoprono i primi problemi ecologici globali. Come, per esempio, l’inquinamento radioattivo generato dagli esperimenti nucleari in atmosfera. O come l’inquinamento chimico, denunciato come problema emergente e globale nel 1963 da Rachel Carson con un fortunato libro, La primavera silenziosa. Ed è, infine, nel 1968 che il biologo Paul Ehrlich pubblica un libro, The Population Bomb, in cui dimostra che, tra i problemi ecologici globali, c’è l’esplosiva capacità riproduttiva conseguita dalla specie umana. Moltiplicandosi con un successo senza precedenti, l’uomo rappresenta una minaccia per gli equilibri ecologici locali e globali.

L’impronta umana

Negli ultimi anni l’impronta umana sui cambiamenti del clima globale e sull’erosione della biodiversità, un’erosione così rapida da indurre alcuni ecologi a parlare di grande estinzione di massa, è stata riconosciuta non solo in termini scientifici, ma anche in termini politici. Nella Conferenza sull’Ambiente e lo Sviluppo organizzata dalle Nazioni Unite nel 1992 a Rio de Janeiro (UNCED), praticamente tutti gli stati della Terra si sono impegnati solennemente a cercare di ridurre l’influenza umana sulla dinamica del clima e sulla dinamica della biodiversità.

Di recente Paul Crutzen, premio Nobel per la Chimica, ha proposto di chiamare antropocene l’attuale fase della storia dell’ecosistema Terra. Molti ecologi convengono, perché riconoscono l’impronta enorme e inedita che una singola specie, Homo sapiens, imprime nei sistemi ecologici locali e globali.

Proprio l’emergere dei problemi ecologici globali e della necessità di una politica ecologica globale pone non pochi problemi all’ecologia, alla scienza della gestione dell’ambiente. Il primo e, forse, il più immediato di questi problemi veniva sollevato già nel 1978 da Paul Colinvaux. E consiste nel rischio che l’ecologia si dimentichi, in qualche modo, di essere la scienza della coevoluzione globale del mondo vivente e dell'ambiente che lo ospita e si riduca a scienza dell’inquinamento.

Nel 1990 l’inglese elenca ben nove grandi questioni non risolte nell’ambito della scienza ecologica: cosa determina la densità di una popolazione? Come si produce la distribuzione nello spazio delle popolazioni? Qual è la scala giusta, nello spazio e nel tempo, dell’ecologia? Qual è il rapporto tra stabilità e complessità delle comunità ecologiche? Qual è il modello migliore per definire la rete del cibo? Cosa determina l’abbondanza relativa delle specie? Quali sono le relazioni tra il numero, le dimensioni, il range di espansione delle specie? Come definire i cicli biogeochimici? Quali sono i problemi aperti di conservazione? E, ultimo ma non ultimo, la intrinseca e irriducibile complessità delle relazioni tra gli organismi viventi rende l’ecologia una scienza?

Tutti questi problemi restano ancora sostanzialmente aperti. Tuttavia ci sono altre questioni teoriche aperte connesse allo studio dell’ecologia globale. Perché questa visione dell’ecologia si fonda su una constatazione inoppugnabile: l'uomo è una specie tra le specie. E tuttavia questa constatazione, inoppugnabile, comporta delle conseguenze. L'uomo e i suoi comportamenti, compresi quelli morali e politici, l’uomo e la sua coscienza ecologica, sono parte dell’ecosistema globale e, quindi, sono oggetto di studio da parte dell’ecologia.

Questa conseguenza ne genera, a cascata, molte altre. C’è, per esempio, un’esigenza di specificare meglio cosa intendiamo per specie tra la specie. Perché non c’è dubbio che l’uomo è una specie biologica come infinite altre e, in particolare, una specie predatrice tra tante altre specie predatrici esistenti. Tuttavia ci sono almeno due condizioni a contorno che rendono l'attività predatrice dell'uomo diversa da ogni altra. La prima è che l'innovazione tecnologica fondata sulle conoscenze scientifiche rende particolarmente efficace, come rileva Jean-Paul Deleage, la sua opera di predazione. La seconda è che l'uomo ha coscienza della efficacia enorme e della pericolosità della sua attività predatrice. Sa che ha iniziato a tagliare il ramo su cui è seduto. E che, se il ramo cade, egli stesso si farà male. Poche altre specie, nella storia della vita, hanno avuto un’efficacia enorme nella dinamica ecologica globale. E, in ogni caso, nessun’altra ne ha mai avuto coscienza.

La coscienza ecologica

Ciò rende l’ecologia una scienza davvero particolare. Molto diversa, per esempio, dall’astronomia: che è una scienza fondata sull’osservazione di una parte dell’universo su cui l’osservatore non ha praticamente influenza. 

In ecologia, invece, l’osservatore partecipa inevitabilmente all’esperimento che osserva. Anzi, l’uomo mentre osserva la dimensione ecologica del mondo genera una  costellazione di feedback molto difficile da dirimere. Tutto ciò pone un grande problema di obiettività. Nessun osservatore può essere obiettivo quando osserva se stesso.

Infatti la coscienza della dimensione ecologica del mondo coinvolge l’esistenza stessa dell’uomo. L’organizzazione della sua società. L’ecologia scientifica è la presa di coscienza di questo coinvolgimento. Cosicché l’ecologia scientifica è, inevitabilmente, ecologia politica. E, quindi, economia politica.

In definitiva possiamo legittimamente chiederci che razza di scienza sia l’ecologia scienza. Ma, quale che siano le opinioni sul suo statuto epistemologico, abbiamo un bisogno sempre più impellente di conoscere «l'insieme dei rapporti degli organismi con il mondo circostante, comprendente in senso lato tutte le condizioni dell'esistenza». Perché tra quelle condizioni dell’esistenza ci sono anche le condizioni di esistenza della specie umana. Specie biologica con un ruolo sempre più globale. Ma pur sempre specie biologica, per la quale l’ecologia, la «gestione della casa», è un questione di sopravvivenza.

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Generazione ansiosa perché troppo online?

bambini e bambine con smartphone in mano

La Generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli (Rizzoli, 2024), di Jonathan Haidt, è un saggio dal titolo esplicativo. Dedicato alla Gen Z, la prima ad aver sperimentato pubertà e adolescenza completamente sullo smartphone, indaga su una solida base scientifica i danni che questi strumenti possono portare a ragazzi e ragazze. Ma sul tema altre voci si sono espresse con pareri discordi.

TikTok e Instagram sono sempre più popolati da persone giovanissime, questo è ormai un dato di fatto. Sebbene la legge Children’s Online Privacy Protection Act (COPPA) del 1998 stabilisca i tredici anni come età minima per accettare le condizioni delle aziende, fornire i propri dati e creare un account personale, risulta comunque molto semplice eludere questi controlli, poiché non è prevista alcuna verifica effettiva.