Hans Reichenbach (1891-1953),
filosofo della scienza neopositivista e allievo di Albert Einstein, sosteneva
che ciò che deve interessare chi si occupa di logica della scienza è solo il
“contesto della giustificazione”: «ovvero la
connessione tra i dati di fatto e le teorie avanzate per spiegare i medesimi».
Chi si occupa di logica della scienza non deve invece prendere in
considerazione il “contesto della scoperta”, perché: «l'atto della scoperta
sfugge all'analisi logica; non vi sono regole logiche in termini delle quali si
possa costruire una "macchina scopritrice" che assolva la funzione
creativa del genio».
Albert
Einstein (1879-1955) era, invece, interessato alla creatività scientifica e al
mistero che trasforma una congerie storica di azioni e di pensieri soggettivi in
una conoscenza a-storia e tendenzialmente oggettiva, qual è la scienza. Il
fisico ha riflettuto a lungo sul “contesto della scoperta”, soprattutto sui
momenti in cui “la scienza sta per nascere” e non è ancora conoscenza
consolidata. È in quelle fasi lì che interviene il genio.
Entrambi, Reichenbach ed
Einstein, non hanno mostrato granché interesse per la dimensione sociale della
scienza. Per carità, è del tutto giustificato per un logico e per un fisico
teorico che intende riflettere sui correlati psicologici della genialità.
Tuttavia nessuno dei due – e con essi molti filosofi e molti scienziati – non
sembrano tener conto che la scienza è, soprattutto, un’attività sociale. Il
prodotto della complessa azione di una comunità che interagisce con altre comunità
e che tende, per dirla con John Ziman, un fisico teorico che si è interessato
alla dimensione sociale della scienza, a raggiungere un «consenso razionale di
opinione» nella spiegazione dei fenomeni naturali.
In definitiva, il “contesto
della società” è altrettanto importante del “contesto della giustificazione” e
del “contesto della scoperta” se si vuol comprendere la scienza e il suo ruolo
nella vicenda dell’umanità.
La scienza che si occupa del
“contesto della società” è la sociologia della scienza. Ora, ci sono almeno tre
modi diversi di interpretare la sociologia della scienza.
Il primo è quello di
considerare le dinamiche sociali interne alla comunità scientifica e tentare di
rispondere a domande del tipo: come lavorano gli scienziati? Quali fattori
influenzano il loro lavoro? Come raggiungono un “consenso razionale di
opinione” su questo o quel campo? Quali sono le istituzioni sociali
fondamentali delle comunità scientifiche?
Un secondo modo di
interpretare la sociologia della scienza è quello di considerare gli effetti
che la produzione sistematica e organizzata di conoscenza sulla natura ha
sull’intera società umana e tentare di rispondere a domande del tipo: quali
sono le interazioni tra scienza e società? E tra scienza ed economia? Come
stanno evolvendo questi rapporti? Cos’è e quali effetti determina la “politica
della scienza”?
Un terzo modo di interpretare
la sociologia della scienza è pendere in considerazione le zone di frontiera
tra scienza e società e cercare di verificare se e come esse co-evolvono. In
soldoni, significa cercare di costruire un modello teorico della “società della
conoscenza”, che ha nella produzione di nuova conoscenza scientifica e
nell’innovazione tecnologica che si sviluppa a partire dalla nuova conoscenza
scientifica il proprio motore.
È difficile se non impossibile
trovare gruppi di ricerca che interpretano la sociologia della scienza in tutti
questi tre aspetti. Ed è difficile anche trovare libri di sociologia della
scienza che affrontino, in maniera sistematica, questi tre aspetti. O meglio,
era difficile. Perché ora questo libro c’è. Si intitola Sociologia della scienza. Ha per sottotiolo Capire la scienza per capire la società contemporanea. Lo hanno scritto Andrea Cerroni e Zenia
Simonella, due sociologi dell’Università Bicocca di Milano e lo ha
pubblicato l’editore Carocci.
Il libro si divide in tre
parti. La prima riguarda la sociologia della scienza intesa come studio delle
dinamiche interne a quella che Paolo Rossi chiamava la Repubblica autonoma
della scienza. Ha un marcato carattere storico. Parte dalla fondazione della
sociologia della scienza e dal tentativo, che ha trovato una efficace sintesi
in Robert Merton, di definire la comunità scientifica (l’insieme delle comunità
scientifiche) appunto come una repubblica autonoma: con le sue proprie leggi e
in grado di autosostenersi.
Quella della scienza come
“repubblica autonoma” è una idealizzazione. In realtà le comunità scientifiche
interagiscono con il resto della società e ne vengono influenzate. Dopo la
seconda guerra mondiale questa interazione assume connotati macroscopici. È su
questo aspetto che si concentra il filone post-mertoniano della sociologia
della scienza: quello degli Science and
Technology Studies. Molti sociologi iniziano a guardare alla scienza come
una “costruzione sociale”. A Edimburgo qualcuno si fa fautore di un “programma
forte” secondo cui la scienza altro non sarebbe che “una mera costruzione
sociale”. Cerroni e Simonella ci offrono una mappa completa di questi gruppi,
che sono anche abbastanza diversi tra loro.
Ma, almeno nelle sue versioni
più radicale, anche quello dei Science
and Technology Studies è un approccio che mostra alcuni limiti. Il primo
dei quali è (sembra essere) quello di non spiegare il carattere universalistico
della “costruzione sociale scienza”. Il consenso razionale d’opinione degli
scienziati produce verità sul mondo naturale, ancorché intersoggettive e
provvisorie, piuttosto solide. E produce tecnologie piuttosto efficaci.
Una nuova sintesi, che tenta
di rendere conto sia dell’universalità tendenziale e, dunque, dell’oggettività
(o meglio, della solida intersoggettività) della scienza sia delle reciproche
influenze tra scienza e resto della società, è quella dei campi di Pierre
Bourdieu. Secondo il francese, che agisce nell’agone scientifico è sottoposto a
due diverse forze di campo: quelle del campo scientifico e quelle del campo
temporale (ovvero del potere, politico ed economico). Ogni agente risente in
maniera abbastanza diversa di questi campi. Probabilmente occorrerebbe
aggiungere un terzo campo ai due di Bourdieu, quello ideologico, che tiene
conto anche delle influenze culturali (dei pregiudizi metafisici, direbbe
Einstein) che si esercitano su ogni scienziato. Ma, al netto di tutto questo,
la sintesi di Pierre Bourdieu è molto esplicativa e bene hanno fatto Cerroni e
Simonella a concederle molto spazio.
Nella seconda parte del libro troviamo l’altra faccia della sociologia della scienza, quella che si interessa dei rapporti tra scienza e società. L’attenzione, in questa seconda parte, è dedicata alla politica della ricerca e alla comunicazione pubblica della scienza. Per la prossima edizione, suggeriamo un ulteriore capitolo: quello sull’economia globale della conoscenza, che ha assunto, come Cerroni e Simonella rilevano, un rilievo assoluto e le cui due gambe (produzione in sé di nuova conoscenza; innovazione tecnologica fondata sulle nuove conoscenze) sono, appunto, gambe scientifiche.
Nella terza parte, infine, il
libro cessa di avere un approccio essenzialmente storico e assume una
dimensione essenzialmente teorica. Propone, in altri termini, un modello per
spiegare il presente e fare previsioni sul futuro.
Il modello è piuttosto
complesso. Integra la scienza nell’ambito della knowledge society, la società della conoscenza nella quale viviamo,
e indica le due forze che ne dirigono l’innovazione: da un lato i cittadini knowledge-able, ovvero cittadini che
hanno sempre più conoscenza sia bisogno di conoscenza; dall’altro gli scambi
economici e simbolici che correlano tra loro i cittadini nella loro vita
sociale. Il possesso e il bisogno di conoscenza è, sempre più, di conoscenza
scientifica.
Gli scambi economici e simbolici tra le persone hanno, sempre più,
una componente scientifica. Queste due forze generano una circolazione della
conoscenza che ha sempre più canali con portata sempre maggiore. È questa
circolazione della conoscenza, astratta e oggettivata, che fa della nostra la
società della conoscenza. Rimodulando i rapporti tra la repubblica della
scienza, non più completamente autonoma, ma tutt’altro che dissolta, e la
società. E rimodulando il modo di lavorare degli scienziati nella repubblica
della scienza, sottoposti come sono a due forze la cui intensità è
drammaticamente mutata. Da un lato la forza – ora economica, ora politica, ora
culturale – che spinge verso una closed
science, ovvero verso un modello di
sviluppo scientifico dove le conoscenze sono appropriabili e rivali.
Dall’altro
la forza – auspicabilmente e probabilmente vincente – che ha un’origine sia
interna che esterna alle comunità scientifiche e che spinge verso la open science, una scienza bene comune
che appartiene a tutti e che tendenzialmente produce benefici, per dirla con
Francis Bacon, non per questo o per quello, ma per l’intera umanità.