La recente revisione del Codice deontologico dei medici italiani ha rimesso mano, tra l’altro, alla delicata questione delle decisioni di fine vita, nell’ipotesi che la persona destinata ad attraversare il confine non sia più in grado di esprimere la propria volontà. Dobbiamo registrare un cambiamento di prospettiva rispetto al Codice precedente. Prima di valutarlo - è un progresso o una regressione? – è opportuno rievocare il contesto in cui sorge la questione di che cosa sia giusto/opportuno fare quando il paziente non possa intervenire attualmente nel processo decisionale.
Sappiamo che ai nostri giorni le risorse della medicina
possono tenerci per un tempo indefinito in una condizione di sopravvivenza
biologica, a cui non corrisponde un desiderio di prolungarla. L’avaro Scrooge,
protagonista del Canto di Natale di
Dickens, è indotto a cambiar vita soprattutto da un insight: lo spirito-guida, facendogli apparire davanti agli occhi
lo scenario futuro, gli mostra l’arraffamento dei suoi beni al momento della
morte.
E’ facile immaginare quali insights
produrrebbe lo stesso spirito-guida in noi, evocandoci le scene che possono
aver luogo intorno al nostro letto nel segmento finale della vita: medici e
familiari che si disputano il diritto alle decisioni; familiari che litigano se
e fino a che punto spingersi con gli interventi di sostegno vitale. Non so se
ci fanno più paura coloro che fossero intenzionati in
senso malevolo nei nostri confronti o coloro che - per motivi alti, nobili e
filantropici – decidessero di tenerci in vita come e per quanto tempo noi non
vorremmo.
I casi estremi, come quello attuale di Vincent Lambert in Francia, che vede
metà della famiglia schierata contro l’altra (e, come se non bastasse, il
Consiglio di Stato francese contro la Corte europea dei Diritti dell’uomo), non sono che la parte emergente di un iceberg
che percorre quotidianamente le acque delle rianimazioni e dei reparti di terapia intensiva…
Scossi da questi nuovi incubi, gli Scrooge dei nostri giorni
sono indotti non a conversioni natalizie, ma a predisporre uno scenario che
guidi le scelte finali. Preferiscono mantenere il controllo su queste
decisioni, piuttosto che affidarle alla coscienza professionale dei sanitari o
alla cura, ancorché amorosa, dei propri familiari. In questo contesto nasce il
tema delle direttive anticipate. Che non sono un “testamento” (anche se
qualificato come “biologico”): non riguardano ciò che avverrà dopo la nostra
morte, ma sono istruzioni relative alla modalità stessa del morire.
L’accoglienza di tali volontà previe nel quadro delle norme deontologiche che
regolano i rapporti tra i medici e i cittadini è stata laboriosa. Vi si
opponeva il modello etico tradizionale, che affidava al medico il compito di decidere, “in scienza
e coscienza”, ciò che costituiva il bene del malato. La voce di questi non
aveva diritto di cittadinanza, e non era previsto un ascolto sistematico delle
sue preferenze. Inoltre l’individuo era visto come parte costitutiva della
famiglia, alla quale andava la priorità nelle informazioni e nelle indicazioni
di cura.
L’accoglienza del principio etico di autodeterminazione (secondo la
formulazione dell’OMS, “Niente su di me, senza di me”) ha aperto una breccia.
Progressivamente anche le volontà espresse precedentemente alla perdita della
capacità di esprimerle sono state legittimate dal Codice deontologico.
Non senza resistenze. La redazione del 1998 esprimeva l’imbarazzo dei medici con una doppia negazione: “Il medico non può non tener conto di quanto precedentemente manifestato dal malato” (art. 34). Nella rielaborazione successiva del Codice, nel 2006, veniva fatto un passo avanti, superando ogni possibile tergiversazione: “Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tener conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato”: questa era la formulazione dell’art. 38, significativamente intitolato: “Autonomia del cittadino e direttive anticipate”.
Che cosa troviamo nella versione 2014 del Codice?
L’art. 38 ha
cambiato titolo; si presenta come “Dichiarazioni anticipate di trattamento”.
L’autonomia del cittadino (sostituito nel resto del Codice con la qualifica di
“persona assistita”, dizione più morbida, che non fa rima con diritti…) è
lasciata cadere come zavorra. E le direttive diventano “dichiarazioni”. Che
suonano come wishful thinking. Tanto
più che il medico, nel tenerne conto, “verifica la loro congruenza logica e
clinica con le condizioni in atto e ispira la propria condotta al rispetto
della dignità e della qualità della vita del paziente”. Quindi le direttive,
declassate a dichiarazioni, sono sottoposte all’ulteriore discrimine del
medico, il quale valuterà se rispettano la “dignità” e la “qualità di vita” del
malato. Se qualcun altro è autorizzato a decidere se un trattamento rispetta la
mia dignità e la qualità della mia vita, vuol dire che la voce in
capitolo che mi era riconosciuta è stata
revocata. Il pendolo ha fatto un giro ed è tornato a battere dalla parte della
“scienza e coscienza” del medico.
Per maggiore sicurezza (del medico, ovviamente), lo stesso articolo del Codice
prevede che le dichiarazioni anticipate di trattamento siano tenute in
considerazione solo se “espresse in forma scritta, sottoscritta e datata da
parte di persona capace e successive a un’informazione medica di cui resta
traccia documentale”. Verrebbe da aggiungere: non è stata forse dimenticata la
marca da bollo? Così la deontologia medica, sempre più chiaramente piegata in
funzione difensiva, in vista di possibili contenziosi giudiziari, assomiglia più a un rapporto
burocratico che alla tanto declamata alleanza terapeutica. E gli Scrooge del
nostro tempo immaginano con raccapriccio intorno al proprio letto non coloro
che si litigano le suppellettili, ma un gran via vai di avvocati e giudici. E
se anche si decidessero a prendere in mano la propria vita, si sentono privati
di uno strumento efficace per fornire delle volontà previe come guida alle
decisioni.
Era necessario un cambiamento del Codice deontologico in
questo senso? Dopo la progressiva accettazione delle volontà previe registrata
dai Codici del 1998 e del 2006, ora una vistosa retromarcia.
Due passi avanti e
uno indietro, appunto. Che ballo è questo?