Tra i
vari disturbi del sistema nervoso che stanno oggi sollecitando la ricerca di
base, le dipendenze costituiscono senza dubbio uno dei casi di studio più
interessanti, per diverse ragioni. Una importante tra queste è che le
dipendenze rappresentano il disturbo del comportamento per il quale è
disponibile la maggiore quantità di dati sperimentali, dalla ricerca
molecolare, genetica e neurofarmacologica sui modelli animali sino agli studi di
neuroimmagine sull’uomo o alle nuove
indagini di neuroscienze cognitive e sociali. È in questo caso possibile
costruire spiegazioni che integrano praticamente tutti i livelli a cui è
possibile riportare i fattori e i meccanismi che sembrano determinare questa
condizione patologica.
La
ricerca neurobiologica, l’utilizzo della Psicofarmacologia e di strumenti
neurotecnologici per lo studio e l’intervento sulle dipendenze hanno inoltre un
profondo impatto sociale e politico, perché riguardano il controllo volontario
del comportamento, il grado di autonomia e responsabilità, la loro misura e il
loro giudizio: gli elementi che definiscono un agente morale e un essere
sociale, e che costruiscono altresì il tessuto, i vincoli e i reciproci limiti
delle relazioni tra persone, valori, norme giuridiche: tra individuo e società.
In questo scritto cercheremo di analizzare alcuni aspetti controversi delle
concettualizzazioni neurobiologiche delle dipendenze, discutendone le
implicazioni a livello delle strategie di intervento in clinica e l’impatto sul
piano sociale e politico.
Malattia della dipendenza o patologia del cervello
Il DSM-V
e l’ICD-10, i testi di riferimento internazionale per la diagnosi psichiatrica,
indicano il segno cardinale della dipendenza nell’uso compulsivo di una
sostanza a dispetto della consapevolezza delle conseguenze avverse, in sostanza
la perdita del controllo volontario e cognitivo del comportamento. Molto ci
sarebbe da dire sul carattere problematico dei concetti di compulsione e di perdita
del controllo del comportamento applicati in ambito medico.
Si tratta di idee
che attengono alla dimensione morale e hanno a che fare con norme e valori
culturalmente stabiliti, certamente non con tratti e parametri somatici.
Inoltre i concetti di compulsione e perdita del controllo del comportamento
sono controversi anche all’interno del dibattito etico. Non esiste una
definizione univoca e concorde di queste due idee e probabilmente non potrà mai
darsi, perché il loro significato è determinato dalla rete costantemente
cangiante di nodi semantici che sostanziano i giudizi morali. Per il momento
proviamo ad assumerli come pacifici.
Dipendenza come malattia del cervello
Gli straordinari progressi che le Neuroscienze
hanno compiuto negli ultimi trent’anni hanno contribuito a far luce su alcuni
dei meccanismi cerebrali implicati nelle dipendenze giungendo a un modello di
spiegazione seducente perché suffragato sia da evidenze sperimentali sui
modelli animali, sia dai suggestivi reperti ottenuti con le nuove tecniche di
visualizzazione in vivo delle funzioni del cervello umano. Questi
strumenti di indagine sembrano dimostrare caratteristiche alterazioni
funzionali e anche strutturali, per questo croniche, cui va incontro il
cervello dei soggetti che vivono la condizione della dipendenza.
La dipendenza come malattia è per questo diventata una patologia cronica
del cervello. Il modello concettuale della dipendenza come malattia cronica del
cervello, d’ora in poi MDMCC, è probabilmente compendiato al meglio da un
citatissimo articolo di Alan Leshner uscito nel 1997 su Science.
All’epoca direttore del National Institute of Drug Abuse statunitense,
il più gran- de ente mondiale per lo studio e l’intervento sulle
tossicodipendenze, Leshner scriveva che nei soggetti vulnerabili l’uso
prolungato di sostanze modifica le strutture e le funzioni del sistema nervoso
centrale tanto da far scattare “un interruttore metaforico nel cervello”
che porta alla “condizione di dipendenza, caratterizzata dalla ricerca e
dall’uso compulsivo” (Leshner 1997).
Le basi neuroscientifiche del MDMCC
Le numerose teorie che oggi tentano di dar conto
delle basi neurobiologiche della dipendenza prevedono tutte alterazioni al
sistema di ricompensa cerebrale, un apparato complesso che collega le regioni
profonde del cervello deputate al controllo dei parametri vitali, le regioni
della corteccia frontale, passando attraverso i centri cerebrali che mediano
l’esperienza soggettiva del piacere, e la componente affettiva delle
motivazioni e degli appetiti.
A descrivere esemplarmente le funzioni del sistema di ricompensa cerebrale e i
suoi meccanismi neurofarmacologici è stato un elegante esperimento di Wolfram Schultz.
La dopamina è il
neurotrasmettitore che interconnette nuclei e vie di questo sistema. Con un
apparato intracerebrale, Schultz ha dimostrato sulla scimmia che il sistema
dopaminergico viene attivato quando l’animale ottiene una ricompensa, in questo
caso un sorso di succo di frutta, subito dopo aver risolto un compito
cognitivo. Ma quando la scimmia apprende questa associazione, il sistema
dopaminergico finirà per attivarsi fin dal momento in cui inizia il compito. La
dopamina quindi nella prima fase marcherebbe l’ottenimento della ricompensa,
favorendo l’apprendimento dell’associazione tra stimoli, comportamenti e
premio. Ma, dopo l’apprendimento, essa diventerebbe un segnale predittivo di
ricompensa, innescando, in presenza degli stimoli appresi, i comportamenti
associati all’ottenimento della ricompensa stessa. In altre parole, la dopamina
sembra mediare inizialmente il piacere, per poi farsi segnale del desiderio,
rendendo efficienti, pronti e talora auto- matici, i comportamenti utili a
ottenere le ricompense, sottraendoli all’intervento regolatorio della corteccia
prefrontale.
Un principio di economia evolutiva. In ambiente ancestrale, dove le risorse
erano scarse, volatili e soggette a feroce competizione, era utile agire
impulsivamente in presenza di stimoli predittivi di una ricompensa, cioè
soddisfare una motivazione biologica senza dover riflettere e rischiare di
perdere l’opportunità.
Gli studi sperimentali sui comportamenti d’abuso e
le dipendenze hanno accertato che tutte le sostanze d’abuso, compreso tabacco e
alcol, provocano un rilascio forzato di dopamina. Le sostanze farebbero così
scattare un segnale di ricompensa determinando l’apprendimento tra stimoli
associati al loro uso, ricompensa, comportamenti consumatori. Nei soggetti
vulnerabili, il consumo reiterato di sostanze produrrebbe la saldatura
dell’associazione tra gli stimoli che segnalano o ricordano la sostanza e
l’innesco dei comportamenti consumatori. A questo punto, secondo una metafora
assai diffusa anche in letteratura scientifica, il sistema dopaminergico
sarebbe “sequestrato”.
Il desiderio appreso diventerebbe per questo un appetito
intrusivo, irresistibile, una tensione affettiva che viene indicata col termine
di craving. Ciò impedirebbe al soggetto di controllare volontariamente
il suo comporta- mento rispetto alla sostanza, determinando così la condizione
compulsiva: la dipendenza.
La cronicità e i reduci del Vietnam
Uno degli aspetti critici del MDMCC riguarda l’idea
della cronicità. Un soggetto dipendente sarebbe per sempre dipendente.
Una straordinaria dimostrazione dell’inconsistenza dell’idea di DMCC è
stata data dalle estensive ricerche di Lee
Robins sui reduci della guerra del Vietnam [1].
Le ricerche di Lee Robins sulle truppe statunitensi impegnate nella
guerra del Vietnam avevano appurato che circa la metà dei soldati faceva uso di
eroina e che il 20% aveva sviluppato dipendenza. Contrariamente alle attese
però, nel follow up condotto l’anno successivo al rimpatrio, Robins
accertava che solo il 12% dei soldati dipendenti restava tale, un dato che
veniva confermato in uno studio di due anni dopo.
Che cosa era successo? Perché questi soldati erano usciti dalla
dipendenza, spesso senza far ricorso a trattamenti? Nelle interviste fatte da
Robins emergeva un fatto particolare: i reduci dicevano di aver smesso perché
il contesto era cambiato. Al fronte sembrava lecito e serviva ad attenuare
l’ansia, lo stress, la fatica, talora il dolore. In patria l’uso di eroina
invece era associato ad ambienti sordidi, all’illegalità, e costituiva un
comportamento fortemente stigmatizzato. Prima del cervello e dei meccanismi
molecolari del sistema di ricompensa era cambiato quello che Norman Zinberg ha chiamato il set,
l’ambiente d’uso, e il setting, le finalità, il significato dell’uso di
una sostanza [2].
Il caso
dei ratti aggiogati
Dunque la dipendenza sembrerebbe anche espressione dell’ambiente, della
cultura, dei valori, delle finalità e delle aspettative del soggetto, sicché
per comprenderla bisognerebbe sollevarsi sopra il livello neurofarmacologico.
Ma, per dimostrare l’incompiutezza di un approccio riduzionistico al problema e
dimostrare che la dipendenza richiede comunque un comportamento intenzionale che
coinvolge tutto il corpo, non la sola interazione tra cervello e agente
psicoattivo, scendiamo invece al più basso livello dei protocolli sperimentali
della Neurofarmacologia comportamentale, quello dei ratti cosiddetti
“aggiogati”.
Esso tipicamente prevede due animali con catetere endovenoso che veicola
una sostanza psicoattiva, ma entrambi in ambienti separati e diverse modalità
di somministrazione: uno la ottiene attivamente premendo una leva o un bottone,
l’altro invece, l’animale aggiogato, la riceve passivamente quando il primo si
autosomministra [3]. Il primo tende a sviluppare un consumo compulsivo, a
diventare così dipendente. L’animale aggiogato invece va incontro a tolleranza
e dipendenza fisica (sino a manifestare sintomi di astinenza), ma senza
comportamenti compulsivi. Talora gli animali “aggiogati” presentano addirittura
comportamenti avversivi verso la sostanza ricevuta passivamente e dunque
risultano protetti verso l’induzione di forme di dipendenza da quella stessa
sostanza [4]. Ciò conferma sperimentalmente quanto già noto nella clinica del
dolore: pazienti sottoposti a cure antidolorifiche di morfina diventano
tolleranti e fisicamente dipendenti, ma non morfinomani.
Se però la terapia del dolore è liberamente gestita dai malati stessi il
rischio di dipendenza/consumo compulsivo diventa molto alto.
La perdita del controllo e l’irresistibilità del craving
Dunque la dipendenza non sembra una malattia cronica e non sembra dipendere solo dall’interazione tra cervello e sostanza. Ma se si guarisce, e spesso si guarisce da sé, e se l’ambiente e il comportamento possono contribuire a determinare la dipendenza e l’intensità del craving e della compulsione, allora qual è la natura e la dimensione della perdita del controllo del comportamento? Quanto è in questione la dimensione dell’autonomia e della volontà? Se la dipendenza è una malattia allora la volontà e l’autonomia dovrebbero essere poste fuori gioco. Le persone affette da malattie del cervello come il morbo di Alzheimer o di Parkinson, o le sindromi schizofreniche non sono in grado di esercitare nessuna forma di controllo sui sintomi, mentre studi in clinica e di tipo etnografico hanno dimostrato che i soggetti dipendenti regolano il consumo di sostanze in rapporto a diversi fattori, come il prezzo, la situazione, l’opportunità, le condizioni dell’umore, i livelli di stress, l’impegno in altre attività e così via.
Due giudizi esemplari: il caso Powell e quello di Trieste
Verso la fine del dicembre 1966, Leroy Powell venne arrestato ad Austin,
Texas, con l’accusa di ubriachezza in luogo pubblico, dichiarato colpevole in
prima istanza e condannato a versare 20 dollari allo Stato. Il suo avvocato
ricorse in appello sulla base di una lunga perizia redatta dallo psichiatra David Wade, sostenendo che
Powell era “affetto dalla malattia cronica dell’alcolismo” e quindi un “bevitore
involontario”, con “una incontrollabile pulsione al bere”: una
persona, come diceva Wade, che aveva perduto “la forza di volontà per
resistere al costante ed eccessivo consumo di alcol”.
La seduta di appello era nel pomeriggio e, autorizzato dal suo avvocato,
Powell aveva bevuto la mattina un bicchiere per calmare l’ansia e i tremori
delle mani, tipici sintomi dell’alcolismo.
Di seguito un estratto del verbale del processo:
G: Lei ha
preso quel singolo bicchiere alle otto di stamane perché voleva bere?
P: Sì, signore.
G: E lei sapeva che se lo avesse bevuto avrebbe potuto continuare a bere e
arrivare a ubriacarsi?
P: Beh, sapevo di dover venire qui al processo e quindi non ho bevuto che quel
bicchiere.
G: Lei sapeva che doveva venire qui questo pomeriggio, ma questa mattina ha
preso un bicchiere e quindi sapeva che non poteva permettersi di berne altri e
venire in tribunale; è così?
P: Sì, signore, è giusto.
G: Perché lei sapeva che se avesse continuato a bere si sarebbe alla fine
ubriacato e sarebbe dovuto venire qui sostenuto da qualcuno?
P: Sì, signore.
G: E lei non voleva che ciò accadesse oggi?
P: No, signore.
G: Non oggi?
P: No, signore.
G: Così lei ha bevuto un solo bicchiere oggi?
P: Sì, signore.
Come giustamente si immagina, Powell fu condannato
a una multa ancora maggiore: 50 dollari [5].
Nel marzo del 1968 Leroy Powell faceva quindi appello alla Corte Suprema
degli Stati Uniti, che a maggioranza decideva per il suo rigetto.
Recentemente Sally Satel e Scott Lilienfeld hanno sostenuto che,
proba- bilmente, oggi l’avvocato e il perito di parte di Powell avrebbero
portato in tribunale una risonanza magnetica funzionale [6] quale “riscontro
neurologico” del suo craving: riduzione della normale attività della
corteccia prerontale e sua iperattivazione davanti agli stimoli legati all’alcol.
E che, con altrettanta probabilità, il giudizio della corte sarebbe stato
ribaltato. D’altronde, per la prima volta in Italia e in Europa, una sentenza
emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Trieste il 18 settembre 2009 ha
ridotto la pena erogata in primo grado a un imputato d’omicidio ritenendolo
incapace di intendere e di volere in quanto portatore di una variante genica e
caratterizzato da neuroimmagini correlabili a comportamenti impulsivi e
violenti [7].
Ma quanto ha senso usare le evidenze di studi sulle attivazioni
cerebrali per capire se una persona ha o meno il controllo sulla pulsione a
ripetere un determinato comportamento? Un soggetto è dipendente se si comporta
come tale, non per le condizioni del cervello rilevate nel momento in cui una
macchina misura il metabolismo differenziale delle aree del suo cervello.
Che
il cervello sia coinvolto nella mediazione del comportamento è cosa ovvia. E
per questo il brain imaging, se vogliamo chiamarlo in causa, attesta
comunque anche l’esistenza di correlati neurali della capacità di modulare
volontariamente la pulsione al consumo di una sostanza nei soggetti dipendenti.
Studi fMRI (risonanza magnetica funzionale) dimostrano che i tabagisti
addestrati a pensare alle conseguenze a lungo termine del fumo sono in grado di
ridurre le risposte cerebrali indotte da uno stimolo innesco [8]. Istruzioni
del genere sembrano ridurre l’attivazione della corteccia orbito- frontale e
del nucleo accumbens e dunque l’intensità dell’appetito verso la cocaina
[9]. Lo stesso dicasi per studi di neuroimmagine ancora più recenti
sull’aumento delle capacità di autocontrollo verso la sostanza dovuto alla mindfulness,
una tecnica nata dalla meditazione buddista Vipassana sullo sviluppo della
consapevolezza del sé, degli stati percettivi e mentali [10].
Tutto ciò sembrerebbe indicare che la dipendenza viene mantenuta non
perché sia venuto meno il controllo volontario, ma probabilmente come effetto
dello sbilanciamento tra motivazioni e incentivi. Come abbiamo visto, d’altra
parte, la dipendenza descritta negli studi sulla Neurobiologia del
comportamento è il risultato patologico di un condizionamento operante mediato
dal sistema di ricompensa cerebrale. Meglio riportarla, dunque, agli schemi
interpretativi con cui il behaviorismo ha descritto la formazione dei
comportamenti nell’animale e nell’uomo, com’è confermato dagli elevati tassi di
efficacia della cosiddetta gestione delle contingenze per ottenere e mantenere
l’astinenza nella clinica delle dipendenze attraverso la somministrazione di
ricompense e punizioni [11].
Sui pericoli del MDMCC nella ricerca, in clinica e a livello sociale
Focalizzandosi su un organo e su meccanismi di tipo biologico
suscettibili di indagine sperimentale, quantitativa, il modello MDMCC sembrerebbe
avere il vantaggio di rendere fattibili interventi terapeutici mirati, di
natura farmacologica o fisica, come per esempio la stimolazione cerebrale, più
aperti di altri a una valutazione obiettiva dell’efficacia basata sulle
evidenze.
Ciò detto, resta vero che tutte le forme di dipendenza sono
manifestazioni complesse, espressione di determinismi e dinamiche causali che
abbracciano molti diversi livelli, reciprocamente interagenti: da quello
molecolare a quello sistemico, dal piano dell’esperienza soggettiva a quello
delle relazioni, rette da norme morali o giuridiche. Soggetto e oggetto delle
dipendenze è quindi la persona, non solo il suo cervello, ed è per questa
ragione che il recupero da questa condizione si realizza solo quando
l’individuo che ne soffre decide di modificare il suo rapporto con la materia
della sua dipendenza e mantiene e rinnova questa scelta nel tempo. Sia chiaro:
non si sceglie di diventare dipendenti. Si sceglie tuttavia di bere ogni volta
un bicchiere di alcol, di accendere quella singola sigaretta, di tirare una
striscia di cocaina in una determinata occasione.
Nel tempo, le scelte contingenti ma reiterate hanno un effetto incrementale e
cumulativo sulle dimensioni del controllo di un comportamento che tende a
essere ripetuto. Per taluni soggetti l’apprendi- mento mediato dalla ricompensa
che porta alla dipendenza finisce per rendere assai precario l’autocontrollo.
Come abbiamo visto, però, un margine residuo di scelta sopravvive, e anche
attraverso scelte contingenti di ordine diverso l’autocontrollo potrà essere in
parte o del tutto ristabilito, riportando il sistema nervoso indietro verso i
regimi funzionali.
Ma il MDMCC nega in linea di principio la volontà e le capacità di auto-
determinazione dei soggetti che vivono la dipendenza, sottraendo loro così le
competenze cognitive ed etiche centrali nel percorso di recupero.
Enfatizzando la predisposizione biologica e la cronicità dei suoi effetti sul
cervello esso avvalora l’idea che tutto è dovuto “ad alterazioni neurobiologiche
per- manenti. Sono un malato che non può guarire”. Può darsi che così si possa
ridurre la stigmatizzazione sociale della dipendenza e facilitare la richiesta
di aiuto da parte di chi ne è affetto. Ma solo a costo d’indurre in costoro un
atteggiamento passivo e pessimistico, come sembrerebbe confermato da molte
indagini sugli effetti della concezione biomedica nella cura dei disturbi del
comportamento [12]. D’altronde la letteratura scientifica sembra vice- versa
indicare che con il MDMCC lo stigma non viene affatto rimosso, ma solo
dislocato dal piano morale a quello biologico [13], rischiando di conferirgli
una forma ancor più radicale e temibile: la paura e il pregiudizio verso chi è
portatore di una tara fisica di cui è ancora ignota la causa e per cui non
esiste una cura.
Ciò dovrebbe sollecitare un più intenso coinvolgimento dei ricercatori
nella comunicazione e nel pubblico dialogo sui temi della dipendenza. I media
infatti tendono a semplificarli e a fare appello all’emotività.
Una più
accurata descrizione della complessità delle dipendenze, un’informazione più
neutra e diffusa, una discussione pubblica capace di integrare livelli di
spiegazione diversi, dalla Neurobiologia alla società, rappresentano pertanto
obiettivi culturali prioritari e impellenti. Perché contribuirebbero a combattere
l’esclusione dei soggetti dipendenti e servirebbero a ridurre l’articolata
costellazione dei sintomi di cui soffrono, che, come abbiamo visto, procedono
dal costante e mutuo rimando causale tra disfunzioni sociali e alterazioni del
cervello.
di STEFANO CANALI
Tratto da Scienza & società (21-22) - Il cervello non è una macchina, Centro PRISTEM-Università Bocconi e Editore Egea
Bibliografia
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