Manca poco al vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile di Rio de Janeiro da cui dovrebbe uscire la visione del “futuro che vogliamo”. Così si chiama con qualche prosopopea la bozza del trattato delle Nazioni Unite che i capi di Stato firmeranno all'ombra del Corcovado. Gli sherpa sono al lavoro per trovare un punto di incontro fra cancellerie scettiche ed entusiaste. Obama, Merkel e Cameron pare non andranno. Gli ecologisti brontolano per le misure troppo soft. Ma il futuro è lì, implacabilmente davanti a noi, volenti o nolenti. E il suo colore è il verde.
Sfamare i 9 miliardi di persone che abiteranno il pianeta nel 2050, tenendo sotto controllo le emissioni climalteranti, facendosi bastare l'acqua a disposizione (il 70% va attualmente in irrigazione) e senza trasformare la Terra in un immenso slum circondato da discariche non sarà un gioco da ragazzi. Ci abbiamo già provato vent'anni fa sempre a Rio de Janeiro con una convenzione che ha avuto il merito di porre il problema della crisi del pianeta (clima, biodiversità e desertificazione) e abbozzare qualche rimedio. Da lì è nato infatti il movimento dell'Agenda 21, che ha dato vita a qualche esperimento interessante di sostenibilità ambientale, soprattutto nelle amministrazioni del Nord Europa. Sempre da Rio è partito il processo culminato nel 1997 nel protocollo di Kyoto per riportare sotto controllo il riscaldamento globale. Ma, insomma, fatti tutti i conti, non ce l'abbiamo fatta. E la bozza del nuovo trattato lo ammette. Da allora le emissioni di CO2 sono cresciute del 45%. E – salvo rivoluzioni - aumenteranno ancora, visto che nel mondo una persona su cinque non ha l'energia elettrica, e la reclamerà. Da qui a metà secolo si stima che la produzione agricola necessaria per sfamare il mondo dovrà crescere del 70%. Entro il 2030 il 60% delle persone vivrà in megalopoli malsane. Già oggi sono 33 le città che superano gli otto milioni di abitanti. Ed è soprattuto qui che vivono i 2,6 miliardi di persone che non hanno accesso ai servizi igienici di base. Sull'accesso all'acqua potabile qualche progresso c'è stato: dal 1990 a oggi più di un miliardo e mezzo di persone ha infatti conquistato almeno un rubinetto di villaggio. Ma 884 milioni mancano ancora all'appello. La loro vita si consuma in interminabili viaggi con un secchio sulla testa alla ricerca di un pozzo.
A differenza del 1992 la situazione economica e finanziaria globale è pessima, i soldi mancano, la miseria rialza la testa, con 1,3 miliardi di persone che guadagna meno di 2 dollari al giorno. I disoccupati nel mondo sono 190 milioni, e mezzo miliardo cercherà lavoro nei prossimi dieci anni. Che fare? Può la crisi trasformarsi in opportunità? E' questa la scommessa di Rio+20. Gli ecologisti fricchettoni di allora sono maturati e hanno capito che se non coinvolgono il businness, la borsa e il commercio internazionale si fa solo folklore. Il miracolo da compiere consiste ora nel mettere d'accordo i tre vertici del “triangolo del cambiamento”: la gente, la politica e le imprese. E la green economy, piaccia o no, è la parola chiave di Rio+20. Per questo negli incontri preparatori del summit di questi mesi si cerca di dare sostanza a una vera economia verde. Da un lato con incentivi che diano alle imprese nuova linfa per fare davvero il salto nell'efficienza e nell'ecoinnovazione. Dall'altro con tasse sullo spreco di risorse naturali e sulle emissioni.
Molte imprese si stanno già preparando a questo cambio di marcia. Marco Frey, che insegna al Sant'Anna di Pisa e dirige il Global Compact Network Italia racconta che sono già 10mila le imprese che nel mondo hanno sottoscritto il patto per un'economia più sostenibile e inclusiva lanciato da Kofi Annan, e che a Rio presenteranno le storie di successo. “Non subito, ma alla lunga puntare sulla sostenibilità dà all'azienda un vantaggio competitivo, ne accresce il valore”. Il trucco, insomma, è convincere anche il mondo dell'economia che il rispetto del “capitale naturale” conviene e dà lavoro, come dimostrano i 2,3 milioni di posti generati negli ultimi tre anni dallo sviluppo delle rinnovabili. Solo in Italia, la detrazione fiscale del 55% sulle spese per il risparmio energetico ha prodotto 17 miliardi di euro di investimenti e 200mila posti di lavoro, mentre altrettanti evaporavano dal terziario e dall'industria decotta.
Rio punta anche sull'agricoltura e la sicurezza alimentare. Un miliardo di persone è affamata, e l'80% del cibo che viene consumato dai Paesi sviluppati dipende da 500mila piccole aziende agricole a conduzione familiare, sempre in bilico fra miseria e autosostentamento. Ma sono loro i presidi della biodiversità agricola. Quando facciamo l'orto o parliamo di chilometro zero in realtà ci ispiriamo a quel modello che fino alla generazione scorsa guardavamo con commiserazione. Possiamo togliere all'agricoltura tradizionale le stimmate del sottosviluppo? Bisognerà trovare modi sempre più ingegnosi per riciclare l'acqua da usi igienici in agricoli, inventare sistemi di irrigazione più efficienti, coltivare dentro e non al posto delle foreste, e forse anche sdoganare le biotecnologie verdi che possono migliorare produttività e resistenza delle specie. Anche su questo Rio dirà la sua.
Poi la gente, i consumatori. Se non cambiano loro l'economia non cambia. Prima di tutto a tavola, perché, come mostra uno studio sull'impronta ecologica dei consumi elaborato dall'Agenzia europea dell'ambiente, un terzo delle risorse del pianeta se ne va in cibo. E fa la differenza se nel piatto c'è un chilo di bistecca di manzo (11mila litri d'acqua virtuale per produrla) o un piatto di pasta e verdura (500 litri). La differenza la si fa anche in casa, visto che l'edilizia è responsabile del 35% delle emissioni di gas serra, fra condizionamento, riscaldamento, elettricità e materiali. E poi i trasporti. Le aziende automobilistiche già si stanno adeguando lanciando nuovi modelli ibridi ed elettrici. Ma la crescita della popolazione mondiale fa sì che i progressi in efficienza e pulizia dei motori venga vanificata dall'aumento delle auto circolanti. Le città del futuro (così come quelle del passato, peraltro) non sono a misura di auto ma di bicicletta e mezzi pubblici. Facciamocene una ragione. Infine il turismo: è eclatante la differenza di impronta ecologica fra un all inclusive ai tropici e la riscoperta dei centri storici dietro casa, misurabile in migliaia di tonnellate di andride carbonica. La CO2: è questa la nuova moneta, non l'euro, il dollaro o lo yuan.
Speriamo che il “futuro che vogliamo” sia più o meno come se lo immaginano a Rio: una globalizzazione ben temperata.
Pubblicato su L'Espresso del 07/06/2012