Sul mio tavolo di lavoro, da circa un mese, campeggia il
tomo “Medicina del lavoro”, per scrivere il quale Pier Alberto Bertazzi ha impegnato e coordinato altri 33 autori,
ottenendo un riepilogo la disciplina tanto completo quanto snello; ma cosa ci
fa un libro di medicina del lavoro sulla scrivania di un medico di medicina
generale? Un primo, ottimo, motivo è che nessuno è affine al medico del lavoro
più del medico di famiglia, se è vero, com’è vero, che il lavoro è la parte più
consistente dell’individuo e, quindi, della sua salute.
L’altro motivo è che questo libro deve costituire il
visibile monito a esercitare la curiosità. Il primo atto che è tenuto a
compiere il medico, nel momento dell’incontro con il paziente, è, infatti,
interrogare: tuttavia, senza una profonda curiosità professionale (e, insieme,
umana), l’anamnesi è destinata a essere un rituale che non porta né conoscenza
né contributo alla ricerca delle cause.
Per quale motivo una persona si ammala? Magari la colpa è del
destino cinico e baro, ma, a ben cercare, questo destino si manifesta, in modi
spesso intricati, sotto forma di geni mal assortiti o di abitudini voluttuarie
da cui è diventata dipendente o del lavoro che fa o che altri fanno nella
prossimità del suo spazio vitale.
Già alla fine del diciassettesimo secolo, il dottor
Bernardino Ramazzini, citato da Bertazzi, insegnava che alle molte domande che
il medico deve rivolgere al malato per avere la descrizione, la delimitazione e
qualche indizio eziologico del suo malanno, ne va aggiunta una, importantissima:
“Che lavoro fa?”
Non va dimenticato, per converso, che anche non lavorare-
nota sempre Bertazzi- mina la salute: nell’area di Torino, Geppo Costa e Nereo Segnan
hanno stimato più che doppia la mortalità dei disoccupati rispetto a quella
degli occupati. D’altronde, se si tiene per buona la definizione data dall’OMS di
salute come completo benessere fisico, mentale e sociale, il lavoro appare il
più importante
viatico al suo raggiungimento. E alla stessa conclusione dell’epidemiologia
arriva la letteratura: in La chiave a
stella, Primo Levi scrive “L'amare il
proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la
migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra”.
Ciononostante, come molte altre forme d’amore, anche il
lavoro può essere nocivo, ed è qui che la curiosità del medico deve essere
supportata dalla competenza o, almeno, dalla capacità di ravvisare, o
ipotizzare, una nocività occupazionale, per cercare la competenza necessaria.
Le malattie legate al lavoro spaziano, infatti, da quelle osteoarticolari a
quelle respiratorie, da quelle cardiovascolari a quelle da stress psichico; il
medico generalista deve, quindi, tenere in mente la possibilità di un’associazione
tra malattie non ben inquadrabili oppure di comune osservazione e il lavoro
svolto dal paziente; deve raccogliere sempre una particolareggiata anamnesi
lavorativa e avere una conoscenza di base degli agenti chimici, fisici,
biologici e psicosociali che interferiscono con la salute di volta in volta in
veste di irritanti, cancerogeni, tossici o usuranti dei tegumenti, delle
articolazioni, del sistema nervoso o degli apparati.
E qui soccorre il libro curato da Bertazzi, che ne fa una
rassegna dettagliata e facile da consultare. Non manca neppure il percorso
opposto, la disamina, cioè, di come, con quali tempi e con quali cautele il
malato cronico vada reinserito nel processo produttivo o professionale. Infine,
il libro può essere sfogliato in un’ottica non d’immediata fruizione, ma di
appagamento culturale: penso, per esempio, ai capitoli sui meccanismi
patogenetici, a quelli sul lavoro d’ufficio e gli ambienti indoor o a quello
sui migranti.
Non scarseggiano, allora, le ragioni per le quali questo
volume ha trovato una collocazione naturale anche sulla scrivania di un medico
di medicina generale.
Simonetta Pagliani