L’Agenzia
Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (Anvur) ha
presentato il primo Rapporto biennale sullo stato del sistema universitario e
della ricerca. Si tratta di una istantanea che porta alle luce i nostri punti
critici ma anche le eccellenze presenti nel nostro sistema. In circa 500 pagine
sono stati raccolti tutti i dati attualmente disponibili: tra questi il
rapporto tra iscritti e laureati, il funzionamento del sistema 3+2, i percorsi
post laurea, le risorse economiche e la governance degli atenei.
Il sistema universitario italiano è basato prevalentemente su università statali (67 atenei), le quali accolgono
il 92% degli iscritti. A seguito della riforma degli ordinamenti didattici del “3+2”, il numero dei corsi di studio è cresciuto
velocemente fino ai 5.879 corsi del 2008.
A
questa crescita, dal 2009 è seguita una
riduzione di circa 1.200 unità. Stesso tipo di trend ha
riguardato il numero dei comuni sede di corso di studio che è sceso da 162 a 117, nonostante un lieve
incremento di quelli con i corsi delle professioni sanitarie, la cui diffusione
risponde tuttavia a esigenze dettate dal sistema sanitario.
Sempre a rincorrere l’Europa
Nel
2011 sono stati rilasciati 169 mila diplomi di laurea triennale, 87 mila di
laurea magistrale, 27 mila di laurea magistrale a ciclo unico e ancora 17 mila
diplomi del vecchio ordinamento.
Tra
il 1993 e il 2012 la quota dei laureati sulla popolazione in età da lavoro è salita dal 5,5% al 12,7%; tra i giovani
in età compresa tra i 25 e i 34 anni si è passati dal 7,1 al 22,3%. Analizzando
nello specifico la quota dei laureati a partire dal 2000 notiamo un incremento
di 11 punti. Incrementi rilevanti, che mostrano come l’istruzione
terziaria non sia più limitata a una
ristretta fascia di persone, ma sia diventata accessibile ad ampi strati della
popolazione. Come negli altri paesi, anche in Italia si è assistito a una trasformazione dell’istruzione
universitaria, riducendone il carattere elitario e aprendo il sistema verso
quella che è stata definita come università di massa.
Facendo
un confronto internazionale però si
nota come il Bel Paese (22,3%) sia ben lontano dalle medie europee; il Regno
Unito ha una percentuale di laureati intorno al 45%, seguito dalla Francia con
il 42%. Una delle principali cause di questo divario, spiega il rapporto, è l’assenza di corsi di carattere
professionalizzante che nella media europea rappresentano circa un quarto dei
giovani in possesso di un titolo di istruzione terziaria.
Figura 1 – Popolazione 25-34 anni in possesso di un diploma di istruzione terziaria
3+2 spesso non fa 5
Il
ritardo italiano nella porzione di laureati dipende anche dal basso tasso d’iscrizioni tra
i giovani sopra i 25 anni (che forse sono già occupati) e
dalla difficoltà a completare gli studi: su 100 immatricolati solo 55 conseguono
il titolo, a fronte di una media Ocse del 70%. Il tempo medio per il
conseguimento del titolo nei corsi triennali di primo livello è
ben
oltre 5 anni.
Sono
passati quindici anni dall’entrata in vigore del cosiddetto “3+2” (corsi di
laurea di durata triennale seguiti eventualmente da un corso magistrale di
durata biennale). Ma quel “+” è
sempre
più
opzionale.
Secondo il rapporto Anvur, infatti, il passaggio dalla laurea triennale alla magistrale
riguarda poco più del 55% dei laureati, indicando come i corsi di primo e secondo
livello non possono essere più considerati in via generale come
parte di un unico percorso di studio, che ha nella laurea triennale una
semplice tappa intermedia.
La
continuità fra il triennio e il biennio varia a molto a seconda delle aree
disciplinari: assume valori massimi per i laureati in scienze matematiche e
fisiche (superiore all’80%) e valori minimi per l’area medica,
in cui i corsi triennali sono limitati alla formazione infermieristica. Gli
studenti del Mezzogiorno, forse a causa della carenza di posti di lavoro, sono
quelli che di più frequentano il biennio
ma sono anche quelli che completano il triennio con un anno di ritardo rispetto
ai colleghi degli atenei del Centro e del Nord. Questi dati potrebbero
riflettere però un diverso approccio nei primi due anni del corso di studio.
Negli atenei del Nord, infatti, dopo i primi due anni gli studenti conseguono
un più
elevato
numero di crediti formativi: 78 contro 65-66 al Centro e nel Mezzogiorno.
Figura 2 – Tempo medio per il conseguimento
per tipologia di corso, valori totali e per ripartizione geografica A.A
2011/2012
Molti abbandoni, poche chance di restare in università
Quasi
un terzo degli immatricolati lascia o cambia corso di studio dopo il primo
anno. In controtendenza i dati delle lauree a ciclo unico come giurisprudenza e
medicina dove il tasso è molto basso. ”Orientarsi
prima per non abbandonare dopo dovrebbe essere lo slogan nelle Università
italiane. Dobbiamo
aiutare gli studenti ad essere consapevoli della loro scelta per il corso di
laurea”, ha commentato il Ministro della Pubblica Istruzione, dell’Università
e della
Ricerca Stefania Giannini durante la presentazione dei dati.
I dati
sulla dispersione (quasi il 40%) e sul tempo medio per il conseguimento della
laurea mostrano inoltre una bassa produttività del sistema,
con costi diretti e indiretti di difficile quantificazione ma sicuramente
elevati. Basti pensare ai ritardi nell’ingresso nel mondo del lavoro, in
uno scenario nazionale che ha tempi di inserimento dei giovani molto lunghi. I
dati Anvur dicono che laurearsi conviene. I laureati italiani hanno, infatti,
un tasso di disoccupazione più basso e salari più
alti dei
non laureati.
Chi
decide di continuare il cursus universitario e partecipare ai concorsi
per un dottorato di ricerca dovrà, forse, rivedere i propri piani.
I corsi di dottorato nel corso degli anni sono diminuiti: erano circa 2.200
fino al 2008 poi il numero è sceso a 1.500 nel 2012. Oggi sono
914, numero figlio della legge 240/2010 che ha portato all’accorpamento
dei corsi. La conseguenza della diminuzione dei corsi è
la
diminuzione di posti: siamo passati dai 15.800 del 2007 al 12.300 del 2013.
Poche risorse destinate al diritto allo studio
Il
livello medio delle tasse universitarie in Italia è
allineato
alla media dei paesi OCSE.
Nelle
università statali, le tasse per l’anno 2012 sono state pari a 1.018
euro, contro 4.392 nelle non statali. In media chi si iscrive in un ateneo del
nord d’Italia paga 1.350 euro a differenza dei 950 euro in quelli del
Centro, 716 in quelli del Sud.
L’incidenza
degli studenti esonerati dal pagamento della tassa di iscrizione è
di circa
il 15% nel Mezzogiorno contro il 10% al Nord e il 9% al Centro. I dati OCSE
mostrano però come i nostri studenti ricevono un sostegno economico
relativamente modesto. C’è stata una riduzione delle risorse
destinate al diritto allo studio, tra l’anno accademico 2009/2010 e il
2011/2012 si è passati da un tasso di copertura del 86% a un tasso del 69%. Le
risorse a disposizione non consentono, quindi,
di garantire a tutti gli aventi diritto delle borse di studio.
“Basta idonei
senza borsa di studio. Impegno politico ed economico su questo punto. I soldi agli
studenti e alla ricerca sono investimenti, non spese”, ha
sottolineato la Giannini. Nel corso del suo intervento, il Ministro ha
sottolineato anche la necessità di “essere più
attrattivi
nei confronti degli studenti stranieri. Basta percorsi a ostacoli”. Ecco un altro
punto dolente, nei nostri atenei oltre a pochi studenti provenienti da altri
nazioni ci sono solo 533 docenti stranieri in servizio, il 70% ha cittadinanza
di un paese europeo, circa la metà proveniente da Germania, Regno
Unito, Spagna e Francia.
Il piatto piange
Il
rapporto dell’Anvur sulle università è costellato
quindi anche da molti segni negativi - meno immatricolati, meno ricercatori,
meno dottorati, meno borse per il diritto allo studio - che richiederebbero forse
maggiori energie e investimenti. Ma i tempi sono quelli che sono, e infatti il
Rapporto mette in luce una diminuzione di risorse destinate al
sistema-università. Nel 2013 il complesso di queste risorse ammonta a 7,3
miliardi di euro, di cui 6,9 destinati al finanziamento del sistema.
Dal
2009 si è registrata una significativa riduzione delle risorse, sia in
termini nominali sia reali (-13 e -20% rispettivamente). Il calo, significativo
per molte voci di spesa, è stato determinato principalmente
da quello del Fondo di finanziamento
ordinario che da solo rappresenta oltre il 90% delle risorse complessive.
Figura 3 – Quota di spesa pubblica per le istituzioni di istruzione terziaria
Dall’analisi dei bilanci delle università statali risulta come le entrate complessive delle università pubbliche sono cresciute in termini reali del 24,9% tra il 2000 e il 2008 per poi diminuire del 12,2% tra il 2008 e il 2012, tornando ai livelli registrati nel 2004. La crescita nella fase di espansione è stata alimentata dai finanziamenti ministeriali, dalle entrate contributive e da quelle finalizzate da altri soggetti, ovvero finanziamenti da privati o soggetti pubblici locali o istituzioni internazionali destinati a specifici obiettivi. Nell’ultimo periodo il calo è da ricondurre essenzialmente ai trasferimenti dal governo centrale, scesi in termini reali su livelli inferiori a quelli del 2000.
Lo
scenario tracciato sul nostro sistema universitario dall’Anvur è
chiaro e
a tratti preoccupante.
A dirlo è lo stesso presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano, che in un messaggio mandato in occasione
della presentazione del rapporto ha sottolineato “purtroppo la
persistenza di difficoltà strutturali nel settore dell’istruzione
superiore e della ricerca individuabili in primo luogo in un insoddisfacente
livello complessivo della produttività del sistema, pur in presenza di
innegabili punte di eccellenza, e nella permanenza di un sensibile divario
territoriale a sfavore del Mezzogiorno”.