Manipolare i geni per curare le malattie non è più
fantascienza. Un trattamento contro
una rara malattia ereditaria che provoca gravi pancreatiti ricorrenti per la
carenza di una proteina detta
lipoproteina lipasi è già stato addirittura autorizzato dalle
autorità europee. Ma i pazienti trattati con la terapia genica si possono
considerare “mutanti”, come quelli che ci siamo abituati a vedere nei film? Dipende.
Sono molti ormai gli individui che portano nelle loro cellule DNA “aggiunto”
dall’esterno per correggere un difetto genetico.
Gli ultimi di cui si è parlato
erano completamente ciechi a causa di una rara malattia ereditaria chiamata coroideremia,
dovuta a una mutazione di un gene che comporta la degenerazione di coni e
bastoncelli della retina. Fornendo a queste cellule una versione sana del gene
malato, con una iniezione nell’occhio, un gruppo di ricercatori dell’Università
di Oxford guidato da Robert MacLaren è recentemente riuscito a far recuperare,
almeno in parte, la vista a cinque su sei di loro. Lo studio, riportato dall’importante rivista The
Lancet, è però
solo l’ultimo esempio di una lunga serie.
Una
storia in cui la ricerca italiana è in prima fila. Sempre nel campo delle
malattie della retina, per esempio, un risultato ancora più importante è stato
ottenuto qualche anno fa nei confronti di un’altra forma di cecità dovuta a una
rara malattia ereditaria, l’amaurosi congenita di Leber. “Insieme con Francesca
Simonelli dell’Università Federico II di Napoli siamo riusciti a individuare
cinque pazienti provenienti da varie parti di Italia con una forma particolare
della malattia” racconta Alberto Auricchio, ricercatore dell’Istituto Telethon
di Genetica e Medicina di Napoli TIGEM di Napoli e docente di genetica medica
dello stesso ateneo.
Un ago in un pagliaio, dal momento che la malattia, già
rara di per sé, può essere provocata da 17 mutazioni diverse e quella su cui si
poteva intervenire era solo la numero 2.
I malati sono poi stati trattati all’Università
di Pennsylvania a Philadelphia dal gruppo di Jean Bennett, insieme ad altri, per
lo più statunitensi. “Una sola iniezione sotto la retina è stata sufficiente
per far recuperare una visione parziale che dura ancora dopo anni” prosegue
l’esperto.
L’estate scorsa, poi, si è parlato in tutto il mondo del clamoroso risultato ottenuto dal gruppo di Luigi Naldini, direttore dell’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica di Milano (TIGET), su sei bambini per i quali si può cominciare a parlare di una vera e propria cura per due malattie gravissime, per le quali fino a oggi non c’era speranza: la sindrome di Wiskott-Aldrich, caratterizzata da deficit delle difese immunitarie e della coagulazione del sangue e una malattia neurodegenerativa, la leucodistrofia metacromatica, diventata tristemente famosa come “la malattia di Sofia”, la bambina portata in televisione dalle Iene a supporto del cosiddetto “metodo Stamina”.
Il lavoro sulla malattia di Wiskott-Aldrich è stato pubblicato su Science sotto la guida di Alessandro Aiuti, coordinatore della ricerca clinica presso lo stesso TIGET, che ha verificato come tutti e tre i bambini colpiti sono potuti tornare a una vita del tutto normale senza più la paura di infezioni o emorragie che prima condizionava ogni loro attività. Per i tre piccoli portatori di leucodistrofia metacromatica, cui si riferisce un secondo lavoro, pubblicato contemporaneamente sulla stessa importante rivista dal gruppo di Alessandra Biffi, sempre del TIGET, è presto per parlare di una cura definitiva. Anche questi piccoli, però, identificati e trattati con la terapia genica quando ancora non avevano sviluppato deficit neurologici importanti, a distanza di anni non mostrano nessuno dei gravi segni della malattia di cui purtroppo sono stati vittime i loro fratelli, con la stessa anomalia.
Il
gruppo di Milano è stato il primo al mondo, anni fa, anche a trattare con
successo con la terapia genica un’altra grave malattia ereditaria, l’ADA-SCID,
che compromette completamente le difese immunitarie, costringendo i bambini che
ne sono colpiti a un isolamento totale perché qualunque infezione, anche
banale, per loro può essere letale.
E
ancora. Una dozzina di pazienti con emofilia di tipo B ha ricevuto una semplice
iniezione endovenosa che ha portato alle cellule del fegato, incapaci di
sintetizzare il fattore IX della coagulazione, il gene necessario per produrlo.
Così, a distanza di oltre tre anni, la maggior parte di loro può fare a meno di
assumere regolarmente la terapia sostitutiva in precedenza indispensabile per
evitare gravi emorragie e gli altri vi ricorrono a dosi molto inferiori e
intervalli molto più lunghi di prima, come hanno riferito i ricercatori del
Cancer Institute dello University College of London e del St. Jude Children's
Research Hospital di Memphis, nel Tennesse, sul New England Journal of
Medicine.
Ma la
terapia genica non serve solo a portare alle cellule geni sani nuovi di zecca
alle cellule malate. Altre strategie puntano a modificare geneticamente cellule
del sistema immunitario, di per sé già sane, solo per renderle più efficaci nei
confronti delle malattie, soprattutto tumorali ma anche infettive, come l’AIDS.
La
terza via, infine, è la più ardita. “Finora i nostri interventi sono
ancora poco precisi” conclude Naldini, “perché ci limitiamo a fornire alla
cellula il gene funzionante, lasciando al suo posto quello difettoso. Il passo
successivo, su cui stiamo già lavorando, è quello di riparare gli errori di
quello esistente”.
Ma tutti questi pazienti, il cui DNA è stato
modificato con l’aggiunta di geni prodotti in laboratorio, sono per questo da
considerare veri e propri mutanti, alla Blade runner? In un certo senso
sì, perché sono di fatto esseri umani geneticamente modificati.
“Con una differenza sostanziale, però, almeno per il
momento” precisa Naldini. “Le modifiche che apportiamo al DNA del paziente
riguardano solo i tessuti malati, non le cellule della riproduzione, cioè
ovociti e spermatozoi. Queste mutazioni quindi non possono essere trasmesse dai
genitori ai figli. Secondo la normativa vigente questo è un requisito
essenziale per procedere a qualunque esperimento sull’uomo, diversamente da ciò
che si può fare sugli animali”.
Non sarebbe più vantaggioso il contrario, cioè correggere il
difetto fin dall’origine, estirpando del tutto una malattia ereditaria da una
famiglia che ne è portatrice? “In linea teorica sì, certo, ma si aprirebbe un
dibattito sul tipo di mutazioni che è bene apportare all’identità genetica di
un individuo: se tutti possiamo essere d’accordo sulla buona intenzione di
correggere il gene malato responsabile della distrofia muscolare, per esempio,
su altre caratteristiche il limite di ciò che è lecito potrebbe essere meno
evidente. Credo che non siamo ancora pronti a discuterne” risponde Naldini.
Questi scienziati non giocano con il codice della vita e
sono ben consapevoli della delicatezza del loro lavoro. Sanno che su questa
strada occorre procedere con i piedi di piombo, seguendo rigorosamente tutte le
procedure, rispettando le regole, garantendo prima di tutto la sicurezza di
quel che si fa, cercando di evitare gli incidenti che hanno segnato i primi
tentativi di applicazione della terapia genica, a cavallo tra la fine degli
anni Novanta e i primi di questo millennio, quando un paziente perse la vita
dopo un trattamento e alcuni bambini svilupparono leucemie dopo aver ricevuto
una terapia per le loro gravi immunodeficienze congenite.
“A provocare questi effetti furono i virus che servono come
cavalli di Troia per portare i geni sani all’interno delle cellule” spiega
Naldini. “Oggi ne abbiamo di diversi, ritenuti più sicuri”.
Quelli più utilizzati dal gruppo milanese si chiamano
lentivirus e sono derivati dall’HIV, svuotato di tutte le caratteristiche che
lo rendono in grado di provocare l’AIDS e caricato invece delle sequenze
geniche necessarie a ristabilire la funzione carente nella malattia. Il virus
però conserva una caratteristica molto utile per mantenere la correzione nel
tempo: inserisce nel DNA della cellula che infetta le sequenze necessarie a
curare una determinata malattia. Le cellule staminali del sangue prelevate dai
pazienti, quindi, reinfuse nel sangue dopo essere state trattate con questi
virus, sono in grado di correggere il difetto in maniera permanente, perché
ogni volta che si dividono replicano anche la sequenza terapeutica inserita nel
loro DNA.
Gli altri
virus utilizzati per la terapia genica, chiamati “adeno-associati”, non
inseriscono il gene terapeutico nel DNA delle cellule. Si limitano a infettarle
e, al loro interno, produrre la proteina necessaria per curare la malattia. Si
possono usare quando le cellule portatrici del difetto genetico, a differenza
di quelle del sangue, non si rinnovano continuamente. Come quelle del fegato o
della retina, per esempio, negli studi di cui si parlava.
Intanto si studiano altri sistemi per far penetrare i geni nelle cellule senza
dover ricorrere ai virus, per esempio con un metodo detto di
“eletttroporazione”, che permette al DNA di oltrepassare la membrana cellulare.
Anche qui, altro che fantascienza: per aggiudicarsi le
tecniche innovative messe a punto dalle università le aziende stanno già
combattendo a colpi di brevetti e cause in tribunale.
Pubblicato su Pagina99, 22 febbraio 2014