I
laboratori, siano essi di fisica, chimica, genetica, farmacologia o altro
ancora, permettono di condurre esperimenti, ottenere risultati in condizioni
controllate e dunque capire, imparare. A volte con
apparecchiature estremamente semplici, a volte con quanto di più complesso sia
mai stato costruito (basta pensare, ad esempio, al CERN di Ginevra), i
ricercatori costruiscono situazioni adatte a studiare particolari fenomeni.
La
possibilità di variare o meno i diversi parametri che concorrono a determinare il
risultato dell’esperimento permette di sfruttare il principio di causa-effetto
per comprendere che cosa determina un particolare comportamento, qual è la
dipendenza funzionale di una quantità da un’altra, cosa influenza l’evoluzione
di un fenomeno e così via.
Ecco dunque che nei tanti laboratori sparsi per il
mondo i ricercatori alternano la somministrazione di un nuovo principio attivo
e di un placebo per verificare l’efficacia di un nuovo farmaco e i suoi
eventuali effetti collaterali, manipolano geni per rendere una pianta
resistente a determinati parassiti o ai diserbanti utilizzati per eliminare le
erbe che infestano le coltivazioni, studiano nuovi materiali e nuovi composti
che permettano la superconduttività a temperature sempre più alte, approfondiscono
la nostra conoscenza delle interazioni fondamentali tra radiazione e materia.
Tutte situazioni in cui il laboratorio è accessibile ed è quindi possibile
interagire con l’esperimento
e modificare le condizioni operative proprio per capirne l’influenza su quanto
si sta studiando.
Anche gli
astronomi hanno i loro laboratori; i migliori, tuttavia, sono sparsi
nell’universo e non
sono quindi direttamente accessibili. Si tratta fondamentalmente di stelle e di
galassie, nelle loro tantissime varietà, di gas e di polveri, di radiazione e
di particelle.
In pratica, ogni oggetto astronomico può essere considerato un laboratorio che
permette importanti esperimenti.
I
laboratori astronomici più interessanti sono ovviamente quelli dove le
condizioni sono particolarmente estreme, per esempio per l’intensità dei campi
magnetici o della forza gravitazionale, per l’altissima temperatura dei gas o
per l’enorme quantità di energia che si sprigiona da un evento catastrofico.
Sono spesso situazioni che – appunto perché estreme – non possono essere
riprodotte sulla Terra e dunque forniscono occasioni uniche di lavoro.
Ecco
allora che tra le stelle assumono particolare importanza le pulsar e le
magnetar, così come le supernovae con i loro remnants; ecco che le galassie più interessanti sono quelle dove
alberga un buco nero supermassivo dai dintorni del quale emergono getti
accelerati di particelle relativistiche, ma anche quelle di altissimo redshift e dunque viste come erano poco
dopo la loro formazione.
La pulsar binaria PSR B1913+16, scoperta nel 1974 da Hulse e Taylor, ad
esempio, è stato un ottimo laboratorio per una verifica della teoria della
relatività generale (GR) formulata da Einstein un secolo fa.
Il decadimento della sua orbita, misurato nell’arco di oltre trent’anni di
osservazioni, è in perfetto accordo con il tasso di perdita di energia per
emissione di onde gravitazionali, come previsto dalla Relatività generale. Ma
anche una semplice eclisse di Sole può essere utilizzata come laboratorio di
fisica: è quanto fece Eddington nel 1919 misurando la deflessione della luce ad
opera del Sole e ottenendo la prima verifica sperimentale della GR (v. “le Stelle” n. 113, pp. 12-13).
La
relatività generale, anche per le difficoltà sinora incontrate nel tentativo di
unificarla con
la teoria quantistica dei campi, è stata ed è continuamente oggetto di
verifiche (finora tutte con successo!) limitate, tuttavia, a situazioni di
campi deboli o moderati, come nel caso delle pulsar.
La recente scoperta di un buco nero di quattro milioni di masse solari (la
massa di una pulsar è di circa una massa solare) nel centro della nostra
galassia e di un gruppo di stelle che gli orbitano intorno mette dunque a
nostra disposizione un altro laboratorio adatto a nuove verifiche ed
esperimenti. È pur sempre un laboratorio “sigillato”, che non permette di
manipolarne i costituenti – solo osservare quanto accade – ma offre condizioni
uniche, non riproducibili sulla Terra e precedentemente non disponibili nemmeno
nello spazio.
Un altro modo di sperimentare, anche in situazioni che non è possibile
realizzare materialmente, è quello di utilizzare un altro tipo di laboratorio,
unico nel suo genere.
È il nostro cervello, con cui possiamo condurre “esperimenti mentali” (o gedankenexperiment, come diceva Einstein
che ne faceva uso frequente) guidati dal ragionamento e limitati solamente
dalle leggi della natura.
I gedankenexperiment
hanno assunto maggior notorietà nell’ultimo secolo proprio grazie a Einstein,
che ne ha proposti diversi, ma si può dire che la storia del pensiero
scientifico sia costellata da molti esempi di esperimenti mentali e che essi fossero
addirittura già utilizzati dagli antichi greci e latini.
Einstein ci racconta in alcune sue note
autobiografiche che a sedici anni immaginò di viaggiare insieme a un raggio di luce
che avrebbe quindi dovuto apparire per lui come un’onda stazionaria e ci spiega
che sia secondo esperienza che secondo le equazioni di Maxwell ciò non era
possibile; la fisica però doveva essere la stessa tanto per un osservatore
“fermo” sulla Terra quanto per uno in moto rettilineo uniforme.
È lui stesso a riconoscere nel paradosso che derivava dal suo
gedankenexperiment il seme della successiva teoria della relatività ristretta.
Un altro esperimento mentale (e questo,
a differenza del precedente, realizzabile) è quello che contempla una persona chiusa
in un ascensore in caduta libera in un campo gravitazionale uniforme che lascia
liberi dei gravi che ha con sé.
Questi rimangono solidali con la persona che quindi non può distinguere se si
trova in “caduta libera” in un campo
gravitazionale o se piuttosto in moto rettilineo uniforme in assenza di
gravità. Questo esperimento, che illustra l’equivalenza tra inerzia e
gravitazione, stimolò Einstein a superare la teoria della gravitazione
newtoniana e a formulare la teoria della Relatività Generale.
Nella sua forma debole, il principio di equivalenza è stato verificato (sino a
una parte su 1013) con esperimenti reali, utilizzando misure laser
della distanza Terra-Luna.
L'esperimento mentale di Einstein sulla meccanica quantistica
Forse il più famoso esperimento mentale
di Einstein è però quello immaginato con Podolsky
e Rosen (paradosso EPR) al fine di
dimostrare come la meccanica quantistica consentisse che una misura eseguita su
una parte di un sistema quantistico potesse propagare istantaneamente un
effetto sul risultato di un’altra misura, eseguita successivamente su un’altra parte
dello stesso sistema, indipendentemente dalla distanza che separa le due parti.
Questo effetto, successivamente chiamato entanglement quantistico, era considerato
paradossale e incompatibile con la relatività ristretta e Einstein lo voleva
usare per dimostrare l’incompletezza della meccanica quantistica.
Il paradosso EPR aprì un notevole dibattito con una risposta di Bohr, una
riformulazione di Bohm, il contributo del gatto
di Schrödinger (con un altro gedankenexperiment)
e infine con il teorema di Bell le cui verifiche hanno aiutato a chiarire il
problema.
L’entanglement è da anni oggetto di esperimenti reali, di cui è pioniere il
fisico Anton Zeilinger, che sembrano confermarne l’esistenza.
È curioso notare come gli studi sulla
gravitazione si siano spesso avvalsi dei gedankenexperiment.
Prima ancora di Einstein, infatti, è probabile che se ne sia avvalso Newton
(molti dubitano che la mela gli sia effettivamente caduta sulla testa, anche se uno dei suoi primi biografi, William Stukeley, ne fa riferimento
nelle Memoirs of Sir Isaac Newton’s life, pubblicate nel 1752) e quasi certamente Galileo, che era
arrivato alla conclusione che, contrariamente a quanto asseriva Aristotele, due
oggetti della stessa forma e dimensione, ma di peso diverso, sarebbero caduti
con la stessa velocità verso terra, arrivando dunque insieme se rilasciati
insieme.
Il gedankenexperiment di Galileo
Pochi credono che Galileo sia veramente salito in cima alla torre di Pisa con
palle di legno e di ferro per condurre realmente l’esperimento, visto che
sapeva che la resistenza del mezzo (aria, acqua, altro) influiva sulla velocità
di caduta e visto che era più semplice condurlo mentalmente.
Spiega Salviati a Simplicio: “Quando dunque noi avessimo due mobili, le naturali
velocità dei quali
fossero ineguali, è
manifesto che se noi
congiungessimo il più tardo col più veloce, questo dal più
tardo sarebbe in parte ritardato, ed il tardo in parte velocitato
dall’altro più veloce.”
... ... “Ma se
questo è, ed è insieme vero che una pietra grande si muove per esempio con otto
gradi di velocità, ed una minore con
quattro, adunque congiungendole
ammenedue insieme, il composto di loro si muoverà con velocità minore di otto gradi; ma le due pietre congiunte
insieme fanno una pietra maggiore, che quella prima, che si moveva con otto
gradi di velocità; adunque questa maggiore si muove men velocemente,
che la minore:
che è contro
la vostra supposizione. Vedete
dunque, come dal suppor che il mobile più grave si muova più velocemente
del men grave io vi
concludo il più grave muoversi
men velocemente.”
Dimostrazione “per assurdo” che nega
dunque l’ipotesi. Semplice e geniale.
Nel 1971, il gedankenexperiment di Galileo, che richiede di essere condotto nel
vuoto per avere validità (da qui la difficoltà di farlo a Pisa, anche se in
Piazza dei Miracoli), fu effettivamente eseguito in un laboratorio che da
“astronomico” era da poco diventato “accessibile”: la Luna.
David Scott, comandante della
missione Apollo 15, prima di ripartire per la Terra lasciò cadere sul suolo
lunare un martello e una piuma. Rilasciati insieme, colpirono insieme il suolo,
cadendo dunque con la stessa velocità (v. “le Stelle” n. 131, p. 74).
Non era certo necessaria questa
conferma, ma è intellettualmente gratificante aver realizzato quanto concepito
da Galileo nel '600 ed essere andati a farlo là dove il vuoto – nel senso di assenza
di atmosfera – è condizione naturale.
Tratto da Le Stelle n° 132, luglio 2014