fbpx OCSE: ancora troppe disuguaglianze nella sanità italiana | Scienza in rete

OCSE: ancora troppe disuguaglianze nella sanità italiana

Tempo di lettura: 5 mins

Secondo quello che raccontano i dati, gli italiani non stanno male rispetto all'Europa, è il sistema sanitario a soffrire il peso di una spaccatura: quella regionale, che nella maggior parte dei casi ricalca l'asse nord-sud.
Lo avevamo già annunciato lo scorso novembre, quando era uscito il Libro Bianco sulle disuguaglianze di salute in Italia redatto da un gruppo di epidemiologi guidati da Giuseppe Costa dell’università di Torino, che aveva dipinto basandosi anche sui dati Istat un'Italia che viaggia a diverse velocità, con un Sud che arranca sempre di più.
Oggi, uno scenario simile lo tratteggia l'OCSE in un report pubblicato nei giorni scorsi proprio sulla qualità dell'assistenza sanitaria in Italia nel 2014, confermando ciò che da più parti era emerso in precedenza: la sanità italiana nel suo complesso non pecca di qualità, ma allo stesso tempo il federalismo sanitario evidenzia delle enormi falle.

Tra i più sani d'Europa

Il primo aspetto è dunque positivo e l'OCSE lo afferma esplicitamente: “the health status of the Italian population is amongst the best across OECD countries and performance indicators display favourable results.”
Gli italiani mostrano in media uno stato di salute migliore rispetto ai colleghi stranieri, a partire dall'aspettativa di vita: con i nostri 82,7 anni di aspettativa nel 2011, contro una media OCSE di 80,1 anni, siamo infatti terzi in classifica.
Un risultato abbastanza rassicurante, ma che rivela subito una sua zona d'ombra se consideriamo che l'invecchiamento della popolazione porta con sé importanti conseguenze per il sistema sanitario nazionale. Anche su questo punto i numeri OCSE sono chiari: da qui al 2050 la percentuale di italiani con più di 80 anni passerà dal 6% del 2010 al 14% , portandoci al quinto posto in classifica fra i paesi OCSE più “vecchi".

 

 

Il problema sono le differenze regionali

Il problema del nostro sistema sanitario non giace dunque, secondo gli esperti internazionali, tanto nella salute in sé e per sé, quanto piuttosto nell'assistenza sanitaria, gestita a livello locale. Coloro i quali cioè che all'ospedale ci finiscono e che sanno che ci sarà differenza se si curano in una regione piuttosto che in un'altra. Perché, e per una volta non ce lo diciamo da soli, federalismo sanitario oggi significa diversità, ma non uguaglianza. Se osserviamo il numero di bambini in Sicilia ricoverati in ospedale con un attacco d’asma, notiamo che esso è cinque volte maggiore rispetto a quello della Toscana. Anche la percentuale di ricoveri ospedalieri per malattie polmonari croniche è assai diversa a seconda delle regioni
Per non parlare dei numeri dei parti cesarei, molto più frequenti nelle regioni del Sud. In Campania quasi una donna su due (il 45%) è trattata con cesareo, contro le mamme trentine che ricorrono al cesareo in media nel 14% dei casi, cioè circa una su sei. In ogni caso la buona notizia c'è: i numeri dei ricoveri in Italia rimangono fra i più bassi in Europa, come mostrano i dati su asma, broncopneumopatia cronica ostruttiva (BCPO) e diabete.

Le differenze sui numeri dei ricoveri ospedalieri li ha messi in luce recentemente anche lo stesso Ministero della Salute, con dati relativi al primo semestre dei 2014, e quindi più aggiornati rispetto a quelli riportati dal dossier OCSE. Basta considerare per esempio i ricoveri per acuti per lungodegenza per notare che si passa dal 2,2% della Campania al 4,6%, cioè il doppio, in Puglia, Molise e Lazio.



E ancora, i dati tratti dal Programma Nazionale Esiti (PNE) e riportati da OCSE, che sottolineano analoghe differenze dal punto di vista degli interventi chirurgici. La percentuale di pazienti sottoposti ad angioplastica coronarica entro le 48 ore dall'attacco cardiaco varia infatti da un misero 15% circa in Marche, Molise e Abruzzo, fino a un 50% abbondante in Valle d'Aosta e Liguria.

Cosa ci raccomanda l'OCSE

Per prima cosa – si legge all'interno del report - un buon sistema sanitario deve essere anzitutto nazionale, rafforzando il ruolo del Ministero della Salute e delle sue agenzie come AGENAS per quanto riguarda il monitoraggio dei livelli di assistenza fra le regioni. Come? Tramite per esempio ispezioni nei confronti degli enti locali.
È necessario inoltre, sempre secondo i moniti OCSE, sviluppare un'armonizzazione dei sistemi di accreditamento e in particolare rimuovere le barriere verso un migliore sfruttamento delle informazioni esistenti, come per esempio i dati sanitari.
Dati sanitari però non significano solo informatizzazione dell'informazione. Significano, nel rispetto della privacy del paziente, possibilità di accesso e riuso.
In altre parole potenziare l'infrastruttura informatica del sistema sanitario nazionale, a partire dai cosiddetti “linked data”, cioè la possibilità di collegare e incrociare dati provenienti da diverse fonti come quelli provenienti dai sistemi informativi regionali e nazionali.
Terzo ma non ultimo, migliorare le infrastrutture informative del servizio sanitario, in particolare espandendo l’insieme degli indicatori dei Livelli Essenziali di Assistenza, i cosiddetti LEA, che sono materia proprio in questi giorni di revisione da parte del Ministero della Salute, come annunciato dal Ministro Beatrice Lorenzin. Infine, la questione della spesa economica per la sanità, troppo bassa secondo gli standard OCSE. Perché se da un lato il nostro paese fornisce l'assistenza sanitaria a un costo inferiore rispetto alla maggior parte degli altri paesi industrializzati, al tempo stesso spende per il comparto salute molto meno rispetto agli standard tedeschi, austriaci o francesi.
Sempre secondo i dati OCSE infatti, in Italia la percentuale della spesa pubblica in ambito sanitario rispetto al Pil nel 2013 è stata del 6,9% contro il 10,3% dei Paesi Bassi e l'8,5% della Germania. Se consideriamo la spesa per la prevenzione la forbice con il resto d'Europa è ancora più aperta: uno 0,5% medio (sempre dati OCSE) rispetto a una media circa quattro volte superiore.

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Generazione ansiosa perché troppo online?

bambini e bambine con smartphone in mano

La Generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli (Rizzoli, 2024), di Jonathan Haidt, è un saggio dal titolo esplicativo. Dedicato alla Gen Z, la prima ad aver sperimentato pubertà e adolescenza completamente sullo smartphone, indaga su una solida base scientifica i danni che questi strumenti possono portare a ragazzi e ragazze. Ma sul tema altre voci si sono espresse con pareri discordi.

TikTok e Instagram sono sempre più popolati da persone giovanissime, questo è ormai un dato di fatto. Sebbene la legge Children’s Online Privacy Protection Act (COPPA) del 1998 stabilisca i tredici anni come età minima per accettare le condizioni delle aziende, fornire i propri dati e creare un account personale, risulta comunque molto semplice eludere questi controlli, poiché non è prevista alcuna verifica effettiva.