Nel dibattito sul cambiamento climatico, oggetto della appena conclusa
COP21 di Parigi, ogni tanto rispunta il nucleare.
Su Scienzainrete,
il 9 dicembre è stato pubblicato un articolo dal titolo ”Cosa può fare il
nucleare contro il cambiamento climatico?” nel quale gli autori sostengono che
“secondo molti il nucleare è un ingrediente essenziale per rispettare
l’obiettivo di non più di 2°C di aumento di temperatura nel 2050.”
Il punto forte dei favorevoli al nucleare è che le centrali nucleari non
emettono CO2 e che, anche considerando il loro intero ciclo di vita,
l’anidride carbonica emessa è paragonabile all’eolico, 3 volte meno del
fotovoltaico, 30 volte meno del gas naturale, 65 volte meno del carbone.
A parte il fatto che si potrebbe discutere sulla attendibilità dei dati
sopra citati, dovrebbe essere chiaro che per valutare la sostenibilità
ecologica e sociale delle varie fonti di energia non ci si può limitare a un
confronto fra le quantità di CO2 prodotta. Nel caso dei combustibili
fossili, ad esempio, bisogna tenere presente almeno altri tre fattori: (i) l’inquinamento atmosferico (84.400 morti
premature in Italia nel 2012); (ii) il fatto che sono una risorsa non
rinnovabile e, quindi, in via di esaurimento; (iii) la loro inomogenea
distribuzione, con le conseguenti guerre per il possesso o il controllo dei
giacimenti.
Nel caso del
nucleare, invece, bisogna ricordare che:
(i) le centrali nucleari producono
scorie radioattive pericolose per decine di migliaia di anni, la cui
collocazione in sicurezza è tutt’ora un problema non risolto e forse
irrisolvibile; neppure gli USA, con
tutto il territorio e la tecnologia di cui dispongono, sono riusciti a fare un
deposito permanente per queste scorie, che rimangono sui piazzali e nelle
apposite piscine di raffreddamento presso le centrali stesse;
(ii) anche
nell’ipotesi che non accadano incidenti, lo smantellamento delle centrali
nucleari a fine vita è un problema di difficile soluzione sia dal punto di vista
economico che tecnico, tanto è vero che viene rimandato di almeno 50 o 100
anni, cioè lasciato in eredità alle prossime generazioni;
(iii) il combustibile
nucleare, l’uranio, è una risorsa limitata e mal distribuita, quindi contesa;
(iv) poiché il nucleare civile è connesso alle applicazioni militari e può
essere obiettivo/fonte di attività terroristiche, aumentare il numero di
centrali nucleari in giro per il mondo equivale ad accrescere l’insicurezza;
(v) infine, quanto è avvenuto a Fukushima ha dimostrato che un incidente nucleare è
fuori controllo persino in un Paese ben organizzato e tecnologicamente avanzato.
"The dream that failed”
L’eolico ed il
fotovoltaico non hanno altri problemi di sostenibilità ecologica e sociale. Bisognerebbe anche
ricordare che la tanto invocata “nuclear renaissance” non c’è stata e non è neppure prevedibile.
Dopo aver raggiunto un culmine di 635 Mtep (milioni di
tonnellate equivalenti di petrolio) nel 2006, il consumo di energia nucleare è
diminuito a 574 Mtep nel 2014. E’
vero che ci sono 65 reattori in costruzione, ma bisogna anche ricordare che
molti di essi lo sono da decine di anni, cosa che evidentemente non depone in
favore di una “renaissance”.
Il record è del reattore Watt Bar 2 americano, la
cui costruzione è iniziata nel 1972. Altri esempi: due reattori in Ucraina
messi in cantiere nel 1985, due nella Slovacchia avviati nel 1987, due a Taiwan in costruzione
dal 1999, fino ad arrivare ai due gioielli del nucleare francese. Quello in costruzione in Finlandia (Olkiluoto), i cui lavori,
iniziati nel 2005, avrebbero dovuto terminare nel 2010 con un costa previsto 3
miliardi di euro: se tutto andrà bene, entrerà in funzione nel 2018, con un
costo non inferiore a 8,5 miliardi di euro, quasi tre volte quello iniziale. Questo enorme ritardo e il corrispondente
aumento dei costi hanno portato il governo finlandese ad annullare i piani
previsti per la costruzione, sempre a Olkiluoto, di un altro reattore.
Le cose
non vanno meglio per il reattore gemello in costruzione in Francia
(Flamaville): la costruzione, iniziata nel dicembre 2007, sarebbe dovuta
terminare in 54 mesi, con un costo di 3,3 miliardi di euro; salvo ulteriori
problemi, entrerà in funzione nel 2018, con un costo stimato di 10,5 miliardi
di euro. E ancora: i due reattori francesi in costruzione a Taisan (Cina) dal
2009 e 2010 sarebbero dovuti entrare in funzione nel 2014 e 2015, ma sono già
stati rimandati al 2016 e 2017.
Nei
prossimi anni, il numero di vecchie centrali che verranno spente per ragioni
tecniche, economiche o politiche sarà certamente superiore al numero di quelle
che entreranno in funzione. Per quanto riguarda i reattori di Generazione IV,
che dovrebbero minimizzare le scorie e sfruttare meglio il combustibile,
bisogna riconoscere che attualmente sono solo allo stadio di progetti di
ricerca che, nella migliore delle ipotesi, troveranno applicazione solo fra
qualche decina di anni. Molto più lontano (almeno 50 anni) è il miraggio della
fusione nucleare, i cui studi sono frenati da gigantesche difficoltà tecniche e
costi enormi.
Bisogna rendersi
conto che, come ha scritto The Economist in articolo del 10 marzo 2012, quello
del nucleare è “The dream that failed”. Più
ancora dei ben noti incidenti, il motivo che ha fermato lo sviluppo del
nucleare è di natura economica poiché la costruzione di centrali nucleari
richiede forti investimenti di lungo periodo il cui esito, come dimostrano i
dati sopra riportati, presenta grandi margini di incertezza. Per questo oggi si
costruiscono centrali nucleari quasi esclusivamente in paesi dove lo Stato si
fa carico di tutti i costi e di tutti i rischi e, in particolare, dove c’è un
legame molto forte fra nucleare civile e nucleare militare.
Nei paesi europei
dove il settore elettrico è liberalizzato e governato dalle leggi del mercato,
la costruzione di nuove centrali nucleari è di fatto cessata. Alcune nazioni,
come Germania e Svizzera, hanno deciso di uscire dal nucleare. La stessa
Francia ha deciso di ridurre la percentuale di energia prodotta col nucleare.
In questo contesto, ha destato grande stupore la notizia
che la Gran Bretagna ha deciso di costruire, a Hinkley Point, nel sud-est dell’isola, una centrale nucleare che
ospiterà due reattori forniti dalla ditta francese Areva.
Lo stupore finisce, però, appena si apprende che il governo inglese
ha assunto l’impegno di assicurare all’impresa costruttrice il ritorno
economico dell’investimento con una serie di clausole che, fra l’altro,
garantiscono per 35 anni l’acquisto della elettricità prodotta al prezzo di 108
€ al MWh, indicizzato all’inflazione. Tale prezzo è doppio di quello attuale
sul mercato elettrico inglese.
Continua a destare meraviglia, invece,
l’approvazione da parte della Commissione Europea del piano nucleare inglese
nonostante il gigantesco aiuto di stato, valutato in circa 20 miliardi di euro,
che il governo britannico fornirà ai costruttori. Constatiamo con rammarico
che, nel semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Unione Europea, non
risulta che il presidente Renzi abbia sollevato obiezioni. Cosa che però ha
fatto recentemente l’Austria, sostenendo che le sovvenzioni vanno usate per le
tecnologie moderne, non per una fonte non sostenibile e rischiosa come il
nucleare.
Le notizie sopra riportate confermano che il nucleare è
fuori mercato, testimoniano che il costo dell’energia elettrica nucleare non
diminuirà nei prossimi anni, a differenza di quanto sta accadendo per l’energia
elettrica prodotta con le energie
rinnovabili, e dimostrano che i paesi interessati a mantenere in vita il
nucleare civile sono i paesi dotati di armamenti atomici, come Francia,
Inghilterra, Russia, Cina e India.
Se fosse anche
tecnicamente ed economicamente possibile, l’espansione
del nucleare a livello mondiale non è auspicabile in quanto si tratta di una
tecnologia per vari aspetti pericolosa. Come già notato, c’è infatti una
stretta connessione dal punto di vista tecnico, oltre che una forte sinergia
sul piano economico, fra nucleare civile e nucleare militare. Una diffusione
generalizzata del nucleare civile porterebbe inevitabilmente alla
proliferazione di armi nucleari e quindi a forti tensioni fra gli Stati,
aumentando anche la probabilità di furti di materiale radioattivo che potrebbe
essere utilizzato per devastanti attacchi terroristici. E’ anche evidente che,
a causa del suo altissimo contenuto tecnologico, l’energia nucleare aumenta la
disuguaglianza fra le nazioni. Risolvere il problema energetico su scala
globale mediante l’espansione della tecnologia nucleare porterebbe
inevitabilmente ad una nuova forma di colonizzazione: quella dei paesi
tecnologicamente più avanzati su quelli meno sviluppati. L’energia
nucleare è particolarmente inadatta per i paesi poveri di risorse finanziarie,
scientifiche e culturali, che sono proprio quelli ad avere il diritto di
aumentare la loro disponibilità energetica nei prossimi anni. Questo sarà
possibile solo mediante l’uso delle energie rinnovabili.
il nucleare in Italia, un treno perso?
L’Italia ha rinunciato definitivamente al nucleare con il referendum del
2011. Non si è trattato, come alcuni ancora
sostengono, di un treno perso, ma di una scelta molto saggia e
lungimirante. Una quantità di energia paragonabile a quella che i due futuri reattori
inglesi incominceranno a produrre, se tutto andrà per il meglio, nel 2024, in
Italia la produciamo già oggi col fotovoltaico installato negli ultimi anni
(10% dei nostri consumi elettrici).
Come accadde al tempo del referendum sul nucleare, anche oggi
c’é chi sostiene che l’Italia stia perdendo un treno: quello dello sfruttamento
delle sue riserve, per altro marginali, di combustibili fossili. Anche in
questo caso però, come sottolineato sul sito www.energiaperlitalia.it, si
tratta di un treno in ritardo rispetto a quello della transizione energetica
verso le energie rinnovabili, già partito velocemente in molte nazioni: non
ultima, la Cina, dove il consumo di carbone sta diminuendo e l’energia prodotta
dall’eolico ha superato già da più di 4 anni quella prodotta dal nucleare.