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Obbligo vaccinale al nido: è la soluzione giusta?

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Al nido si potranno iscrivere solo bambini in regola con le vaccinazioni. Tutti (o quasi) plaudono alla decisione del Consiglio regionale dell’Emilia Romagna che il 22 novembre, con il solo voto contrario del Movimento 5 Stelle, ha inserito questa clausola in una legge di riforma dei servizi educativi per la prima infanzia. L’obbligo esiste già, per quattro vaccinazioni, e nel resto di Italia non è mai stato formalmente sospeso, come invece è accaduto in Veneto: di fatto, però, la legge resta lettera morta se non ci sono vere e proprie sanzioni o ripercussioni di qualche tipo per chi non la rispetta. Il provvedimento appena approvato in consiglio regionale invece la fa valere, impedendo ai piccoli non vaccinati di entrare all’asilo nido. Una norma pensata per proteggere la comunità: non solo i bambini e gli adulti che per qualche ragione hanno le difese immunitarie compromesse, ma anche i più piccoli, non ancora vaccinati, e quelli appartenenti a quella piccola percentuale di casi che, pur essendo stati sottoposti a tutte le vaccinazioni raccomandate, non hanno sviluppato una reazione sufficiente a proteggerli adeguatamente. Nessuna vaccinazione, infatti, può garantire una copertura al 100 per cento delle persone che vi si sottopongono.

La decisione della Regione Emilia Romagna ha inoltre un importante valore simbolico: dimostra la determinazione delle istituzioni a ribadire l’importanza delle vaccinazioni come strumento di salute pubblica, la loro sicurezza, il rapporto vantaggioso che possono vantare tra costo e beneficio. Sottolinea, insomma, che non ci sono “diversi pareri” che si possano mettere sullo stesso piano, in questo campo. Le vaccinazioni sono l’arma più preziosa che abbiamo a disposizione per garantire la salute nostra e dei nostri figli. È assurdo non approfittarne, rischiando di tornare a un’epoca in cui le malattie infettive lasciavano scie di morti e disabilità.

Qualche ragione di perplessità

Detto questo, la scelta della Regione Emilia Romagna, che altre regioni si accingono a ricalcare, lascia comunque qualche perplessità, condivise da Regioni come Lombardia e Liguria. Non sull’obiettivo di cercare di frenare il continuo, preoccupante, calo delle coperture vaccinali, ma sulla strategia più adatta a conseguirlo. L’analisi condotta dal progetto ASSET confrontando le coperture vaccinali con la presenza o meno di obbligo per morbillo, pertosse e polio in tutti i Paesi europei non sembra confermare che questa sia una scorciatoia vincente. Il panorama è complesso e non ammette soluzioni semplici: tassi di vaccinazione superiori o inferiori alla media si riscontrano nei diversi Paesi indifferentemente dalla politica scelta.

La prima obiezione che sale alla mente è che l’obbligo rischia di alimentare il muro contro muro nei confronti dei genitori più scettici, o semplicemente spaventati. È possibile che qualcuno, trovandosi costretto a usufruire del servizio per poter tornare a lavorare, si rassegni a vaccinare contro voglia il proprio bambino. Ma lo farebbe pieno di paura. E se già un possibile rischio viene percepito come maggiore quando è di origine industriale e coinvolge un bambino, il fatto che sia imposto, fuori dal controllo dei genitori, lo fa ingigantire ancora di più. In questa situazione non è difficile immaginare il conflitto interiore, o in alcuni casi familiare, per chi resta convinto dei rischi delle vaccinazioni eppure si trova costretto a mettere sull’altro piatto della bilancia le proprie esigenze professionali (che già molte mamme italiane vivono purtroppo con un più o meno inconscio senso di colpa).

Per le famiglie ideologicamente più schierate, poi, il provvedimento potrebbe alzare il livello del conflitto, rinforzandole nelle loro convinzioni e convincendole della necessità di lottare contro il sistema “in difesa dei propri figli”. La polarizzazione a cui stiamo assistendo in tutti i campi della società purtroppo avalla questa ipotesi.

Non dimentichiamo poi che le vaccinazioni obbligatorie per legge in Italia sono di fatto solo quattro: quella contro la poliomielite, la difterite, il tetano e l’epatite B. Le altre sono state introdotte in una fase successiva, quando si pensava che non avesse senso imporre per legge quella che era una grande opportunità offerta alle famiglie. Nella stessa logica la Regione Veneto dal 2007 ha infatti sospeso l’obbligatorietà e ha di recente ribadito questa scelta, nonostante il calo delle coperture vaccinali. Anche in Emilia Romagna, quindi, come nelle regioni che eventualmente decideranno di seguirla, sarà possibile imporre solo le quattro vaccinazioni obbligatorie, non altre che in questo momento sarebbero altrettanto, se non forse perfino più importanti, come quella contro il morbillo o la pertosse.

Le vaccinazioni obbligatorie non sono le più importanti

Di quelle obbligatorie, quelle contro poliomielite e difterite mettono al sicuro contro un pericolo possibile, ma attualmente, in Italia, per fortuna ancora non tangibile. Quella contro l’epatite B protegge anche i compagni, ma per quella contro il tetano, preziosissima, non vale il discorso dell’utilità sociale dei vaccini, in quanto difende dall’azione letale della tossina solo il singolo individuo vaccinato, non quelli intorno a lui.

Il paradosso italiano è che queste quattro vaccinazioni storicamente obbligatorie vengono somministrate in un’unica iniezione insieme con quelle rivolte contro pertosse ed Hemophilus influenzae di tipo B, un batterio che, al contrario di quel che il nome può far pensare, non provoca affatto l’influenza, ma gravissime meningiti nei bambini piccoli. Entrambe queste ultime due vaccinazioni, davvero salvavita, nei confronti di germi che circolano largamente in Italia, non sono obbligatorie, ma formalmente solo “raccomandate”. La scelta di somministrarle tutte insieme è a esclusivo vantaggio del piccolo, perché serve a ridurre il numero di iniezioni e il dosaggio di eccipienti e adiuvanti. Dal punto di vista strettamente giuridico tuttavia, crea un inghippo, perché di fatto costringe a fare, insieme alle obbligatorie, anche le due vaccinazioni “solo” raccomandate. Sebbene queste siano perfino più importanti nell’interesse del bambino, nessuno può costringere i genitori a farle fare ai loro figli.

In Emilia Romagna c’è quindi da aspettarsi che molte famiglie chiederanno vaccini separati, mettendo in difficoltà i servizi vaccinali che saranno costretti a procurarseli con qualche difficoltà organizzativa. In questo modo, quindi, nonostante la norma approvata ieri, i compagni di questi bambini non saranno affatto protetti dal terribile rischio della pertosse o della meningite da emofilo. Tanto meno si potrà ristabilire la fascia di sicurezza che tiene alla larga il morbillo, la cui vaccinazione viene fatta insieme a parotite e rosolia, tutte vaccinazioni solo “raccomandate” per le quali nemmeno il provvedimento regionale può fare nulla.

Altri possibili effetti indesiderati

Un altro possibile effetto collaterale indesiderato di questa scelta potrebbe essere quello di facilitare l’insorgenza di microepidemie tra i bambini non vaccinati. Già oggi malattie come pertosse o morbillo riescono a diffondersi meglio dove si concentra un maggior numero di persone suscettibili: comunità nomadi più difficilmente raggiungibili dai servizi sanitari, gruppi che si oppongono per ragioni religiose alle vaccinazioni, allievi di scuole steineriane. Se, respinte dalle scuole pubbliche, le famiglie si organizzeranno in strutture private, più o meno organizzate, l’eventuale contatto con il germe non provocherà solo un caso, ma una serie a catena.

E comunque, alla fine, il problema è solo rimandato alla scuola elementare, dove è stata sancita la prevalenza del diritto allo studio rispetto al dovere di ottemperare l’obbligo della vaccinazione.

Tutto ciò non significa che il provvedimento della Regione Emilia Romagna non produrrà le conseguenze sperate. C’è da augurarsi che tutte queste obiezioni siano smentite dai fatti, e che le coperture vaccinali nella Regione torneranno rapidamente a salire, non solo per le quattro vaccinazioni cosiddette “obbligatorie”, ma anche per tutte quelle “raccomandate”. Occorre quindi che questa esperienza sia pensata come un progetto pilota, da studiare, di cui misurare la validità, prima di estenderla a tutto il Paese come modello sicuramente da seguire, sulla base delle sue buone intenzioni.

L’iniziativa è stata presa in maniera autonoma da un consiglio regionale, ma sarebbe stato forse preferibile, anche nei confronti dell’opinione pubblica, che dopo un confronto non solo tra epidemiologi, virologi, esperti di malattie infettive e vaccini, ma anche di comunicazione, nuovi media e psicologia sociale, si decidesse una strategia condivisa a livello nazionale, possibilmente basata sulla letteratura scientifica internazionale e le raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità al riguardo, secondo cui non esistono bacchette magiche per risolvere il problema.

Infine, non bisognerebbe dimenticare che il primo target della comunicazione e i primi testimonial davanti alla popolazione sono medici e operatori sanitari. In questo senso si è espressa anche la quasi totalità dei cittadini consultata in otto Paesi europei il 24 settembre scorso nell’ambito del progetto ASSET: davanti a un’emergenza di tipo infettivo, gli operatori sanitari dovrebbero essere obbligati a vaccinarsi, per proteggere la popolazione ed essere in condizione di assisterla. Oggi invece la maggior parte dei medici e degli infermieri, anche in reparti critici come la rianimazione o l’oncologia, non si vaccina contro l’influenza, né viene verificata la loro copertura nei confronti di malattie potenzialmente letali per i pazienti immunodepressi, come il morbillo. È importante che comincino loro a dare il buon esempio.

Roberta Villa fa parte del Progetto ASSET


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