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La crisi delle humanities

Wanderer Above the City of Fog. Digital adaption by Simon Max Bannister 2012 (Original painting by Caspar David Friedrich).

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In Occidente, e per il momento soprattutto nei Paesi anglosassoni, le humanities sono in crisi. In Italia spesso le humanities sono chiamate anche scienze umane, ma all'estero le human sciences sono di regola le scienze sociali più quelle psicologiche. Si tratta di discipline umanistiche; humanités in Francia o Geisteswissenschaften in Germania: letteratura, filosofia, storia, religione, filologia, lingue, a cui si possono aggiungere storia dell’arte, semiotica, arti visive e arti performative, inclusa la musica. Negli Stati Uniti sono humanities anche diritto e geografia umana. Si tratta dell'evoluzione moderna degli studia humanitatis che si strutturarono nel XV secolo, intorno a una comunicazione linguistica che tornava a essere usata come esplorazione conoscitiva del mondo. Allora si trattava di grammatica, retorica, poesia, storia, filosofia morale, greco antico e latino.

Dopo la crisi economica del 2008, le immatricolazioni universitarie nei corsi di humanities in diversi Paesi di cultura occidentale e tecnologicamente avanzati sono progressivamente calate o precipitate, a vantaggio delle iscrizioni nei corsi di laurea STEM. Anche se le preoccupazioni già circolavano, a catalizzare l’allarme nel mondo accademico internazionale fu la decisione nel giugno 2015 del governo giapponese di varare una riforma delle università che avrebbe chiuso metà dei dipartimenti di humanities e social sciences. Alcune università di quel Paese hanno deciso di non aderire, ma le proiezioni statistico-demografiche prevedono per il 2030 un collasso delle università giapponesi, e pochissimi iscritti ai corsi di humanities.

La crisi in Stati Uniti, Giappone e Australia

Humanities negli USA

Percentuale dei laureati in discipline umanistiche sulla popolazione universitaria USA dal 1950 al 2010.

La New York Review of Books del 4 aprile scorso racconta di un’ecatombe negli Stati Uniti con il declino di un terzo degli iscritti nei corsi di humanities e diverse università, tra cui Winsconsin, che chiudono corsi e dipartimenti, soprattutto di lingue straniere e storia. Gli Humanities Indicators, regolarmente pubblicati dall’Americal Academy of Arts and Sciences, descrivono il crollo dei finanziamenti in quel Paese elargiti dal National Endowment for the Humanities – da 430 milioni di dollari nel 1980 a 150 milioni nel 2019. L’amministrazione Trump vorrebbe scendere sotto i 50 milioni.

Da alcuni anni le humanities sono sotto pressione in Australia, anche per motivi interni, riconducibili anche all’epidemia di postmodernismo che ha colpito i dipartimenti umanistici del Paese dagli anni Novanta. Nell’ottobre scorso il ministro dell’istruzione ha personalmente tagliato 11 progetti già finanziati (4,2 m$) in quanto, a suo giudizio, i temi non sarebbero di interesse per i contribuenti australiani. La vicenda è inquietante, perché si tratta di una interferenza politica nella libertà di ricerca intellettuale.

Cina e Singapore in controtendenza

Confucio

Confucio (551-479 a.C.).

Ci sono anche Paesi in controtendenza negli investimenti per le humanities, come ad esempio Singapore e la Cina. Non sono Paesi occidentali e non sono democrazie, per cui il paragone deve prendere in considerazione la logica politica delle scelte. Ministri e leader di Singapore abbondano nei loro discorsi con idee del tipo che le humanities sono essenziali per capire le tecnologie, per parlare, scrivere e pensare in modo chiaro e per sviluppare un sano senso morale nell’uso delle tecnoscienze: nel 2016 hanno stanziato 350 milioni di dollari in cinque anni per sviluppare humanities e social sciences. La Cina merita attenzione, perché l’idea che sta dietro alla promozione delle humanities è che da un lato sia un passaggio necessario per stimolare la creatività tecnoscientifica nel Paese e, d’altro canto, che per imporre la propria cultura e valorizzare il patrimonio culturale cinese nel mondo servano specifiche competenze.

Humanities in Europa

Humanities in Europa

Laureati per discipline di studio nel 2016. Dati percentuali in ordine decescente per il blocco delle humanities (in blu). Fonte: Education at a Glance 2018, OECD.

L’Europa continentale, anche attraverso i programmi quadro e Horizon 2020, ha finanziato humanities e scienze sociali significativamente e con incrementi costanti negli anni, tematicamente sempre più spostati verso le scienza sociali. La Sfida sociale 6 di Horizon 2020 (Europa in un mondo che cambia: società inclusive, innovative e riflessive - Societal Challenge 6: Europe in a changing world - Inclusive, innovative and reflective societies) soppianta la ricerca SSH (Social Sciences and Humanities) del VII Programma Quadro. Lo stanziamento su tre anni è di oltre 520 milioni di euro. La ricerca SSH non è limitata al sesto Challange, ma dovrebbe essere trasversale a tutti i pilastri del Programma Quadro, con una predilezione per i beni culturali.

L’ascesa delle ideologie sovraniste non promette nulla di buono per le humanities, anche considerando che larga parte del Challange 6 riguarda le migrazioni, che non sono un tema gradito in molti Paesi europei. Evidenti segnali di intolleranza e censura della libertà di ricerca e insegnamento riguardano per ora gli studi di genere. L’Ungheria di Orbán li ha già messo al bando l’anno scorso, e anche in Polonia è in corso un attacco concentrico. Fuori dall’Europa, l’attacco ai gender studies è in corso in Brasile. Anche il ministro Bussetti è allergico al gender. Tra tutte le cose discutibili che si insegnano e studiano, prendersela con questi temi è solo un indicatore di pregiudizi sessuofobi e illiberali.

In Italia un laureato su tre ha un titolo umanistico (la media OCSE non arriva al 20%). Insieme alla Romania siamo all’ultimo posto per laureati nella fascia 30-34 anni, cioè il 27% a fronte di una media UE del 40%. Insomma, troppo pochi laureati e con caratteristiche che non rispondono alle esigenze economico-sociali. Il fatto che l’Italia abbia più laureati in materie umanistiche non è quindi un bene, perché il panorama cognitivo è sbilanciato. Negli ultimi dieci anni dall’Italia se ne sono andati tutti i giovani più intelligenti, cioè quelli che hanno riportato i volti più alti e che erano più brillanti. Soprattutto con lauree STEM, ma anche umanistiche. Da dieci anni circa, ogni anno emigrano 40mila laureati e 50mila diplomati. Noi abbiamo un problema diverso dagli altri Paesi, cioè un drammatico impoverimento cognitivo che è anche un impoverimento morale. Nessuna inversione di tendenza è immaginabile ed è improbabile che il riscatto parta dalle humanities.

Le ragioni del declino

Dalla copertina del libro Impostures intellectuelles, di Alan Sokal and Jean Bricmont (1997).

Dalla copertina del libro Impostures intellectuelles, di Alan Sokal and Jean Bricmont (1997).

A cosa si deve il declino delle humanities? Solo alla crisi economica e alla credenza diffusa che una laurea in materie umanistiche non procura un impiego? O c’è dell’altro? Gli studi empirici mostrano che, in realtà, il possesso di una buona laurea umanistica non è un reale handicap lavorativo. Anzi. Ci sono opportunità lavorative e di guadagno importanti nei Paesi tecnologicamente avanzati – è importante, a quanto pare, che siano tecnologicamente avanzati – con una laurea umanistica. Alcune lauree in limguistica, filosofia e storia sono ben spendibili sul mercato del lavoro. Le lauree STEM consentono ancora guadagni superiori mediamente di un terzo e nei primi anni dopo la laurea. Ma con le lauree umanistiche ci si può arricchire incredibilmente. Le industrie digitali e dello spettacolo (per esempio quella della serie televisive) sono affamate di umanisti. I settori della gamification e dei prodotti digitali di divulgazione culturale sono in grande espansione (una crescita CAGR del 32%) e reclutano umanisti digitali. Gli umanisti che trovano lavoro sono in media più soddisfatti della loro condizione rispetto a chi ha una formazione STEM. In Italia non è così, ma per motivi congiunturali: mancano le imprese che generano domanda di umanisti. Quando un ministro dell’economia italiano disse qualche anno fa che “con la cultura non si mangia”, riferendosi proprio alla cultura umanistica, non sapeva di descrivere l’inutilità delle humanities, dovuta però ritardo scientifico e tecnologico, cioè economico, del Paese. Anche per responsabilità di quel ministro e del suo partito.

La percezione delle famiglie e dei giovani non intercetta quello che sta avvenendo nel mondo del lavoro e le opportunità che si stanno di nuovo creando per chi ha una formazione umanistica. Ma c’è dell’altro.

Un articolo del 2017 su American Affairs iniziava cosi: “Le humanities non stanno solo morendo, sono già quasi morte”. L’articolo, apparso anche su The Chronicle of Higher Education, riguardava la realtà britannica ed era spietato nel mettere in luce le nefandezze, culturali e comportamentali, cioè le scempiaggini decostruttiviste e il settarismo dei postmodernisti in Occidente, che sono probabilmente una delle cause del declino accademico delle discipline umanistiche. Negli anni Ottanta hanno preso una piega verso la decostruzione postmoderna, sostenendo che non esiste una realtà oggettiva da scoprire. Credere in idee così pittoresche come il progresso scientifico è colpevole "scientismo", parola ancora usata come un insulto. Nel 1996 il fisico della New York University Alan Sokal ridicolizzava queste idee, beffando questi fanatici neoidealisti. Il suo famoso articolo, "Trasgredire i confini: verso una ermeneutica trasformativa della gravità quantistica", era zeppo di frasi e idee riconoscibili come postmoderne e decostruttiviste, intervallate da gergo scientifico: un pastone senza senso che fu accolto come un contributo pertinente da editor e revisori di una rivista di settore.

In difesa delle humanities

Rens Bod, Digital Humanities, Università di Amsterdam.

Rens Bod, Digital Humanities, Università di Amsterdam.

La tesi forte sulla crisi delle discipline umanistiche rimane che o sono inutili o diffondono tecnofobia. Date le insensatezze - su questo non c’è dubbio - e la quantità di ideologia d’ogni genere che credono e insegnano numerosi umanisti, ha ancora senso finanziare e studiare le humanities? Malgrado gli studi umanistici non penalizzino affatto, nei Paesi tecnologicamente più avanzati, le opportunità lavorative, prevale anche tra gli umanisti l’idea che le humanities non servano a nulla o che al limite servano a “umanizzare” una società che si sta disumanizzando a causa della pervasività delle tecnoscienze. In alcuni ambiti, come la medicina, le medical humanities sono pensate come insegnamenti che forniscono un supplemento d’anima a medici che ignorerebbero i pazienti; medici, cioè, che a causa dell’eccesso di scienze che studiano sarebbero troppo concentrati sulle malattie e le tecniche da usare.

Esistono anche diverse idee sul perché si dovrebbero finanziare e studiare le discipline umanistiche, stando sempre lontano dalla possibilità che siano utili per l’economia del Paese. Qualcuno enfatizza la loro importanza per lo sviluppo del pensiero critico, altri per la formazione di una coscienza culturale, altri per creare cittadini democraticamente competenti e così via. In realtà, non esistono prove che le humanities promuovano il pensiero critico, una coscienza culturale o competenze democratiche. Diversi esperimenti condotti nelle classi dei college americani forniscono risultati non uniformi sugli effetti cognitivi delle discipline umanistiche e dipendono sempre dalla disciplina insegnata e dal metodo, non da intrinseche virtù delle discipline umanistiche. Uno degli argomenti che hanno avuto maggior successo, cioè quello presentato da Martha Nussbaum in “Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica” (il Mulino, 2014) è molto, molto debole: la democrazia moderna nasce e si sviluppa con la diffusione della mentalità scientifica, di cui Nussbaum non parla, mentre fin dall’antichità esistevano le humanities, che non crearono per nulla libertà ed eguaglianza per tutti.

La tesi più interessante e probabilmente la più valida in difesa dell’utilità, nel passato e oggi, delle humanities è quella del linguista computazionale e storico olandese Rens Bod. Per Bod, autore di un libro pubblicato nel 2014 e già tradotto in sette lingue (“Le scienze dimenticate. Come le discipline umanistiche hanno cambiato il mondo”, Carocci, Roma, 2019), le discipline umanistiche hanno concorso al progresso umano, sotto ogni punto di vista: insieme alle scienze sperimentali hanno migliorato il mondo perché hanno catturato, con i loro metodi, dimensioni strutturate della realtà, affrontando problemi concreti e trovando applicazioni in campi del tutto inattesi.

Le idee di Bod ricordano l’argomentazione con cui Giulio Preti, in “Retorica e logica” (Einaudi, 1968), rifiutava la tesi delle “due culture” di Charles Percy Snow, sostenendo che letterati e scienziati fanno riferimento a forme mentali e nozioni di verità diverse, ma che rispondono comunque a un atteggiamento genericamente scientifico. Bod sostiene, con valide prove, che gli umanisti non hanno un’idea pertinente della loro storia, al punto da lasciare che numerose intuizioni conoscitive e applicazioni siano erroneamente attribuite alle scienze sperimentali. La sua ricerca storica mostra che i periodi più fecondi delle discipline umanistiche sono stati quelli in cui la ricerca di modelli, leggi e norme ha dominato lo studio delle attività umane (parlare, scrivere, dipingere, costruire, suonare, recitare). Le discipline umanistiche concorrono, come qualsiasi tecnica, alla soluzione di problemi nel mondo reale (ad esempio per acquisizione del linguaggio, ricostruzione di fonti letterarie, test di argomenti, creazione di progetti realistici, eccetera). Queste dinamiche storiche ed epistemologiche vengono nascoste dalla moderna compartimentalizzazione degli studi umanistici.

L’ampiezza dell'analisi storica di Bod mostra che fin dall'inizio delle scienze umane – con l’invenzione e diffusione della scrittura – non c'era separazione fra esse e ciò che oggi chiamiamo le scienze naturali. La musicologia e la matematica, la teoria dell'arte e l'architettura, la storiografia e la medicina esercitavano la stessa disciplina mentale: la ricerca di schemi per rilevare regole, norme o leggi attraverso le quali trovare soluzioni per prevedere o governare i cambiamenti in ecosistemi ricchi di situazioni impreviste. È probabile che le scienze umane scaturiscano dalle elaborazioni culturali di una caratteristica umana innata e funzionale alla sopravvivenza, cioè la ricerca continua di pattern, o schemi o regole anche inesistenti nell’ambiente: ciò a un certo punto rese possibile identificare anche schemi autentici, poiché comunque la trama della realtà può diventare accessibile, in quanto le nostre strutture cognitive si sono selezionate per intercettare anche come stanno le cose.

La divergenza tra scienze umane e naturali

Piero della Francesca, De Prospectiva Pingendi, 1480.

Piero della Francesca, De Prospectiva Pingendi, 1480.

Dove e come differiscono i metodi di ricerca delle scienze umane e delle scienze naturali? Quando e perché le scienze umane e la scienza si sono sviluppate in direzioni diverse? Cosa mette in evidenza un confronto tra la storia occidentale delle discipline umanistiche e altre regioni del mondo? Fin dall'inizio, la metodologia delle discipline umanistiche è stata spesso simile a quella delle scienze naturali. Ad esempio, linguisti come l’indiano Pānini (VI secolo a.C.) erano figure analoghe a matematici come Euclide per quanto riguarda le loro procedure analitiche. A causa del loro approccio simile ai modelli, è sempre stata possibile una fecondazione incrociata tra le scienze umane e le scienze naturali.

La concettualizzazione dei modelli trovati varia tra "regolarità inesatte e leggi esatte". L'ipotesi che dell'una parte dello spettro si occupino le discipline umanistiche ("regolarità inesatte") mentre dell'altra parte le scienze naturali ("leggi esatte") per Bod è errata e astorica. Intelligentemente il linguista olandese osserva che una "legge" biologica è oggi intesa soprattutto come "un modello che è solitamente locale e non universalmente valido ed è inoltre spesso statistico". Anche per la fisica il riferimento alle "leggi esatte" è utilizzato solo nella fisica teorica. Nella fisica applicata, si fanno correzioni o "disposizioni" costanti, relativizzando l'esattezza di una legge che è tratteggiata dal rilevamento del modello.

Dal Medioevo si osserva una relativizzazione generale della logica formale all'interno di storiografia, musicologia, filologia, retorica e teoria dell'arte. Lorenzo Valla (XV secolo) e altri sostenevano che non tutto ciò che è formalmente corretto è convincente. Intanto, nella teoria dell'arte l'introduzione rivoluzionaria del punto di fuga è stata stabilita con l'aiuto di leggi matematiche. Non furono solo i "nuovi scienziati" come Keplero, Galileo o filosofi come Bacone a silurare la visione del mondo cristiano-aristotelico. Tutto iniziò davvero, secondo Bod, nel 1440, quando il filologo italiano Lorenzo Valla dimostrò che il “Constitutum Constantini” (la Donazione di Costantino, usata dalla Chiesa Cattolica per dare legittimazione al possesso dell'Impero Romano d'Occidente) era un falso. Valla usò prove storiche, linguistiche e filologiche, incluso il ragionamento controfattuale, per confutare il documento, ovvero principi di coerenza (coerenza cronologica, coerenza logica e coerenza linguistica) che gettarono le basi per la moderna critica delle fonti. Lo smascheramento di quel falso aprì la strada alla Riforma e alla critica biblica, che alimentarono insieme alla nascita della scienza la costruzione della modernità. La filologia divenne anche un modello di rigore in diversi contesti accademici, assumendo il governo politico delle nascenti università statali e favorendo, per esempio in Germania, l’ingresso e lo sviluppo dell’insegnamento delle scienze sperimentali.

Bod sostiene che la sofisticazione della grammatica non abbia solo gettato le basi per l'informatica, ma abbia anche stimolato pensieri imperialisti e il nazionalismo, nel momento in cui la linguistica comparativa scoprì la famiglia linguistica indoeuropea. Quindi le discipline umanistiche non hanno sempre servito il sogno "umanistico" di libertà, uguaglianza, democrazia, amore e pace. Piuttosto, alcuni modelli hanno prodotto idee come il classicismo aristotelico (attraverso la logica e la retorica) o il razzismo (attraverso la linguistica e la filologia comparate). L’uso accademico degli schemi trovati dovrebbe quindi essere accompagnato da cautela etica. Questa idea è debole perché l’etica non è separabile dal sistema delle idee e dei metodi che strutturano le conoscenze empiriche.

Se la rilevazione di pattern in musicologia, logica, linguistica, filologia, teoria dell'arte, retorica e poetica ha portato alla ribalta concetti di grande successo, lo stesso non si può dire sulla storiografia. La "forma più estrema della storia, che ha respinto gli schemi, ha prodotto poca storiografia, così come la forma più estrema della storia della ricerca di schemi". Per Bod gli schemi si possono trovare anche nello studio della storia, è impossibile orchestrarli in una teoria della storia a causa del fatto che "la storia non mette limiti al suo soggetto".

La nascita delle humanities segna un distacco dall’umanesimo e coincide con la vittoria dell’empirismo sulla credulonerie e la fede. Certo fu più faticoso nell’ambito delle humanities, rispetto alla scienza sperimentale, limitare la diffusione di credenze che erano di fatto pseudotentativi di trovare schemi e costanti nella realtà linguistico-narrativa. Alla fine del XX secolo, le discipline umanistiche hanno però virato verso il decostruzionismo post-moderno e la credenza che non esiste una realtà oggettiva da scoprire e nessuna idea che sia più vicina alla verità di qualsiasi altra. L’umanesimo ha così preso una piega politica allontanandosi dalle sue radici nella scienza e nella verità oggettiva, e orientandosi verso la militanza o l’attivismo progressista. In un momento in cui studenti e finanziamenti stanno fuggendo dai dipartimenti umanistici e il sostegno e l'appartenenza a organizzazioni umanistiche sta diminuendo perché hanno alienato tutti coloro che non condividono la loro ristretta agenda politica, l'argomento che umanesimo e discipline umanistiche vanno bene per autoelevarsi fa perdere di vista il vero valore delle discipline umanistiche, che Bod ha articolato con forza nel suo libro.

Un ritorno alle origini

Scuola di Atene, Raffaello Sanzio, 1509-1511, Musei Vaticani.

Scuola di Atene, Raffaello Sanzio, 1509-1511, Musei Vaticani.

La ricontaminazione in corso tra scienza sperimentali e humanities, in diversi ambiti come le digital humanities, è un ritorno alle origini. Per la verità il termine humanities ormai viene associato quasi a ogni disciplina scientifica: psicologia cognitiva, neuroscienze, chimica, ingegneria, fisica, matematica e così via. Non è scontato che questo avvenga come riscoperta delle radici storiche, gli studia humanitatis del XV secolo, quando l'approccio empirico fu adottato come strumento cognitivamente superiore. A volte si tratta dell’idea più comune che le humanities servano a ridurre il peso del contenuto empirico a favore della credenza ridicola di una superiorità morale e di alterità antropologica del sapere umanistico.

Nel progetto del linguista computazionale dell’Università di Amsterdam ci sono elementi e argomenti davvero validi per ricostruire un’alleanza autentica tra quelle che sono state impropriamente chiamate “due culture”, o anche “scienze della natura” e “scienze dello spirito”. Un’alleanza che serve sia alle scienze sperimentali per ricucire attraverso usi migliori della comunicazione le crescenti distanze dal pubblico e per ritrovare stimoli cognitivi dalle indagini umanistiche, sia alle discipline umanistiche, che possono confrontare gli schemi cognitivi sui quali lavorano, con quelli scientifici e così consentire alle future generazione di avventurarsi in nuovi territori con la consapevolezza di conoscenze e metodi che hanno una storia che arriva fino all’orlo della fondazione umana.

 


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