I ricercatori più anziani sono meno produttivi di quelli più giovani? E in base all'età, qual è la distribuzione ideale degli studiosi all'interno del sistema ricerca? Queste sono alcune delle domande che si sono posti gli autori della Relazione sulla ricerca e l'innovazione in Italia del CNR, presentata martedì 15 ottobre a Roma, alla presenza del Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte e del presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche Massimo Inguscio. Di seguito si riporta la sintesi di uno dei capitoli della relazione, che affronta il tema inerente alla struttura demografica dei ricercatori italiani e al processo di ricambio generazionale.
In Italia si investe poco in ricerca, i ricercatori sono relativamente pochi (140mila tempo pieno equivalenti, anche la metà che in altri paesi di popolazione raffrontabile alla nostra), sono meno pagati e in media più vecchi. Che conseguenze ha la struttura demografica dei nostri ricercatori sulla qualità della ricerca, e quali sono le prospettive future? Il tema è stato affrontato in una sezione della seconda Relazione sulla ricerca e l'innovazione in Italia a cura del CNR, presentata martedì 15 ottobre a Roma, alla presenza del Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte e del presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche Massimo Inguscio.
Giovani e meno giovani, serve il giusto mix
Non pochi studi, dedicati alla distribuzione per età della popolazione dei ricercatori, si sono susseguiti dal 1991 a oggi, ognuno adottando un metodo di valutazione diverso.
Nel 2010, sulla base di uno di questi studi, si cominciò a concepire la ricerca non più come un'attività individuale ma collettiva: lavorare in gruppo, con persone di diverse età, facilita lo sviluppo di nuove idee, nuove tecniche e nuovi approcci di ricerca. La qualità della ricerca, infatti, dipende anche dall'equilibrio tra esperienza, relazioni sociali e capacità gestionale, che spesso caratterizza i ricercatori più anziani, e originalità e innovatività, tipica dei più giovani.
L'importanza dell'integrazione nei gruppi di ricerca è dettata, quindi, dalla necessità di creare rapporti fiduciari tra i ricercatori alle prime esperienze e quelli più esperti, che consente ai primi di rimpiazzare i secondi nel corso del tempo. L’assenza di un ricambio generazionale comporta una carenza di questo capitale umano altamente qualificato, rischiando così di ingessare il sistema della ricerca.
Al fine di capire quali possano essere gli strumenti per ottenere e mantenere una ricerca altamente qualificata in Italia, la Relazione ha esposto una analisi dettagliata della struttura demografica dei ricercatori italiani, che si basa sul numero assoluto degli studiosi impiegati in ogni settore della ricerca in un lasso di tempo che va dal 2005 al 2016.
Personale addetto alla Ricerca & Sviluppo
L’Italia ha un numero di ricercatori inferiore a quello di molti altri paesi e si caratterizza per una debolezza ormai consolidata di risorse investite. La Figura 1 mostra come la quota del numero di ricercatori in rapporto alle forze lavoro sia costantemente cresciuta nell'ultimo decennio, rimanendo però al di sotto della quota degli altri paesi.
Figura 1: Personale addetto alla Ricerca & Sviluppo in unità ETP (addetti Equivalenti a Tempo Pieno) per settore istituzionale in Italia dal 2005 al 2016.
Per valutare se e come la debolezza in termini di risorse finanziarie sia collegata alla struttura per età dei ricercatori, sarebbe opportuno un confronto internazionale. Tuttavia, è stato possibile tracciare soltanto un quadro tendenziale, a causa della limitata disponibilità di dati per un simile confronto.
Per una descrizione più dettagliata, sono state confrontate le età medie dei ricercatori di università e istituzioni pubbliche disponibili nel database Eurostat per Italia, Spagna, Austria e Norvegia. La Figura 2, conferma l'Italia come paese con età media più elevata per l'università e, con la Norvegia, per le istituzioni pubbliche.
Figura 2: Età media dei ricercatori nelle Università e nelle Istituzioni pubbliche, confronto tra paesi europei tra il 2005 e il 2016.
L'evoluzione della struttura per età dei ricercatori negli anni Duemila
Nel corso degli anni Duemila, l'età media della popolazione italiana è cresciuta di quasi due anni, passando dai quarantacinque anni del 2005 ai quarantasette del 2016, mentre l'età media degli occupati è aumentata di oltre tre anni, dai quasi quarantadue ai quarantacinque. L'invecchiamento più accelerato da parte degli occupati può essere ricondotto a due principali fattori: da un lato, la posizione dei giovani nel mercato del lavoro si è indebolita con la crisi economica; d'altro canto, l'entrata in vigore della riforma Fornero nel 2012 ha spostato in avanti l'età pensionabile.
Per quanto riguarda l'età media dei ricercatori italiani, i valori si attestano tra i quarantacinque e i quarantasei anni, presentando un lieve calo rispetto ai dati del 2005. Nel settore Università, invece, l'età media del personale che si dedica alla ricerca è nettamente più elevata (oltre quarantotto anni nel 2016).
Ancora diversa risulta l'età media dei ricercatori nelle imprese, che cresce parallelamente a quella degli occupati, passando da poco più di quarant'anni nel 2005 a oltre quarantatré anni nel 2016. Nel settore privato, rispetto a quanto accade in quello pubblico, il trend appare infatti più influenzato dall'andamento del mercato occupazionale. È probabilmente questa la ragione di un così rapido invecchiamento nelle imprese in un'ottica decennale, che è invece assente nell'Università e nelle istituzioni pubbliche, in cui i pensionamenti e (in parte) le assunzioni sono soggetti ai meccanismi di programmazione della ricerca.
Nei tre grafici della Figura 3, è riportata l'evoluzione della struttura demografica dei ricercatori per classe di età nei tre principali settori della ricerca tra il 2005 e il 2016.
Figura 3 (A, B e C): Ammontare dei ricercatori per classe di età e settori di attività (anni 2005-2016).
Un aspetto interessante è che l’età degli addetti alla ricerca nelle imprese è minore di quella dei ricercatori impiegati nel settore pubblico, ma non come ci potremmo immaginare, dato che nel pubblico sia gli avanzamenti di carriera sia i prepensionamenti sono meno frequenti che in ambito privato. Nel settore università, invece, si ha un progressivo abbassamento dell’età media dei ricercatori, ma a causa della dinamica “inerziale” dei pensionamenti e non di nuovi ingressi delle classi di età più giovani.
Ringiovanire non è semplice
La necessità di destinare più risorse alla scienza e alla tecnologia, e quindi di aumentare sensibilmente il numero dei ricercatori, è ormai da decenni una delle priorità del paese. Ma ringiovanire il sistema della ricerca non sarà né semplice né rapido, perché richiederà interventi strutturali e di lungo periodo. Come è stato osservato dai relatori durante la presentazione della Relazione, bisognerà agire da un lato sulla stabilizzazione dei precari e dall’altro sull’immissione costante di forze nuove e giovani con adeguate prospettive di carriera. Per il momento, nonostante le promesse reiterate a ogni cambio di governo, i cosiddetti assegnisti di ricerca sono cresciuti costantemente dal 2005 al 2015, con una prima inversione di tendenza negli ultimi anni, come mostra la figura 4
Figura 4. Quota di assegnisti di ricerca sul totale dei ricercatori delle università e loro età media
La sensazione in chi ha assistito alla presentazione della nuova edizione della Relazione è che, anche se molto lentamente, la consapevolezza di un deficit da colmare nel campo della ricerca comincia a farsi strada nei politici. Più ricerca equivale a più crescita.