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L’approccio creativo della Germania all’emergenza Covid-19

Dagmar Rinnenburger, medico tedesco, racconta come l'epidemia di Covid-19 è stata affrontata in Germania, dal suo inizio a oggi, e dell'approccio "creativo e razionale" adottato dai medici.

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Tempo di lettura: 8 mins

Nei primi giorni dello scorso aprile riassumevo (in un articolo pubblicato su Salute Internazionale) la situazione del Covid-19 nel mio Paese con tre parole quasi banali, attribuendo alla Germania tre fattori favorenti: la fortuna (perché all’inizio della pandemia c’erano pochi contagiati e di età decisamente minore che in Italia), il tempo per prepararsi e la ricchezza, sotto forma dell’ampia disponibilità di letti in terapia intensiva. Il motivo per cui ora, a tre mesi di distanza, riprendo il discorso per raccontare qualcosa delle esperienze tedesche delle ultime settimane va cercato nella solidarietà: a una pandemia di questa portata possiamo far fronte solo se uniamo le nostre forze e adottiamo comportamenti coerenti. E dobbiamo farlo tutti, la comunità internazionale come quella nazionale: procedere in ordine sparso è dannoso, inutile e avvilente.

A fare la differenza, a mio parere, non è stata solo la grande disponibilità di posti in terapia intensiva, ma quello che ha reso possibile utilizzarli al meglio e cioè un sofisticato registro dei posti letto. Lo ha inventato Robert Klosko, che la rivista mensile tedesca Cicero [1] ha definito un “eroe invisibile”. Insieme alla moglie, Klosko gestisce a Monaco un’agenzia di comunicazione che realizza un sito di energie rinnovabili e prodotti sostenibili, con cui ha promosso il marchio “bio” della Baviera. All’inizio di marzo tre medici della DIVI, la società di medicina intensiva e d’urgenza (Deutsche Interdisziplinaere Gesellschaft fuer Intensiv und Notfallmedizion) e un epidemiologo del Robert Koch Institut si rivolgono a Klosko chiedendogli se è in grado di realizzare un registro virtuale di tutti i letti di terapia intensiva. Alla luce di quello che stava succedendo in Italia, gli mettono fretta: deve sbrigarsi, l’ondata di Covid-19 è attesa anche in Germania. Klosko coinvolge un anestesista della Charité di Berlino, che già nel 2009, in occasione della pandemia di AH1N1 aveva messo in piedi un registro dei posti letto. All’atto pratico quella pandemia non si era rivelata poi più pericolosa di una classica epidemia influenzale, anche per questo, probabilmente, l’esistenza di quel registro era stata poi dimenticata.

Klosko interrompe tutte le sue attività e, con il contributo del programmatore Florian Haeusler, si dedica anima e corpo a predisporre la banca dati (bisogna anche dire che la DIVI aveva investito una somma a quattro cifre). Il 17 marzo il registro è già online (non sono state necessarie gare pubbliche e questo ha garantito la massima velocità), la banca dati fornisce nomi e i numeri di telefono delle persone da contattare per i posti in terapia intensiva. Il ministro della salute della Germania Jens Spahn, a quel punto riconosce ufficialmente lo strumento e ne fa mettere a punto il regolamento d’uso. Il notiziario della sera in televisione annuncia l’esistenza di un registro che aiuta i medici a trovare posto in terapia intensiva. Klosko deve cambiare server per poter far fronte ai più di 100.000 click al giorno. Il registro è accessibile tramite la pagina del Robert Koch Institut o RKI [2], l'organizzazione del ministero federale della salute che si occupa del controllo e della prevenzione delle malattie. La disponibilità di posti letto è divisa in tre categorie: low care (ventilazione non invasiva), high care (ventilazione invasiva) e high care e terapia di sostituzione d’organi (dove è disponibile il sistema ECMO (extracorporal membrane oxygenation).

Il registro scardina abitudini consolidate: di solito ospedali e cliniche sono in concorrenza anche dal punto di vista economico e nessuno vuole perdere i propri pazienti in favore dei concorrenti, perciò non si rendono pubbliche le proprie risorse. Ma la necessità di fronteggiare l’emergenza ha avuto la meglio.

Dopo la nascita ufficiale del registro, il Robert Koch Institut e l’ufficio federale di igiene pubblica decidono di affidare al SAS Institute (un’azienda di software statunitense) il rinnovo della banca dati. Klosko fornisce i dati senza problemi: non lo vede come un fallimento. Adesso lavora su una banca dati di ventilazione meccanica ambulatoriale. Molti centri dispongono di queste attrezzature, ma nessuno sa quante siano e dove si trovino. In vista di una possibile nuova ondata anche questo registro potrebbe essere utilissimo.

Anche i boy scout in aiuto al territorio

In un editoriale sul British Medical Journal Ralf Reintjes, epidemiologo ed esperto di salute pubblica di Amburgo, riassumeva così la situazione in Germania [3]: il 23 giugno su 100.000 abitanti la Germania aveva circa la metà dei casi (230 versus 451) e solo un sesto dei morti dell’Inghilterra (10,7/100000 versus 63,2). La Germania ha puntato molto sullo sviluppo intensivo delle famose “tre t” testing, tracing, treating, basandosi su strutture già esistenti, gli uffici di igiene locali che sono stati rivitalizzati.

Da aprile sia il governo che i Laender hanno investito in queste istituzioni. Ogni comune e ogni grande città ha un ufficio d’igiene con un ufficiale medico al vertice. Questi uffici fanno parte del servizio sanitario pubblico. In tutta la Germania ci sono 375 uffici di igiene con 17.000 persone impiegate. Ma per l’emergenza causata dalla pandemia non bastavano, perciò si è fatto ricorso alle più diverse figure per implementarli: dal servizio civile agli assistenti sanitari e sociali, perfino i boy scout sono stati mobilitati e ogni tanto anche i militari. Il personale inesperto veniva guidato da chi aveva esperienza nel sistema. Le loro responsabilità stanno crescendo. Si occupano del tracing e seguono le persone in quarantena, se il numero di infettati supera i 50 ogni 100.000 abitanti in una settimana, si procede a un lockdown locale. Con questo si spera di evitare di dover chiudere di nuovo tutto il paese.

Medici autorganizzati

La dottoressa Andrea Jerusalem lavora come medico di medicina generale in una piccola cittadina nella Renania Palatinato, sul fiume Ahr, dove si vive di turismo e vinicoltura. Ha osservato con preoccupazione il progredire dell’epidemia da Wuhan all’Italia e alla Francia. C’erano poche informazioni su come comportarsi: né dalle società scientifiche né dall’ufficio Federale d’igiene, né dal Robert Koch Institut. «Tutto era lasciato alle nostre decisioni», mi racconta. «Per esempio, avevo un paziente arrivato dall’Australia con una polmonite che non si risolveva. Pensavo di farlo testare per il Covid-19, ma all’epoca ogni test doveva essere giustificato in forma scritta: il paziente doveva essere stato a Wuhan oppure aver avuto contatto con qualcuno che proveniva dalla regione cinese».

Con l’inizio del carnevale, il dubbio diventa se testare ogni persona rientrata dall’Italia. Poco tempo dopo la fine del carnevale, ecco il primo focolaio a Heinsberg e poi alcuni in Baviera. Ogni settimana il RKI cambiava indicazioni: all’inizio test solo per chi era stato a Wuhan, poi anche per chi rientrava dalla Lombardia. Però continuavano a mancare procedure chiare e precise. «Avevo poche risorse, - continua Jerusalem - l’azienda che mi fornisce i prodotti medicali non aveva più scorte. Avevo pochissime mascherine: si ordinavano su Amazon a prezzi esorbitanti. Anche i disinfettanti erano sempre più rari, so di un viticoltore locale che donava la grappa alle farmacie che ne ricavavano un disinfettante. La situazione era così disperata che alcuni colleghi si sono fatti fotografare nudi per protestare (#blankebedenken, nudi pensieri)».

Infine arriva il momento in cui anche i medici di base vengono autorizzati a fare test e tamponi. «Abbiamo dovuto essere creativi. All’inizio ho fatto venire i pazienti sul tetto dell’edificio dove ho lo studio, lì una collega munita di tutti i DPI faceva i tamponi. Le scuole sono state chiuse il 16 marzo. Dal 23 anche il nostro ospedale è entrato in modalità emergenza. In studio abbiamo fatto tutti i consulti per via telematica, ora possiamo mandare certificati e prescrizioni per posta: prima non era possibile», mi racconta ancora Andrea Jerusalem.

Mano a mano che l’epidemia prosegue viene installato il plexiglass e i pazienti si presentano muniti di mascherina e guanti. Il paese dove vive Jerusalem, Bad Neuenahr Ahrweiler, ha circa 126.000 abitanti. Al primo di luglio c’erano 201 pazienti positivi, una persona non ce l’ha fatta. Con modalità diverse tutte le case di riposo hanno chiuso l’accesso a tutti i visitatori e hanno effettuato uno screening regolare del personale, insieme con l’ufficio d’igiene che continua a fare controlli a campione. Fino ad ora tutte le Rsa sono rimaste libere da infezioni Covid-19. «Ora noi medici di famiglia (in tedesco si chiamano Hausarzt, letteralmente “medico di casa”) abbiamo istituito ambulatori Covid, dove ognuno di noi presta servizio. Ora disponiamo di tutti i DPI necessari, così che i nostri studi non sono più esposti. Gli appuntamenti in questa struttura possono essere presi solo da altri medici di famiglia. Per i pazienti sospetti che sono malati gravi a casa abbiamo un servizio centrale di visite a domicilio. Purtroppo anche ora capita che si presentino in ambulatorio pazienti con tosse e febbre senza appuntamento: ci dicono solo quando già sono entrati che hanno avuto contatto con qualcuno sospetto di Covid. Ma tutto sommato abbiamo avuto quasi più effetti negativi sull’economia che sul fronte sanitario. In qualche modo abbiamo potuto seguire quello che stava succedendo in altri Paesi, soprattutto in Italia, e ci siamo preparati in tempo», conclude Jerusalem.

Insomma la Germania si è data da fare: hanno fatto squadra i medici di famiglia e gli ospedali con il registro dei letti di terapia intensiva, il territorio è stato supportato in modo notevole e creativo. La Baviera ha deciso di testare tutti perché, come dice Söder, il primo ministro della Baviera: «È molto più costoso non testare invece che testare tutti». Inoltre dall’autunno del 2020 - scrive il giornale dell’ordine dei medici tedeschi [6], inizieranno, i primi corsi universitari in una nuova materia: il Community Health Nursing, l’infermiere di comunità, sul modello finlandese. Rinforzo del sistema pubblico e ruolo centrale infermieristico: un futuro per la cura della cronicità, utile anche nei contesti pandemici. La decisione è guidata non solo dalla virtù, ma anche dalla necessità visto che i medici di base scarseggiano sempre di più anche in Germania.

Mentre finisco di scrivere queste righe, il numero dei contagiati in Germania sta aumentando e il RKI è molto preoccupato. Speriamo che l'approccio creativo e razionale dei mesi passati possa continuare a essere d’aiuto, contrastando la voglia di libertà sfrenata e l'attività dei teorici della cospirazione. 

 

Note
1. Cicero 06/2020 pagina 86
2. https://www.rki.de/DE/Content/InfAZ/N/Neuartiges_Coronavirus/Intensivreg...
3. https://www.bmj.com/content/369/bmj.m2522
4. https://www.rki.de/DE/Content/InfAZ/N/Neuartiges_Coronavirus/Situationsb...
5. https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/sars-cov-2-dashboard
6. https://www.aerzteblatt.de/nachrichten/sw/Pflegepersonal?s=&p=1&n=1&nid=...

 


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Crediti immagine: Paul Brennan/Pixabay

Se c’è una struttura sanitaria per eccellenza che il cittadino vede soprattutto dall’esterno, da tutti i punti di vista, questa è il Pronto Soccorso: con regole di accesso severe e a volte imperscrutabili; che si frequenta (o piuttosto si spera di non frequentare) solo in caso di emergenza, desiderando uscirne al più presto; per non parlare di quando si è costretti ad aspettare fuori i propri cari, anche per lunghe ore o giorni, scrutando l’interno attraverso gli oblò di porte automatiche (se gli oblò ci sono), tentando (spesso invano) di intercettare qualche figura di sanitario che passa f