Tutto ha inizio con il cinema. Nel 1895, i fratelli Auguste e Louis Lumière grano un breve film 35 mm, in bianco e nero, ovviamente muto. In esso viene rappresentato l'arrivo di un convoglio trainato da una locomotiva a vapore nella stazione ferroviaria della città di La Ciotat, sulla costa azzurra.
Come la maggior parte dei primi film dei fratelli Lumière, anche questo illustra una scena di vita quotidiana. Si dice che il 6 gennaio 1896, quando il film fu proiettato per la prima volta, gli spettatori fuggissero dal cinema per paura di essere travolti. Il mondo virtuale fatto vivere dal cinema sembrava poter irrompere pericolosamente nel mondo reale.
Con gli sviluppi dell’informatica, diventa finalmente possibile creare mondi completamente immateriali, fatti di bit e di programmi e non di pellicole cinematografiche. La tecnologia fa enormi progressi, e diventa possibile proporre sullo schermo anche una fantasia nuova: quella di un mondo virtuale in cui immergersi per provare emozioni nuove e completamente sconosciute nel mondo reale.
La realtà virtuale è ormai il prodotto di una attività di ricerca che utilizza le tecnologie più avanzate per creare mondi artificiali sempre più coinvolgenti. Si tratta di software capaci di creare personaggi virtuali e farli interagire autonomamente tra loro, creando così un mondo nel quale i giocatori si proietteranno temporaneamente.
Il cinema coglie e sviluppa le implicazioni fantastiche di questa tecnologia, e quasi contemporaneamente, nel 1999, escono lo straordinario eXistenZ di David Cronenberg, il celeberrimo Matrix, di Andy e Larry Wachowski e Il 13° piano di Josef Rusnak, che degli altri due ha avuto minor fortuna ma non per questo è meno interessante.
Nel suo film, Cronenberg ipotizza prospettive future inquietanti. In particolare, viene messa in scena una tecnologia in grado non solo di permettere vite alternative vissute almeno in parte con il corpo, ma anche di intrecciare livelli diversi di realtà, proprio attraverso la dimensione corporea. Il controllo e lo sfruttamento dei processi di manipolazione genetica costituiscono il nucleo di questa tecnologia. Una tecnologia che evolve, passando da quella relativamente tradizionale a quella in cui pod biologici - biopod - sono collegati a porte praticate nel corpo fino a quella in cui i pod entrano completamente all’interno del corpo, realizzando così una simbiosi sempre più stretta con il corpo stesso.
Il futuro – nella prospettiva di Cronenberg – non è solo quello delle mutazioni e delle manipolazioni genetiche, ma è anche quello della re-invenzione del corpo. Una re-invenzione che arriva fino al punto di far sì che le bioporte diventino aperture caratteristiche di una nuova carne, aperture neo-naturali. In questo modo, una carne pensante frutto di ingegneria biologica si collega alla carne pensante degli umani attraverso il loro midollo spinale, struttura nervosa che connette il cervello con il resto del corpo.
Queste diverse tecnologie corrispondono, nel film, a livelli diversi di realtà virtuale: ma questi livelli si intrecciano in un gioco di scatole cinesi, rendendo impossibile definire i confini della “vera” realtà.
Il film Matrix ha un punto di partenza che forse sarebbe piaciuto a Raymond Queneau, l’autore della Piccola cosmogonia portatile: le macchine hanno vinto, e tengono gli uomini in schiavitù perché dipendono da loro per il rifornimento energetico, mantenendoli in una sorta di condizione fetale mentre essi credono di vivere in quello che invece è un mondo virtuale, Matrix.
Un piccolo gruppo di umani, presa coscienza di questo fatto, si assume la missione di sconfiggere le macchine, e quindi di far uscire l’umanità dalla prigione del mondo virtuale.
L’eletto, Neo, guiderà la guerra di liberazione degli umani, tra effetti speciali sempre più mirabolanti.
Anche nel film Il tredicesimo piano la tecnologia informatica è assolutamente centrale, ma è attraverso la mente – e non attraverso un collegamento fisico come in eXistenZ o in Matrix – che è possibile entrare e uscire da un mondo virtuale.
Il film si apre con una citazione da Cartesio: “Penso, dunque sono”. Ma il film, nel corso del suo svolgimento, mette un punto interrogativo alla fine di questa frase, a causa dell’agghiacciante scoperta – che diversi personaggi fanno – di vivere e di pensare in un mondo virtuale. Nello stesso tempo, però, l’affermazione cartesiana vale per questo film anche senza il punto interrogativo, nel senso che è proprio la centralità dell’informatica a sottolineare la prevalenza del pensiero sulla carne e sul sangue come fondamento dell’essere. E anche il passaggio da un mondo all’altro avviene attraverso un collegamento cerebrale, quindi attraverso il pensiero, anche se il passaggio avviene sempre approfittando del fatto che nell’altro mondo (quello che chiameremo virtuale) esiste già un personaggio che ha esattamente l’aspetto di quello che vuole entrare in quel mondo. Quest’ultimo, quindi, dovrà soltanto – per così dire – parassitarne temporaneamente il cervello, mantenendo però il ricordo della propria identità nel mondo reale.
L’uscita dai mondi virtuali è accompagnata da un senso di liberazione, quasi a volersi risvegliare definitivamente dal sogno di creazione di realtà artificiali. Realtà che, in questo film, sembrano corrompere i loro creatori, permettendo loro di vivere là i loro desideri proibiti – fantasie sessuali, impulsi omicidi – attraverso un doppio temporaneo.
Ma questo è un aspetto più generale. Nella gran parte dei film sulle realtà virtuali, infatti, l’immagine che emerge è quella di mondi non autentici, la cui frequentazione agisce come una droga, sollecitando le tendenze peggiori o, quanto meno, rendendo difficili o addirittura impossibili relazioni umane più profonde e più vere.
Una parziale eccezione è presente proprio nel film Il tredicesimo piano: ma la storia d’amore che lì nasce si può sviluppare solo uscendo dalla realtà virtuale. Un’altra eccezione è Avatar di James Cameron (2009), nel quale l’amore che nasce tra l’avatar di un giovane marine paralizzato e un’abitante di un lontano pianeta è profondo e intenso. E questo nonostante il fatto che gli avatar siano stati concepiti come strumenti militari per conquistare e sfruttare il pianeta Pandora, ricco di minerali preziosi. Ma ciò, forse, è possibile proprio perché in questo caso l’avatar non interagisce con altri avatar, ma con esseri viventi, sia pure appartenenti a un altro pianeta, in cui la bontà e l’amore non sono assenti o dimenticati: il pianeta, insomma, dell’utopia, che però gli umani vorrebbero distruggere.
Una figura ambivalente quella dell’avatar, come ambivalenti sembrano essere i sentimenti espressi dal cinema nei riguardi dei mondi virtuali. Mondi in cui si realizzano le fantasie più segrete, mondi che corrompono, mondi che fanno dimenticare la bellezza e la profondità dei rapporti umani reali. Mondi, però, in cui può accadere di incontrare l’amore: un amore reale?
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Tutto ha inizio con il cinema. Nel 1895 a La Ciotat, Bouches-du-Rhône, Francia, i fratelli Auguste e Louis Lumière grano un breve film 35 mm, in bianco e nero, ovviamente muto, della durata di 45 secondi circa. In esso viene rappresentato l'arrivo di un convoglio trainato da una locomotiva a vapore nella stazione ferroviaria della città, appunto, di La Ciotat, sulla costa azzurra.
Come la maggior parte dei primi film dei fratelli Lumière, anche questo illustra una scena di vita quotidiana. Si dice che il 6 gennaio 1896, quando il film fu proiettato per la prima volta, gli spettatori fuggissero dal cinema per paura di essere travolti. Il mondo virtuale fatto vivere dal cinema sembrava poter irrompere pericolosamente nel mondo reale. Si inaugura così una lunga catena di fantasie sui mondi virtuali, che avranno in primo luogo come centro il cinema, prima che l’informatica diventi protagonista.
Trent’anni dopo, o quasi, incontriamo un intreccio tra i due mondi – quello della realtà e quello del cinema – in uno straordinario film muto di Buster Keaton, Sherlock Jr del 1924. In questo film, un operatore cinematografico con la passione delle investigazioni, ingiustamente accusato di furto, si addormenta durante la proiezione ed entra nello schermo.
Nei panni di un famoso detective, Sherlock Jr, diventa parte del film, risolvendo un complicato caso di furto che assomiglia straordinariamente (anche nei volti dei personaggi) a una vicenda che lo ha visto coinvolto nella vita quotidiana. Alla fine di quello che non era stato che un sogno, l’investigatore dilettante si risveglia. Ma, nel frattempo, l’accusa che gli era stata fatta nel mondo reale si è rivelata falsa.
Nel 1985 Woody Allen, ammiratore e in un certo senso anche erede di Buster Keaton, realizza il film La rosa purpurea del Cairo. La storia del film, ambientata all’inizio degli anni 30, è quella di una cameriera malmaritata, Cecilia, che si consola andando al cinema appena può. E un giorno, dopo aver scoperto un tradimento del marito ed essere stata licenziata, un personaggio del film che sta guardando – Tom Baxter - la vede e, per lei, entra nel mondo reale.
Naturalmente, questo comportamento di Tom Baxter getta nel panico non soltanto gli spettatori, ma anche i personaggi del film, che dialogando col pubblico si chiedono che cosa fare. Una prospettiva quasi pirandelliana, questa, che verrà ripresa anche in altri film. A un certo punto, esasperato dai problemi che incontra nel mondo reale, Tom porta con sé Cecilia nel mondo del film, al di là dello schermo. E qui l’amore sembra poter essere perfetto e senza tempo. Ma la notizia dell’uscita dallo schermo del personaggio Tom giunge anche all’attore che lo ha interpretato. Egli si preoccupa, si precipita nel cinema dove è avvenuto il fatto inatteso, cerca di convincere Tom a rientrare nel film.
Visto che non ha successo, cerca di far innamorare Cecilia, e ci riesce. Ma questo era solo un espediente: una volta ottenuto ciò che voleva, l’attore se ne va in segreto. Alla povera Cecilia non resta che andare ancora al cinema, e sognare quel mondo meraviglioso con il quale per un tempo così breve è entrata in un contatto più stretto.
Di che cosa ci parla questo bel film di Woody Allen? Si tratta di un’opera che possiamo definire meta-cinematografica, proprio come alcuni testi pirandelliani sono meta-teatrali. Ci parla del fascino straordinario del cinema, dei processi di identificazione che, per così dire, fanno entrare lo spettatore nel film, e danno realtà a ciò che non è altro che un fascio di luce sullo schermo: una realtà che può sembrare addirittura più vera di quella che sta al di qua dello schermo. Ma forse – ecco la dimensione che potremmo definire pirandelliana – anche i personaggi del film sono vivi, di una vita virtuale, e forse sentono il desiderio di uscire, di vivere anch’essi un’altra vita che sarà forse migliore, più bella, meno ripetitiva.
Ancora intorno al tema dei mondi virtuali dello schermo è costruito il film Pleasantville di Gary Ross (1998). Un ragazzo e una ragazza, appassionati di una serie televisiva (in bianco e nero, siamo negli anni 50) intitolata appunto Pleasantville, si trovano magicamente catapultati all’interno del mondo della fiction.
Qui, tutto è in bianco e nero: non manca solo il colore, ma anche i sentimenti, le relazioni, le emozioni. La presenza dei due ragazzi riesce a colorare gradualmente l’intera città di Pleasantville, nel senso appunto di introdurre vita e passione in un mondo addormentato, e la loro partenza è occasione di lacrime e rimpianti. Ma niente ormai, a Pleasantville, sarà più come prima.
Un mondo virtuale, dunque, quello del cinema e della televisione. Un mondo in cui – è il tema di Truman show di Peter Weir del 1998 – può accadere addirittura che una persona sia imprigionata fin dalla nascita, in un set costruito apposta, con attori istruiti a recitare una parte e un regista che gestisce tutta la vita della città virtuale di Seahaven. Il protagonista –Truman, appunto – è vissuto ignaro e sereno in questo mondo artificiale continuamente filmato da telecamere nascoste e seguito da milioni di telespettatori, finché molteplici indizi non gli fanno intuire la verità.
Egli fugge allora su una barca, affrontando le tempeste che il regista scatena contro di lui, e giunge alla fine del mondo artificiale: una scena ormai famosa, la cui idea è ripresa, come vedremo, in altri film.
A questo punto, Truman entra per la prima volta nel mondo reale, abbandonando il suo mondo e la sua identità costruita artificialmente.
Giochi magici
La nascita di un mondo virtuale può anche essere frutto di una magia: una magia nascosta, in particolare, in un vecchio gioco di società dimenticato in una soffitta. Questa è l’idea centrale del film Jumanji di Joe Johnston del 1995. Due fratellini s'imbattono in soffitta in un gioco da tavolo dal nome esotico, Jumanji appunto, e cominciano una partita. Ma fin dal primo colpo di dadi Jumanji si dimostra diverso dagli altri giochi. Si ha infatti una irruzione di esseri bizzarri che escono dal nulla e minacciano la casa e la città. Si potrà porre fine a questo incubo solo terminando la partita.
In questo caso, il mondo virtuale si intreccia sinistramente con quello reale: è un mondo pericoloso, nel quale si rischia la vita. Una situazione molto simile è presentata nel film Zathura di Jon Favreau del 2006.
Anche qui, due fratelli trovano un vecchio gioco da tavolo nello scantinato di casa. Il più piccolo decide di cominciare a giocare, e questo li proietta all’improvviso nello spazio, con tutti i pericoli e le aggressioni che si possono immaginare. Il mondo virtuale comprende anche personaggi dall’apparenza umana, che interagiscono con il mondo reale finché il gioco non termina.
Magia dell’informatica
Con gli sviluppi dell’informatica, diventa finalmente possibile creare mondi completamente immateriali, fatti di bit e di programmi e non di pellicole cinematografiche. Il film Tron di Steven Lisberger (1982) è il primo in cui questa nuova realtà virtuale viene proposta, in una forma che oggi ci appare ingenua e un po’ povera, ma che allora aveva un fascino estetico tutto particolare: il fascino dei primi videogiochi.
E infatti è proprio in un videogioco, con tanto di lotta tra buoni e cattivi, che i protagonisti vengono immersi, fino al momento in cui riescono a uscire.
In questo film la realtà virtuale viene vista come un mondo angoscioso, un incubo in cui si viene imprigionati per la malvagità del capo di una multinazionale e del computer che è al suo servizio.
Dieci ani dopo, la tecnologia ha fatto enormi progressi, e diviene possibile proporre sullo schermo anche una fantasia diversa: quella di un mondo virtuale in cui immergersi per provare emozioni nuove e completamente sconosciute nel mondo reale.
Questo accade nel film Il tagliaerbe di Brett Leonard (1992).
Non è il caso di soffermarsi su questo film, piuttosto modesto. C’è solo da segnalare che per la prima volta viene presentato qui il trasferimento di un essere umano dalla realtà quotidiana alla realtà virtuale costruita dal computer (analogamente a quanto accadeva nelle fantasie sul rapporto tra cinema e realtà), e con questo trasferimento prende corpo anche una fantasia di potere illimitato, al di là delle intenzioni dei progettisti, appunto perché il protagonista trova il modo di agire sulla realtà quotidiana dall’interno della realtà virtuale. Naturalmente, alla fine il mondo reale finirà col prevalere, distruggendo le attrezzature che hanno creato il mondo virtuale, divenuto ormai troppo pericoloso.
Come vedremo, lo spunto del passaggio da una realtà all’altra, qui appena accennato, verrà ripreso ampiamente nei film più importanti sui mondi virtuali.
Un tipo diverso di virtualità viene proposto dalla regista Kathryn Bigelow nel suo Strange Days del 1995. Qui il protagonista è un trafficante di “squid”, di emozioni forti registrate direttamente dalla corteccia cerebrale degli esseri umani, e fruibili attraverso memorie collegate a uno speciale casco: esperienze che portano con sé tutto il loro carico di passione, di angoscia, di orrore. Questo commercio di emozioni ha come sfondo un mondo corrotto e violento, drogato da passioni che sono virtuali proprio perché sono originariamente di altri: passioni che possono corrispondere anche a efferate torture, a terribili delitti.
Si tratta di un film cupo e violento, che cito soltanto per segnalare la presenza di una tecnologia che salta le classiche interfacce visive e uditive in favore di una relazione diretta con il cervello di chi registra e di chi poi “vive” la registrazione. Come vedremo, David Cronenberg immaginerà tecnologie analoghe nel suo eXistenZ.
Videogiochi
Con lo sviluppo della tecnologia informatica, anche i videogiochi diventano profondamente diversi da quelli che avevamo visto in Tron o nel Tagliaerbe: acquistano sempre più il carattere di mondi in cui ci si può immergere, venendo a contatto non solo con pericoli impersonali, ma anche con una molteplicità di personaggi interni al gioco, dotati di loro caratteristiche, di loro programmi d’azione, addirittura di loro personalità.
Nel film Nirvana di Gabriele Salvatores (1997) incontriamo un programmatore di giochi, Jimmy, che ha progettato un gioco chiamato, appunto, Nirvana. Il software del gioco viene aggredito da un virus che provoca nel protagonista, Solo, una mutazione inattesa e problematica. Solo, infatti, prende improvvisamente coscienza del suo essere nient’altro che un personaggio del gioco, e sente tutta la falsità e la ripetitività di questa condizione. Non appena riesce misteriosamente a entrare in contatto col suo creatore, lo prega perciò di cancellarlo per sempre.
E’ una preghiera, questa, del tutto inaspettata, che segna la differenza dai personaggi del film La rosa purpurea del Cairo. Solo vorrebbe scomparire insieme al gioco: ma è l’unico, tra i personaggi del gioco, ad avere questa acuta consapevolezza della propria condizione. In particolare, nemmeno la vista dei confini del mondo virtuale (una scena che abbiamo già incontrato in Truman Show) convincerà un altro personaggio, Maria, della propria inesistenza.
Anche Johnny ha interesse a distruggere il gioco, ormai contaminato da un virus. Dopo una sequenza di avventure degne, appunto, di un videogioco, Johnny arriverà finalmente a spegnere Nirvana, ponendo Solo di fronte all’imminenza della propria morte.
Nel 1999 esce un film di David Cronenberg, geniale come molti film di questo regista: eXistenZ. Si tratta di uno dei film più importanti e originali sulla realtà virtuale, e su di esso quindi ci soffermeremo un po’ più a lungo.
La realtà virtuale è qui il prodotto di una attività di ricerca che utilizza le tecnologie più avanzate per creare mondi virtuali sempre più coinvolgenti. Si tratta, ovviamente, di tecnologie informatiche, e in particolare di un software capace di creare personaggi virtuali e farli interagire tra loro, creando così un mondo completamente artificiale nel quale i giocatori si proiettano temporaneamente.
All’inizio del film, assistiamo alla presentazione di un nuovo gioco da parte di una azienda, Antenna Research, a un gruppo di fedeli clienti. eXistenZ (questo è il nome del gioco) è la prima parola che viene pronunciata e scritta sulla lavagna, con la sua bizzarra trasgressione delle convenzioni di scrittura, che resta enigmatica nel corso del film.
Vengono scelti 12 partecipanti per connettersi al gioco – sotto la guida di Allegra Geller, “la più nota e affermata game designer”, “la dea del game pod” - per mezzo di interfacce particolari (“metacarnali”) da connettere alle loro “bioporte” attraverso una sorta di cordone ombelicale. In eXistenZ, come si vede, c’è una particolare attenzione all’interfaccia uomo- tecnologia: la tecnologia della realtà virtuale si è ormai profondamente trasformata, orientandosi decisamente verso la materia organica.
Allegra estrae il suo game pod master, e tutti gli altri connettono i nuovi pod alle loro “bioporte”. Durante il download del nuovo gioco eXistenZ, i pod iniziano a muoversi quasi come fossero vivi. All’improvviso, un ragazzo entrato in ritardo estrae una strana pistola organica e la punta su Allegra. “Morte al demone Allegra Geller!”
Tutti fuggono. Ted – quello che insieme ad Allegra sarà il protagonista del film - prende sulle spalle Allegra ferita e la porta via. Quasi per magia, i due giungono a un motel. Allegra scopre che Ted non ha una bioporta. Ted confessa il suo timore al pensiero del proprio “corpo penetrato chirurgicamente”. Allegra lo rassicura: “Lo fanno nei centri commerciali, è come bucarsi le orecchie”. “Una volta che hai la porta... non ci sono limiti ai giochi che puoi fare...”. Siamo di fronte a una tecnologia profondamente erotizzata, capace di dare quelle sensazioni e quelle emozioni che ormai sembra non si possano più ottenere in altro modo. In un certo senso, con queste tecnologie l’umanità sta reinventando se stessa e il proprio corpo. Ted acconsente a farsi installare una “bioporta illegale” ad una stazione di servizio. Mentre Ted ha sempre più paura, il benzinaio esegue le operazioni per posizionare e installare la bioporta: qualcosa di naturale, ormai, in un mondo dove tutto l’organico sta ormai mutando, e una nuova naturalità sta nascendo.
Una volta collegata, la bioporta si rivela però difettosa, rischiando di distruggere il pod master di Allegra. C’è bisogno di aiuto per ripararlo e non perdere completamente il gioco eXistenZ. Kiri Vinokur, vecchio amico di Allegra, si accinge a riparare il suo pod. Questo, una volta aperto, si rivela completamente di carne. Kiri: “Ci sono danni molto gravi... ha bruciato una buona porzione di rete neurale molto costosa... è ottenuto dalla fertilizzazione di uova di anfibio imbottite di DNA sintetico...”. Alla ingenua domanda di Ted “E le batterie dove sono?” , Allegra risponde: “E’ collegato con te, sei tu l’alimentazione...” C’è dunque una simbiosi completa tra corpo e pod, al punto che quest’ultimo si può quasi considerare una parte del corpo.
Kiri installa a Ted una nuova porta, e rende così possibile riprendere a giocare eXistenZ. All’improvviso, senza una netta soluzione di continuità, siamo in un negozio di giochi. Allegra e Ted si sono procurati i nuovi “micropod” della Cortical Systematics, molto più piccoli dei precedenti (a loro volta molto più piccoli del pod dentro il quale l’attentatore aveva nascosto la pistola). Il nuovo pod entra completamente all’interno del corpo.
All’improvviso, Ted si trova in un mondo nuovo, e dopo varie avventure insieme ad Allegra in un ristorante cinese, ordina con difficoltà un cibo che gli è stato consigliato, lo mangia nonostante il disgusto, e si accorge che le ossa residue compongono una pistola proprio come quella che aveva sparato ad Allegra. Obbedendo a un impulso irresistibile, Ted uccide il cameriere cinese.
Dopo varie vicissitudini, e vicende assai ingarbugliate, il gioco va verso la conclusione. Ci ritroviamo nell’ambente dell’inizio: tutti i partecipanti, compresa Allegra, al posto dei biopod hanno cuffie (apparentemente simili a quelle già viste in Strange Days) e comandi manuali. Un po’ alla volta riconosciamo i volti di personaggi di eXistenZ, ma anche della sua preparazione all’inizio. La ragazza dello staff annuncia che tutti i giocatori hanno acquisito il diritto di ottenere a un prezzo scontatissimo e in anteprima il gioco transCendenZ di Pilgrimage, che hanno appena sperimentato. Questo ci fa capire che eXistenZ era un gioco dentro il quale si giocava un altro gioco, ma non solo: la stessa presentazione e preparazione di eXistenZ lo era, perché faceva parte del gioco transCendenZ.
Improvvisamente, Ted estrae due pistole nascoste e insieme ad Allegra spara, gridando contro il gioco transCendenZ. Mentre tutti gli altri sono impietriti, Allegra e Ted se ne vanno. Puntano la pistola contro un sorvegliante asiatico, che grida “No, no, non dovete sparare a me.... ditemi la verità, siamo ancora nel gioco?” Ted e Allegra rimangono interdetti, e il film si chiude su questa scena.
Con questo finale ironico si conclude la sequenza di scatole cinesi che struttura il film: un film che ipotizza prospettive future inquietanti. In particolare, viene messa in scena una tecnologia in grado non solo di permettere vite alternative vissute almeno in parte anche con il corpo, ma anche di intrecciare livelli diversi di realtà, proprio attraverso la dimensione corporea. Il controllo e lo sfruttamento dei processi di manipolazione genetica – “un segno dei tempi”, ha commentato Allegra di fronte a un anfibio a due teste – è il nucleo di questa tecnologia. Una tecnologia che evolve, passando da quella relativamente tradizionale – informatica - della presentazione di transCendenZ a quella di eXistenZ, in cui i biopod sono collegati alle bioporte per mezzo di umbicord fino a quella del gioco all’interno di eXistenZ, in cui i pod entrano completamente all’interno del corpo, realizzando così una simbiosi sempre più stretta con il corpo stesso.
Il futuro – nella prospettiva di Cronenberg – non è solo quello delle mutazioni e delle manipolazioni genetiche, ma è anche quello della re-invenzione del corpo. Una re-invenzione che arriva fino al punto di far sì che le bioporte diventino aperture caratteristiche di una nuova carne, aperture neo-naturali. In questo modo, una carne pensante si collega alla carne pensante degli umani attraverso il loro midollo spinale, struttura nervosa che connette il cervello con il resto del corpo: nel gioco all’interno di eXistenZ, ne diviene addirittura parte.
Nel corso del gioco – come abbiamo visto nella scena del ristorante cinese - i personaggi si sentono spesso costretti a obbedire a impulsi irresistibili: “autentici impulsi di gioco”, come li definisce Allegra. Ma questo determinismo pulsionale non è presente anche al di fuori del gioco? Siamo sicuri di non essere dentro un enorme gioco, costruito attraverso tecnologie sempre più pervasive e invasive? O, più radicalmente ancora, ci provoca Cronenberg: non è tutta la vita come un gioco nel quale noi abbiamo quasi soltanto l’illusione della libertà?
Mondi virtuali
Il 1999 si può definire l’anno dei film sulla realtà virtuale: oltre allo straordinario eXistenZ di David Cronenberg escono infatti il celeberrimo Matrix, dei fratelli Andy e Larry Wachowski e Il tredicesimo piano di Josef Rusnak, che di Matrix ha avuto minor fortuna ma non per questo è meno interessante.
Il film Matrix ha un punto di partenza che forse sarebbe piaciuto a Raymond Queneau, l’autore della Piccola cosmogonia portatile: le macchine hanno vinto, e tengono gli uomini in schiavitù perché dipendono da loro per il rifornimento energetico, mantenendoli in una sorta di condizione fetale mentre essi credono di vivere realmente in quello che invece è un mondo virtuale, Matrix. Un piccolo gruppo di umani, presa coscienza di questo fatto, si assume la missione di sconfiggere le macchine, e quindi di far uscire l’umanità dalla prigione del mondo virtuale. Il comandante dell’astronave Nabucodonosor, Morpheus, che insieme al suo equipaggio sa come entrare e uscire dal mondo virtuale, individua in Neo l’eletto che potrà portare a termine l’opera di liberazione.
Neo viene fatto rientrare nel mondo reale, e scopre la condizione fetale degli umani. Dall’astronave Nabucodonosor, dove viene fatto entrare, Neo può gettare per la prima volta uno sguardo sulla realtà e sul mondo virtuale di Matrix. A questo scopo, Morpheus e Trinity utilizzano un potente software al quale ci si connette con la stessa presa (la stessa bioporta, direbbe Cronenberg) attraverso la quale passa il collegamento con Matrix.
L’opera di Neo sarà contrastata dagli emissari di Matrix: essi non sono altro che programmi specializzati per eliminare ogni rivolta. Neo però prenderà sempre più coscienza della propria missione, scoprendo anche l’amore per Trinity, e si preparerà alla liberazione degli umani.
Il film Matrix termina in modo completamente aperto, e questo ha permesso la realizzazione di una vera e propria saga, con l’uscita di Matrix Reloaded e Matrix Revolutions, ambedue del 2003. In questi film, effetti speciali sempre più mirabolanti accompagnano le intricate vicende della guerra di liberazione degli umani dalla tirannia delle macchine.
Anche nel film Il tredicesimo piano informatica è assolutamente centrale, ma è attraverso la mente – e non attraverso un collegamento fisico come in eXistenZ o in Matrix – che è possibile entrare e uscire da un mondo virtuale.
L’ispirazione per questo film viene da lontano. Infatti, nel 1973, il regista Rainer Maria Fassbinder realizza un teutonico film TV in due puntate, Mondo sul filo, tratto dal romanzo di fantascienza di qualche anno prima Simulacron 3 (pubblicato in italiano dall’editrice Nord) di Daniel Galouye, un giornalista scientifico americano. Come spesso accade nel caso della fantascienza, questo libro ha qualità letterarie modeste (per di più, la traduzione italiana è decisamente sciatta), ma contiene un’idea molto felice per una trasposizione cinematografica.
In questo caso, si immagina che in una società caratterizzata ormai dal costoso dilagare dei sondaggi di opinione (non molto diversa, quindi, dalla nostra...) una azienda di informatica realizzi un mondo completamente virtuale – informatico, appunto – capace di simulare efficacemente quello reale, e dunque di permettere sondaggi molto più rapidi, economici ed efficaci. Ma il direttore del progetto muore in circostanze misteriose, e a questo punto ci saranno colpi di scena e prospettive nuove di cui accenneremo in seguito.
Nel romanzo c’è un aspetto che sarà centrale nel Il tredicesimo piano: i personaggi che popolano il mondo virtuale non sono delle pure marionette comandate dall’esterno, ma sono capaci di autonomia, e addirittura di coscienza di sé. Abbiamo già incontrato situazioni del genere in altri film di cui ci siamo occupati. E’ possibile – a partire dal mondo che chiameremo reale – entrare in quello virtuale, controllarne alcuni aspetti, modificare le storie che là si svolgono.
Il regista Josef Rusnak è pressoché sconosciuto, almeno da noi, e lo stesso si può dire di molti degli attori. Il risultato, però, è un film interessante, pieno di riferimenti a temi già presenti in altre opere (i limiti del mondo virtuale, le sofferenze inutili dei personaggi di quel mondo, la realtà del mondo reale), con qualche ingenuità negli effetti speciali che richiamano l’informatica dei tempi di Tron. Ma è un film che fa pensare: in presenza di una realtà virtuale abitata da personaggi dotati di coscienza, i rapporti tra le persone nel mondo che chiameremo reale influenzano quelli nel mondo che chiameremo virtuale, e viceversa, in un intreccio inestricabile. Qui un lieto fine consolatorio – forse troppo – rasserenerà lo spettatore, ma i problemi posti restano aperti.
Il tredicesimo piano si apre con una citazione da Cartesio: “Penso, dunque sono”. Ma il film, nel corso del suo svolgimento, mette un punto interrogativo alla fine di questa frase, a causa dell’agghiacciante scoperta – che diversi personaggi fanno - di vivere e di pensare in un mondo virtuale. Nello stesso tempo, però, l’affermazione cartesiana vale per questo film anche senza il punto interrogativo, nel senso che è proprio la centralità dell’informatica a sottolineare la prevalenza del pensiero sulla carne e sul sangue come fondamento dell’essere. E anche il passaggio da un mondo all’altro avviene attraverso un collegamento cerebrale, quindi attraverso il pensiero, anche se il passaggio avviene sempre approfittando del fatto che nell’altro mondo (quello che chiameremo virtuale) esiste già un personaggio che ha esattamente l’aspetto di quello che vuole entrare in quel mondo. Quest’ultimo, quindi, dovrà soltanto – per così dire – parassitarne temporaneamente il cervello, mantenendo però il ricordo della propria identità nel mondo reale.
Al tredicesimo piano di un palazzo, in un laboratorio di informatica di oggi, si è realizzato il sogno di poter trasferire la propria mente in un essere di un mondo virtuale, vivere una vita in una realtà diversa, per qualche ora, e poi tornare nel presente. Il mondo virtuale, su cui si è lungamente lavorato ed è ora in fase di sperimentazione, è quello della Los Angeles del 1937.
Alcuni personaggi del 1937 avranno così una doppia vita: quella abituale e quella temporanea che vivono quando qualcuno, dal di fuori, trasferisce in loro la propria mente, inventando per loro una nuova identità.
Per ora, soltanto il capo del progetto informatico, Hannon Fuller, ha sperimentato l’ingresso nel mondo virtuale. Ma nel frattempo ha scoperto qualcosa di terribilmente inquietante, qualcosa che cambia tutto. Egli lascia allora ad un fidato cameriere, nel 1937, una lettera segretissima per un collega (del presente, Douglas Hall), che – avvertito da una telefonata - dovrà andare a prenderla, appunto, nel mondo virtuale. Douglas entra per la prima volta nel mondo virtuale, superando i limiti di prudenza.
Il cameriere ha letto di nascosto la lettera ed è rimasto sconvolto. Il suo mondo, che credeva reale, non è che una simulazione. E l’incontro con i limiti del mondo lo convincerà definitivamente. Racconterà tutto questo a Douglas, il quale entrando nel mondo virtuale ha scoperto che Fuller conduceva qui una seconda vita da mondano gaudente. Douglas, ritornato nel mondo di oggi, è preso da un sospetto, e scopre che la verità che Fuller aveva cercato di comunicargli è ben più drammatica: anche il suo mondo è una simulazione!
All’improvviso, Fuller viene assassinato, e tutti gli indizi sembrano convergere su Douglas. Compare Jane, imprevista figlia di Fuller, che vuole saperne di più, e scopre che è stato sì Douglas a uccidere Fuller, ma un Douglas comandato dall’esterno, dal mondo reale del 2024. Anche Jane ha una doppia personalità: si chiama, nel presente, Natascha Molinaro, e soffre di periodiche amnesie, relativa ai periodi in cui la Jane del futuro si impadronisce di lei, inventando l’inesistente figlia di Fuller. Il marito della Jane del futuro è quello che ha dato a Douglas – entrando nella sua mente - l'ordine di uccidere Fuller, e ha inviato la moglie nel presente per disattivare il sistema che ha creato il 1937 virtuale: uno dei tanti mondi virtuali esistenti, ma l’unico all’interno del quale si è iterativamente creato un mondo virtuale.
Douglas e Jane si innamorano: è amore tra due personaggi del presente, dei quali però, al momento, Jane è abitata da un personaggio del futuro. Il marito di Jane, David, è un violento, che viene ucciso nel presente da un poliziotto mentre è entrato in Douglas. Ma un attimo prima Douglas si scambia con lui, riuscendo a trasferirsi nel mondo del futuro. E' ora il 21 giugno 2024. Jane porta Douglas sul terrazzo di casa. Lui chiede: "Dove mi trovo?" Lei saluta il padre – che ha una singolare somiglianza con Fuller! – che passeggia sulla spiaggia e risponde a David: "Quante cose ti devo raccontare".
L’uscita dai mondi virtuali (il ritorno nel mondo del futuro, per Jane, la nascita straordinaria al mondo reale, per Douglas) è accompagnata da un senso di liberazione, quasi a volersi risvegliare definitivamente dal sogno di creazione di realtà artificiali. Realtà che – in questo film – sembrano corrompere i loro creatori, permettendo loro di vivere là i loro desideri proibiti attraverso un doppio temporaneo (un avatar virtuale, potremmo definirlo, usando questa espressione che in ambito religioso nella lingua sanscrita significa incarnazione). Infatti, Fuller realizza le sue fantasie sessuali, mentre David soddisfa le sue pulsioni omicide.
Avatar
Si propone così, con questo film, la tematica degli avatar. Come in questo caso, può trattarsi di personaggi virtuali che agiscono in un mondo virtuale (manovrati dall’interno del mondo reale, o almeno che si ritiene tale). Ma possono essere anche le persone stesse, immerse però in un mondo artificiale popolato di robot, dove si sospendono le norme civile e morali della società, come accadeva già nel film Il mondo dei robot di Michael Crichton (1973).
Nel caso del film Surrogates (Il mondo dei replicanti, 2009) di Jonathan Mostow, la situazione è ancora diversa. Gli avatar, infatti, sono robot che propongono al mondo le caratteristiche che i loro proprietari desidererebbero avere, i quali, comandati a distanza, interagiscono con altri robot o anche con umani in un mondo reale in cui la presenza di “surrogati” è sempre crescente.
Ognuno si nasconde (si mostra) dietro l’apparenza del proprio avatar, che viene curato in ogni modo per corrispondere alle fantasie dell’umano che lo comanda.
Il film prende spunto da un misterioso omicidio, in un contesto in cui le caratteristiche fisiche non hanno più un potere identificativo, perché dietro un “surrogato” ci può essere chiunque.
Anche in questo caso, la trama è troppo intricata per poter venire agevolmente riassunta in poche righe. Comunque, alla fine l’intera popolazione degli avatar viene disattivata, e questo renderà possibile finalmente incontri personali (in questo caso, tra marito e moglie), con tutto il carico di fragilità, di deterioramento, di dolore ma anche di affetto e di intimità che la vita attraverso surrogati, nella sua perfezione esteriore, aveva reso impossibili.
Possiamo fermarci qui, nella nostra rassegna sui mondi virtuali nel cinema. Nella gran parte dei casi, l’immagine che emerge è quella di mondi non autentici, la cui frequentazione agisce come una droga, sollecitando le tendenze peggiori o, quanto meno, rendendo difficili o addirittura impossibili le relazioni umane più profonde e più vere.
Una parziale eccezione è presente nel film Il tredicesimo piano: ma la storia d’amore che lì nasce si può sviluppare solo uscendo dalla realtà virtuale. Un’altra eccezione è Avatar di James Cameron (2009), nel quale l’amore che nasce tra l’avatar di un giovane marine paralizzato e un’abitante di un lontano pianeta è profondo e intenso. E questo nonostante il fatto che gli avatar siano stati concepiti come strumenti militari per conquistare e sfruttare il pianeta Pandora, ricco di minerali preziosi. Ma ciò, forse, è possibile proprio perché in questo caso l’avatar non interagisce con altri avatar, ma con esseri viventi, sia pure appartenenti a un altro pianeta, in cui la bontà e l’amore non sono assenti o dimenticati. Il pianeta, insomma, dell’utopia, che gli umani vorrebbero distruggere.
Una figura ambivalente quella dell’avatar, come ambivalenti sembrano essere i sentimenti espressi dal cinema nei riguardi dei mondi virtuali. Mondi in cui si realizzano le fantasie più segrete, mondi che corrompono, mondi che fanno dimenticare la bellezza e la profondità dei rapporti umani reali. Mondi, però, in cui può accadere di incontrare l’amore: un amore reale?