fbpx Nucleare: tra l’imprevisto e l’imprevedibile | Scienza in rete

Nucleare: tra l’imprevisto e l’imprevedibile

Read time: 3 mins

I due colpi, il sisma e le onde di tsunami, che in rapida successione si sono abbattuti venerdì scorso sul Giappone sono stati senza dubbio alcuno fuori dall’ordinario. Il terremoto di magnitudo 9,0 è il più forte mai registrato nell’arcipelago nipponico e il quinto per potenza mai registrato al mondo. Lo tsunami, con onde alte fino a 10 metri, è avvenuto sottocosta e in pochi attimi ha raggiunto e devastato un territorio pianeggiante.

Le perdite umane sono state alte: si parla di migliaia di morti. Ma gli esperti non hanno dubbi: in qualsiasi altra parte del mondo, con analoga intensità abitativa, sarebbero stati ben maggiori. Basta ricordare che proprio lo scorso anno ad Haiti un terremoto di magnitudo 7,0 – di due ordini di grandezza meno potente – e senza tsunami ha causato quasi 300.000 morti. Pur nella tragedia, il Giappone ha dimostrato che per capacità tecnologica e cultura della prevenzione non ha pari al mondo.

Tuttavia oggi il mondo è col fiato sospeso a causa di un effetto secondario del terremoto e dello tsunami: la crisi del sistema nucleare. Non il collasso, si badi bene. Perché nessun dei 55 reattori che costituiscono il sistema nucleare giapponese è collassato e tutti quelli a rischio sono stati spenti automaticamente non appena è stata registrata la scossa sismica. Ma una crisi del sistema, quella sì c’è stata. Il sistema ausiliario di refrigerazione non ha funzionato bene, soprattutto (ma non solo) in alcuni reattori della centrale di Fukushima. Provocando una crisi seria: perché già oggi, mentre la situazione è ancora in evoluzione e minaccia di peggiorare, quello ai reattori giapponesi è considerato il più grave incidente della storia del nucleare civile dopo Chernobil. L’ISPRA, l’Ente pubblico di ricerca italiano che si occupa di ambiente e anche di sicurezza nucleare, classifica l’incidente di Fukushima al livello 5 della scala INES (International Nuclear Event Scale), che va da 1 a 7. Le autorità nucleari francesi lo classificano, addirittura, al livello 6.

Le notizie sono ancora frammentarie. Non sappiamo se c’è stata, in qualcuno dei reattori, fusione del nocciolo. Non sappiamo se i giapponesi riusciranno a refrigerare i reattori surriscaldati. Sappiamo però che ci sono state diverse esplosioni, di natura chimica, che hanno provocato emissioni, più o meno controllate, di nubi definite nocive dal governo giapponese.

Non conosciamo né la quantità né la natura della radiazione liberata nell’ambiente. Sappiamo però che il governo di Tokio ha deciso di evacuare l’area intorno alla centrale per un raggio prima di 10, poi di 20, poi di 30 chilometri.

Non conosciamo ancora le cause precise della crisi del sistema ausiliario di refrigerazioni in così tanti reattori. E solo una conoscenza dettagliata potrà trasformarsi in una spiegazione significativa. Tuttavia una cosa è certa: il sistema nucleare giapponese – o, almeno, una parte di esso – non è stato progettato e realizzato per sopportare i due terribili colpi: il terremoto di altissima intensità e l’arrivo in tempi rapidissimi delle terribili onde di tsunami.

Bisogna capire se l’imprevisto è risultato tale perché imprevedibile. Oppure per carenze di progettazione. Il nodo non è da poco. Perché, in ogni caso, propone domande cui non è semplice rispondere.

Poniamo che il doppio colpo imprevisto in Giappone fosse imprevedibile. Questo non ci deve portare a rivedere profondamente i fondamenti teorici su cui costruiamo i nostri sistemi di prevenzione del rischio? Se, al contrario, il grave incidente è stato tale per colpa oggettiva dei progettisti (era prevedibile e non è stato previsto) nel paese a elevatissimo sviluppo tecnologico e a elevatissima cultura della prevenzione, non è il caso di rivedere in profondità il modo in cui mettiamo in pratica i fondamenti teorici della prevenzione del rischio?

Rispondere a queste domande viene prima della domanda che oggi campeggia sulla prima pagine e persino sulle agende delle cancellerie di tutto il mondo: nucleare sì o nucleare no?


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Il taglio alle università, una doccia fredda sul Piano del rilancio della nostra ricerca pubblica

taglio fondi universita

Il Fondo di finanziamento ordinario delle università italiane per il 2024 subirà un taglio di circa mezzo miliardo di euro: il provvedimento potrebbe mettere a rischio la crescita e la sopravvivenza delle università statali italiane, nonostante il progresso registrato tra il 2019 e il 2023. Il Piano Amaldi-Maiani propone di integrare i fondi del PNRR con 6,4 miliardi di euro aggiuntivi dal 2024 al 2027 per mantenere gli investimenti nella ricerca pubblica al livello attuale, pari a circa lo 0,7% del PIL. Senza queste risorse aggiuntive, terminato il PNRR, molti ricercatori si troverebbero senza lavoro e costretti come molti loro colleghi a prendere la via dell’emigrazione.

Immagine di copertina creata con DALL-E

Brutte notizie per le università italiane, che si vedono tagliare per decreto il Fondo di finanziamento ordinario 2024 (FFO), un taglio che secondo la Conferenza dei rettori ammonta a circa mezzo miliardo di euro. «Il provvedimento – spiega il documento dei rettori – presenta notevoli elementi di criticità che, se confermati, rischiano non solo di arrestare l'evoluzione virtuosa del sistema universitario nazionale ma anche di mettere a rischio la sopravvivenza stessa dell'università statale italiana».