Che relazione c’è tra ciò che consumiamo quotidianamente e il nostro comportamento? Qualche settimana fa, avevo raccontato in questa rubrica il recente caso di Stefania Albertani, giovane donna condannata a 20 anni di detenzione per l’omicidio della sorella e il tentato l’omicidio dei genitori [http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/poligrafo-avrebbe-salvato-troy-davis]. In sede di giudizio, il G.I.P di Como aveva riconosciuto la semi-infermità di mente, riducendo la pena, e fondando la propria decisione sui risultati di test psichiatrici, neuroscientifici e genetici condotti dai periti della difesa. Da questi ultimi era emersa una presunta predisposizione genetica della Albertani alla aggressività, conclusione che ha suscitato non poche polemiche e dubbi tra giuristi e scienziati.
La ricerca di una causa che possa spiegare il comportamento violento e antisociale è una storia in continua evoluzione, e questa volta non parliamo di geni ma di cibo, o meglio, di bibite zuccherate (soft drinks). I risultati di uno studio condotto da Solnic e Hemenway, ricercatori rispettivamente della University of Vermont (USA) Harvard School of Public Health (USA), su un campione di quasi 2000 adolescenti di Boston, indicano una connessione piuttosto evidente tra il consumo di queste bevande e l’assunzione di comportamenti aggressivi. La ricerca si è basata sui risultati di un test presentato a studenti sedicenni di Boston. La domanda centrale del test era: "quante volte hai bevuto una bibita - non dietetica - nell’ultima settimana?". Seguivano altre domande relative al consumo di alcool, a episodi di violenza con amici e coetanei, familiari, il partner, e relative al possesso di armi.
I risultati hanno colpito gli stessi ricercatori e citerò qui qualche esempio: tra coloro che consumano più di 5 bibite alla settimana il possesso di armi è pari al 40%, mentre tra coloro che ne consumano meno di 4 alla settimana è pari al 26%. Coloro che consumano più bibite, inoltre, nel 56% dei casi hanno avuto episodi di violenza nei confronti dei coetanei, nel 26% dei casi della fidanzata o fidanzato, e nel 42% dei casi con fratelli o sorelle. Se guardiamo i dati del gruppo di coloro che bevono poca soda o non ne consumano, le stesse percentuali scendono rispettivamente al 39%, 16% e 27%. I risultati della ricerca mostrano anche che coloro che bevono molte bibite corrispondono a coloro che consumano più alcol e hanno un limitato dialogo con i propri familiari, e si può quindi dedurre che il fenomeno della riscontrata violenza abbia alla base anche fattori sociali. Da un punto di vista più prettamente scientifico, le ragioni di tale connessione, comunque, vengono spiegate con un potenziale impatto negativo dell’eccessiva quantità di zucchero combinata alla caffeina presente nella quasi totalità delle bibite che normalmente consumiamo. Qualche anno fa, alcuni ricercatori avevano proposto di intervenire sul consumo di alcool tra i giovani, che condurrebbe a gravi episodi di violenza, attraverso una politica fiscale tesa a scoraggiare le bevande alcoliche per favorire i soft drinks. Ciò che Solnic e Hemenway vogliono comunicare attraverso questo studio è che tale soluzione potrebbe essere invece molto dannosa, invitando ad approfondire scientificamente la relazione tra bibite e violenza.
Ma torniamo alla nostra prova scientifica in tribunale. Se i risultati dei test genetici hanno visto il successo della difesa che sosteneva la presenza nell’imputata di alleli “sfavorevoli” al controllo dell’aggressività (così li ha descritti il giudice nella sentenza), risulta difficile pensare che l’aver bevuto troppa soda possa servire a uno scopo simile. Ebbene, forse ci dovremmo ricredere.
Il processo che nel 1979 ha visto coinvolto Dan White nell’assassinio di Harvey Milk, consigliere comunale di San Francisco che si batteva per i diritti degli omosessuali (celebre il film-biografia “Milk” uscito nelle sale italiane nel 2008), ha reso famosa la cosiddetta “Twinkies Defence”. L’imputato, infatti, è stato condannato a una pena inferiore grazie alla strategia della difesa, che sosteneva una sua grave depressione dovuta anche al recente incremento nel consumo di cibo spazzatura e di soft drinks. La difesa deve il nome alle merendine Twinkies, che White avrebbe consumato in modo quasi spropositato la sera precedente all’omicidio. Un giurato, dopo il processo, pare abbia dichiarato di essersi convinto che la sua mancata lucidità fosse dovuta a ipoglicemia, e altri che gli effetti negativi del junk food lo avessero portato a un peggioramento della sua depressione.
In attesa di avere qualche risultato più preciso da ulteriori studi sul consumo di bibite zuccherate, la questione degli effetti negativi sugli adolescenti non si limita a un potenziale impatto sul comportamento aggressivo ma anche e soprattutto sulla forte e accertata connessione con l’obesità. Finché famosi cantanti e sportivi sponsorizzeranno queste bevande, e finché saranno vendute nelle scuole e nelle università a prezzi simili all’acqua (questo accade soprattutto in America), sarà difficile combatterne il consumo. Tutto ciò porta a concludere che ora il diritto ha una ragione in più per concentrarsi su come stabilire una policy adeguata a scoraggiare il consumo di bibite, soprattutto tra i giovani.
Sumner
M, Parker H. Low
in Alcohol: A Review of International Research into Alcohol’s Role
in Crime Causation.
London: The Portman Group, 1995.
Solnick
S.J.,
Hemenway D., The
‘Twinkie Defense’: the relationship between carbonated non-diet
soft drinks and violence perpetration among Boston high school
students,
Injury Prevention (2011).