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Consumo di suolo, emergenza italiana

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Il cemento cresce più degli abitanti, sopratutto in Italia, anche se il fenomeno dell'urbanizzazione è in realtà planetario. Con una differenza. Almeno nei paesi industrializzati e di antica tradizione pianificatoria, lo sviluppo spaziale delle città viene quanto meno regolato in modo da non produrre quella disseminazione metastatica dell'urbanizzato (il cosiddetto urban sprawl) che è così tipica delle campagn italiana. Di questo parla il recente Dossier elaborato da FAI e WWF dal titolo Terra rubata. Viaggio nell'Italia che scompare. Un viaggio istruttivo, a volte deprimente, che mstra una delle principali chiavi dell'arretratezza del sistema economico italiano, fotemente basato sul ciclo distruttivo dell'edilizia.

Una proliferazione urbana senza fine

Nelle regioni studiate finora dall'università dell'Aquila per conto di FAI e WWF, il 44% della superficie nazionale, fra gli anni ’50 e gli anni 2000 la copertura urbana è aumentata del 400% in Molise, Puglia e Abruzzo, del 500% in Emilia Romagna e del 1154% in Sardegna. I ricercatori hanno poi esaminato la relazione fra aumento delle superfici urbanizzate e decremento demografico (indice di contraddizione demo-urbana): c’è una significativa tendenza alla crescita urbana anche in luoghi soggetti a forte calo demografico, con picchi di 800 m² di superfici urbanizzate in più per ogni abitante perso.

Significativa è la situazione in Pianura Padana: suoli altamente produttivi sono stati spazzati via da città grandi e piccole, in una rassegna quasi ininterrotta di edifici che collega Torino e Venezia. A metà strada tra queste due città si colloca la Lombardia, una regione che dal 1999 al 2007 ha visto diminuire i terreni agricoli di oltre quarantatremila ettari, a fronte di un aumento delle zone urbanizzate pari a trentaquattromila ettari: in pratica sarebbe come aver già perso due aree verdi grandi come l’Isola d’Elba per far spazio a una nuova città delle dimensioni di Monza. Ma questo fenomeno è diffuso anche altrove: nelle Marche dal 1954 al 2007 gli spazi cementificati sono quadruplicati e ogni giorno sono andati distrutti 1,152 ettari di suolo.

Le ragioni di tale distruzione vanno ricercate in fattori soprattutto economici: o i comuni convertono terreni agricoli in terreni edificabili per incassare gli ingenti oneri di urbanizzazione, oppure gli agricoltori installano grandi impianti di energie rinnovabili perché la rendita che questi portano è fino a cinque volte superiore a quella di una comune coltura cerealicola. A tutto ciò si aggiunge anche la costruzione di strade e infrastrutture di vario genere che espandono le città o creano nuclei insediativi lontani dal centro urbano. È il cosiddetto sprawl, la disseminazione abitativa, conseguenza della delocalizzazione dei servizi e dei minori costi di edificazione in aree periferiche.

Inoltre, come sottolinea Bernardino Romano, docente di Urbanistica alla Facoltà di Ingegneria dell’Università dell’Aquila, in Italia manca una politica di coesione spaziale degli insediamenti. La dispersione territoriale produce alti consumi di suolo a causa del reticolo di viabilità necessario a connettere funzioni lontane. Oggi l’Italia conta quasi 200.000 km di rete viaria (ISTAT 2005); considerando il reticolo comunale e rurale questo dato assumerebbe un valore almeno triplo.

L’Italia dell’abusivismo e dei condoni
Il nostro paese è teatro di un’esasperata cementificazione del territorio. Dal 1948 ad oggi sono stati costruiti 453.000 edifici integralmente abusivi: più di venti al giorno. Circa 6 milioni di persone vivono in abitazioni abusive. E questo per quanto riguarda i dati relativi alle infrazioni totali: ci sono poi quelle minori, le soprelevazioni, gli ampliamenti di edifici in origine regolari e i cambiamenti di destinazione d’uso non dichiarati.
Abusivismo è ormai sempre più sinonimo di speculazione e affarismo, e il messaggio che è passato grazie ai tre condoni edilizi approvati negli ultimi ventisette anni è quello che la violazione delle regole urbanistiche non porti tutto sommato alcun rischio.
Come evidenziato dall'urbanista Paolo Berdini, il primo decreto legge in materia venne approvato dal Consiglio dei Ministri del governo Craxi nell’ottobre 1983. Di lì a poco sarà poi bocciato in commissione per vizi di costituzionalità. È però solo questione di tempo: nel marzo del 1985 passa la legge n.47/85, il primo condono edilizio italiano. Le domande di sanatoria presentate quell’anno furono oltre 4 milioni.
A partire dagli anni ’60, interi chilometri di costa di Lazio, Campania, Calabria, Sicilia e Puglia sono stati cancellati da fraudolente interpretazioni delle regole urbanistiche. Le infrazioni realizzate per costruire seconde case andavano a sconfessare già allora la vulgata che voleva gli abusi edilizi figli del bisogno sociale. “Il progresso economico italiano” scrive Berdini nel dossier “era stato infatti impetuoso ed aveva portato ad un diffuso benessere. L’abusivismo di necessità, che aveva rappresentato una risposta illegale ad un bisogno reale di avere una casa, con la diffusione del benessere aveva cessato di esistere.”
Il secondo condono arrivò con il primo governo Berlusconi, nel maggio 1994, inserito all’interno delle misure di “razionalizzazione della finanza pubblica”. Abbandonata ormai definitivamente la giustificazione “sociale”, i sostenitori della nuova sanatoria la dipingevano come necessaria per l’afflusso di denaro extra gettito che avrebbe portato nelle casse dello Stato: una boccata d’ossigeno per il bilancio. Dati alla mano, però, i guadagni si sono rivelati più esigui di quanto immaginato. Nonostante ciò, la motivazione della necessità finanziaria venne utilizzata anche per il terzo condono edilizio, del settembre 2003, approvato anche questa volta sotto un governo Berlusconi.
Condonati gli abusi, quindi, gli scempi edilizi sono rimasti sul territorio senza neanche che le casse dello stato ne giovassero più di tanto. Ma per capire l’inadeguatezza del condono come misura normativa sarebbe bastato guardare i dati della sanatoria del 1985: il numero di domande provenienti dalle città meridionali fu minore di quelle presentate nel nord del paese. Dove la cultura dell’illegalità è maggiormente radicata, in buona sostanza, la possibilità di messa in regola offerta dal condono viene ignorata.
L’ennesima riprova del fallimento delle sanatorie è arrivata poi nel 2008, quando i tecnici degli uffici del Catasto hanno avviato un controllo sistematico di confronto tra le foto satellitari e le mappe catastali. Circa due milioni di edifici non risultavano nelle liste delle costruzioni legittime (regolari o condonate). E sebbene il numero sia approssimativo, e vada probabilmente rivisto al ribasso, rimane comunque un dato preoccupante. Da dove sono sbucate tutte queste costruzioni? Sono in larga parte abusi vecchi e mai dichiarati.

L’impatto ambientale delle infrastrutture previste dalla Legge Obiettivo

Le leggi non aiutano il riordino del territorio. La Legge Obiettivo del 2001, per esempio, secondo gli autori ha rappresentato una brusca inversione di tendenza rispetto ai risultati del dibattito sulla gestione del suolo condotto fino a quel momento e durato due decadi. Nel gennaio di quell’anno infatti il documento ufficiale di riferimento è il Piano Generale dei Trasporti e della Logistica, che recepisce direttive europee e che pone l’accento sulla necessità di un’attenta regolazione del consumo del suolo da parte di grandi opere infrastrutturali pubbliche.

La Legge Obiettivo indebolisce questa prospettiva sostituendo il Piano con un Programma nazionale delle infrastrutture strategiche. Alle opere che vi sono inserite viene riconosciuto un carattere speciale di interesse pubblico tale da scavalcare qualunque considerazione di merito ambientale, fino a prevederne una realizzazione a tappeto. Gli ordinari strumenti di controllo come le Valutazioni di Impatto Ambientale (VIS) e le Valutazioni Ambientali Strategiche (VAS) subiscono infatti un radicale depotenziamento. A differenza di quanto avveniva prima, le analisi di impatto riguardano soltanto la fase di progettazione preliminare, senza alcun controllo rigoroso successivo. 

Si passa così dalle 115 opere per un totale 125,8 miliardi di euro del 2001 alle attuali 390 opere che prevedono una spesa complessiva di 367,4 miliardi di euro. Per farsi un’idea della mole di risorse in gioco, basti pensare che il piano “Salva Italia” del governo Monti presentava un saldo di “appena” 30 miliardi di euro.

Una previsione di spesa che solleva anche le perplessità della Corte dei Conti, che rileva come i mancati studi di fattibilità economica e finanziaria minacciano seriamente la possibilità di effettiva realizzazione delle opere. Si assiste, secondo le parole della stessa Corte, ad un “imbarbarimento della cultura pianificatoria e progettuale”.

Figura: Superficie agricola utilizzata regione per regione.

Le cave

All’espansione urbana può essere attribuito anche a un altro problema del paesaggio italiano: le cave. Difficile fare una valutazione d’insieme, perché non esiste un censimento delle attività estrattive e molto spesso queste sorgono senza autorizzazioni e con fini tutt’altro che legali (discariche abusive, depositi di materiale pericoloso,…). In linea generale, però, si possono distinguere due tipologie di cava: da un lato si trovano i siti di estrazione di pietre ornamentali e marmi, che procedono in modo lento e modellano il paesaggio da secoli. In questa categoria rientrano anche le cave di calcare, che invece distruggono in breve tempo il crinale delle montagne e creano nubi di polvere con problemi non indifferenti anche di tipo sanitario. Dall’altro lato si trovano i siti estrattivi di sabbia, pietrame e pozzolana, meno impattanti dal punto di vista paesaggistico, ma con effetti ambientali evidenti se ubicati all’interno o in prossimità degli alvei fluviali. Nel caso delle cave gli abusi sono frequenti perché l’unica legge quadro nazionale risale al 1927 e tutti i compiti sono demandati alle regioni, con distinzioni nette a seconda dell’amministrazione e della zona. L’unica legge che in teoria dovrebbe limitare l’espansione incontrollata di queste attività è il vincolo paesaggistico (Parte III del Codice dei Beni culturali e del paesaggio, dgls n. 42/2004), che implica ripercussioni penali per i trasgressori. Il potere effettivo di questo strumento è però minimo per l’assenza di mezzi efficaci e di fondi a disposizione degli uffici competenti. L’unica via possibile sarebbe l’applicazione dei P.R.A.E., i “Piani cava” che ogni regione dovrebbe stilare e applicare. Molti di questi sono scaduti da anni, molti, come nel caso del Veneto, sono stati adottati ma mai approvati ufficialmente.

I processi di degrado del suolo 
Un suolo ben strutturato contribuisce a mitigare gli effetti del dissesto idrogeologico, che in Italia dal 1950 al 2009 ha causato oltre 6.300 vittime. Il dossier richiama per questa ragione una politica di gestione e tutela del suolo che ne contrasti i processi di degrado:

compattazione
 ostacola i processi di infiltrazione e favorisce il ruscellamento superficiale; è favorita dall’uso di macchinari sui terreni agricoli.
perdita della sostanza organica. Agricoltura intensiva e deforestazione determinano la perdita di carbonio organico, fondamentale per il mantenimento delle funzioni del suolo e della biodiversità.

salinizzazione 
L’aumento del contenuto naturale di sali compromette l’attività vegetativa e colturale. La salinizzazione è accelerata dalle opere di bonifica che annullano l’effetto tampone delle zone umide.
erosione. La rimozione dello strato superficiale fertile dei suoli ne inibisce la capacità produttiva, e favorisce l’innesco di movimenti franosi, che in Italia interessano circa il 70% dei comuni.

impermeabilizzazione
Coprire i terreni con materiali che ne inibiscono irreversibilmente la funzionalità riduce la capacità d’infiltrazione delle acque, frammenta gli habitat e interrompe i corridoi per le specie selvatiche.

contaminazione diffusa e puntuale
In Italia i siti contaminati di interesse nazionale sono 54 (fonte: Il suolo. Radice della vita); i siti contaminati o potenzialmente contaminati gestiti dalle regioni sono diverse migliaia.

desertificazione
Secondo l’Atlante nazionale delle aree a rischio desertificazione a causa dei processi di degrado del suolo il territorio italiano è a rischio desertificazione.

Per contrastare questi fenomeni è necessaria una strategia europea comune che porti a una Direttiva Suolo coordinata con quelle già vigenti in materia di risorse idriche. L’Italia deve aumentare le conoscenze sull’assetto geologico del territorio per mettere a punto efficaci politiche di mitigazione del rischio idrogeologico e sismico. Lo Stato, le Regioni e le Autorità di Bacino devono inoltre predisporre i Piani di azione per la lotta alla desertificazione

 

Una road map per arrestare il consumo di suolo

A conclusione di questa corposa raccolta di dati, il dossier propone una serie di nuovi spunti in materia di norme a tutela del territorio e auspicano una stagione con al centro le tematiche ambientali. Il Federalismo demaniale, così com’è concepito nei termini attuali, potrebbe costiuire secondo le due associazioni una minaccia per la salvaguardia del patrimonio paesaggistico italiano, poiché frammenta la tutela di beni spesso rilevanti a livello regionale.

Occorre poi pensare a un piano nazionale di urbanizzazione, che incentivi la "ricostruzione sul costruito". Un modo per incentivare la ristrutturazione o la costruzione di edifici che si trovano all'interno della cerchia cittadina è la definizione di politiche di incentivi fiscali in favore delle ricostruzioni e, al contrario, una maggiore tassazione per lo sfruttamento di aree agricole.

L'idea che si vorrebbe spingere è quella delle green belt nate intorno alle aree metropolitane inglesi ma poi diffusesi anche in Germania, Francia e Nord Europa: cinture verdi cingono le città e che per legge devono essere conservate. In questo modo gli spazi urbani rimarrebbero confinati entro una linea chiusa e non dispersa come la "città infinita" del modello padano.

A tutto ciò si aggiungono interventi di tutela attiva di coste e bacini fluviali, interventi sui siti industriali dismessi e l’avvio di una nuova generazione di piani paesaggistici che siano però sottoposti a valutazioni ambientali strategiche efficaci e vincolanti.

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