Quando pensiamo alla biodiversità,
probabilmente la prima immagine che ci attraversa la mente non è un prato
lussureggiante con farfalle, alberi frondosi, scoiattoli e cespugli
brulicanti di vita. Il termine biodiversità infatti nasce nello stesso momento
in cui ci si inizia a preoccupare della sua diminuzione. Quando ne sentiamo
parlare in TV, nessuno ci dice mai “Ma quanta bella biodiversità”: la
biodiversità per noi esiste solo da quando è minacciata.
Per cui alle spalle
del nostro prato in fiore avremo la visione apocalittica del fumo nero di una
ciminiera, ed ecco che colate di cemento devastano il nostro bel paesaggio
traboccante di vita. O magari possiamo immaginare la scena di un uccellino che rimane intrappolato nel catrame.
Insomma, la fugace visione di
qualcosa di bello e indifeso che viene spazzato via dal progresso, un'idea
confusa di inquinamento, e poi la spensierata e salvifica considerazione che
noi non ci possiamo far niente.
Ma è davvero così? La biodiversità è davvero in
pericolo? La colpa è davvero dell'uomo? E se la biodiversità diminuisce, è poi
così grave?
Proviamo a rispondere, almeno in parte, a queste domande, con
l'aiuto di Simone Mereu, studioso di ecologia al Dipartimento di Scienze della
Natura e del Territorio all'Università di Sassari.
Agro-biodiversità e biodiversità naturale
Per biodiversità si intende la
varietà degli esseri viventi che popolano il pianeta. Un concetto molto ampio,
la cui definizione stessa si presta a interpretazioni diverse. Ci interessa
'contare' le specie esistenti? O valutare anche le differenze che si
individuano all'interno di una stessa specie?
“E' importante fare una prima
distinzione” - spiega Simone Mereu - “fra biodiversità naturale e biodiversità in
agricoltura. Sono due mondi completamente diversi: il primo si occupa di
specie, mentre il secondo si occupa di biodiversità intraspecifica. Tanto per
essere chiari, per erosione genetica in agricoltura si intende la perdita di
varietà colturali ma non di specie (possiamo perdere le mele Golden, ma il melo
come specie non corre nessun rischio). Le varietà sono il frutto della
selezione operata dall'uomo per migliorare qualità e quantità del prodotto e la
resistenza della pianta a patogeni, insetti, condizioni ambientali. La
conservazione di queste varietà è importante perché fornisce la materia prima
per nuove varietà con nuove caratteristiche.”
In seguito alla rivoluzione
verde, l'agricoltura di tutto il mondo ha subito grandissimi cambiamenti. La
produzione è aumentata quantitativamente, a scapito di una sempre crescente
omologazione delle colture. Si sono preferite le varietà più resistenti,
economiche e prolifiche su larga scala, dimenticando le moltissime tipologie
diverse che venivano coltivate su scala locale. Davanti a condizioni ambientali
sfavorevoli - un parassita o una cattiva stagione – diventa impossibile
ripristinare le antiche coltivazioni, che avrebbero potuto essere funzionali là
dove quella coltivata non lo è stata.
La biodiversità al di fuori
dell'agricoltura è un concetto diverso.
“Nel mondo naturale”, continua Simone
Mereu, “la biodiversità intraspecifica non viene considerata: si parla di
estinzione e quindi di perdita di specie.” Di questo parleremo nelle pagine che
seguono.
Quanta biodiversità c'è in giro?
La biodiversità rappresenta la misura in cui un habitat si discosta dall'essere uniforme. E' dunque, per sua natura, molto difficile da quantificare. Non sappiamo nemmeno quante specie esistano oggi al mondo. Molte sono state catalogate, ma se ne scoprono continuamente di nuove: il 2 gennaio scorso su Le monde è apparso un articolo intitolato Près de 18 000 espèces découvertes en 2011 che parla proprio di questo. Le difficoltà del censimento sono molteplici. Come fare per sapere quale percentuale di specie sono quelle catalogate rispetto al totale? Non solo: le catalogazioni sono talmente tante e sono state stilate da un numero così grande di persone in tempi e luoghi così diversi, da rendere anche difficile l'individuazione dei doppioni. Davanti a una simile confusione, sembra impossibile che qualcuno possa parlare di perdita di biodiversità: come potrebbe contare tutte le specie?
Il calcolo della biodiversità attuale
non può prescindere da due fattori.
Il primo è spaziale: per analizzare un
fenomeno globale è evidentemente necessario porsi in contesti geograficamente
estesi. Si parla di macroecologia: un mondo dove è impossibile fare
esperimenti. Non si può creare in laboratorio un habitat realistico, etanto
meno intervenire artificialmente su un habitat esistente rischiando di
comprometterne l'equilibrio.
Il secondo fattore è temporale. Come
potremmo renderci conto della gravità della situazione di oggi senza conoscere
le estinzioni di massa del passato?
Il guaio è che si parla in questo caso di
tempi letteralmente geologici, rispetto ai quali la storia dell'uomo è
infinitesimale: l'Homo sapiens appare
nel quaternario, 200.000 anni fa, mentre la vita sulla Terra esiste dall'era
archeozoica, iniziata 3.600 milioni di anni fa. I paleontologi si trovano
davanti a una sfida davvero difficile. La principale fonte di informazioni
sono, naturalmente, i fossili. “Per le piante il 'fossile' può semplicemente
essere polline, e in questo modo si riescono a trovare molte specie”, spiega
Simone Mereu. “A volte è possibile analizzare il DNA, ma nella maggior parte
dei casi si degrada completamente.” Non solo: se trovo il fossile bene, lo
posso datare; ma se non lo trovo? “Calcolare la biodiversità in ere passate è
molto complesso. Tra l'altro anche la biodiversità attuale è solo stimata.”
In effetti anche per determinare quanto le estinzioni di questo periodo storico siano 'normali' si è ricorso a una stima. Disponiamo infatti di alcuni dati utili. In base ai reperti fossili, si può dire che l'aspettativa di vita di ogni singola specie vari in media tra uno e dieci milioni di anni. Tale valutazione è stata fatta su fossili di uccelli e mammiferi, sia perché sono le specie più studiate attualmente, sia perché il loro passaggio sulla Terra è documentato da una maggiore quantità di fossili. Le specie che abbiamo visto estinguersi in epoca recente sono esistite in media per soli 10.000 anni. Da cento a mille volte meno.
L'impatto umano
Nei mesi scorsi il Palazzo delle Esposizioni a Roma ha ospitato la mostra Homo sapiens. La grande storia della diversità umana. “Per la maggior parte della nostra storia non siamo stati soli su questo pianeta”, si legge sul sito dedicato alla mostra. Homo sapiens ha infatti incontrato molti altri Homo nel corso della sua esistenza. Tutti si sono estinti, probabilmente anche in seguito alla competizione con la nostra specie. Eppure quelle estinzioni ci sembrano in qualche modo più 'naturali' delle altre di cui siamo responsabili. Più di tanti altri esempi classici che ci vengono in mente, come il dodo, estintosi nel '600 in seguito alla distruzione del suo habitat da parte dell'uomo, o di tante specie animali le cui estinzioni recenti sono state documentate al ritmo di una all'anno.
Ma l'uomo è davvero la causa della diminuzione della biodiversità? Di certo l'uomo è l'unica specie vivente in grado di influire sull'ambiente al livello planetario. L'impatto umano e le sue conseguenze – prima tra tutte il riscaldamento globale – sembrano già provocare danni.
All'indomani del vertice mondiale di Durban sul riscaldamento globale, la Lipu (Lega Italiana Protezione Uccelli) ha lanciato un allarme. Il congresso ha rimandato al 2015 la firma di un nuovo accordo che limiti le emissioni di gas serra. Se l'innalzamento del riscaldamento globale dovesse proseguire al ritmo attuale, gli uccelli migratori sarebbero costretti a spostarsi centinaia di chilometri verso nord, con grave rischio per la sopravvivenza di molte specie. Già ora infatti gli uccelli arrivano dall'Africa Sub-Sahariana in Europa in anticipo e questo provoca uno sfasamento tra migrazione e riproduzione. Gli uccelli rischiano così di trovarsi senza cibo proprio nel momento della riproduzione.
Un articolo apparso su Science nel novembre scorso spiega il modo in cui l'innalzamento delle temperature abbia costretto cirripedi e mitili che popolano le coste dell'Isola di Vancouver a spostarsi verso acque più fredde, esponendosi così a un habitat popolato dalle stelle marine, che son state ben felici di farne una bella scorpacciata. Alcune specie si sono estinte localmente, offrendo così uno scenario di perdita di biodiversità. Come spiega l'autore dello studio, gli organismi marini offrono molte informazioni sui meccanismi di adattamento perché spesso vivono già in condizioni limite, quindi bastano cambiamenti ambientali relativamente lievi per causare trasformazioni nel loro comportamento.
Insomma, l'ambiente cambia per mano
dell'uomo. Ma queste modifiche sono solo distruttive? Non esiste una specie che
si possa dire nata dalle diverse condizioni ambientali causate dall'impatto
umano? Trovare esempi non è facile.
Ci viene in aiuto ancora Simone Mereu: “Si,
abbiamo osservato la 'nascita' di nuove specie. Il fatto è che la maggior parte
delle volte si tratta di specie a cui prestiamo poca attenzione, come insetti o
muschi. La teoria ci dice che le nuove specie avranno successo se adeguate
all'ambiente in cui vivono. Non sappiamo se questo ambiente è almeno in parte
dovuto alle attività umane. Però, mentre siamo responsabili dell'estinzione di
diverse specie, non diamo origine a nuove specie, semplicemente generiamo un
nuovo ambiente che opererà una selezione diversa da quello che avrebbe operato
un ambiente 'man free'. E' possibile che una nuova specie non abbia successo in
un ambiente modificato dall'uomo, ma è anche possibile che una specie non abbia
successo in un ambiente non modificato dall'uomo. Il bello è proprio qui, è
l'ambiente 'naturale', o antropizzato che sia, a decidere quali specie avranno
successo. Però la velocità con la quale l'uomo sta modificando l'ambiente è
molto alta.”
E' utile essere 'biodiversi'?
Più specie abitano il pianeta, più ampia è la nostra possibilità di trarne risorse. Questo vale in molti contesti diversi: cibo, materie prime, medicine. Il Millennium Ecosystem Assesment commissionato dall'ONU nel 2005 sottolinea l'importanza del valore culturale della biodiversità.
E' risaputo che l'accoppiamento tra consanguinei sia pericoloso: il corredo genetico della prole ne risulta indebolito, perché eventuali punti deboli del DNA, come propensioni a determinate malattie, si troveranno in duplice copia. Un meccanismo simile penalizza i cani di razza, rendendoli fragili; le specie ibride in agricoltura sono invece più resistenti. Nell'estate del 2003, particolarmente calda in Europa, furono le specie più diversificate a resistere meglio. Insomma, avere un corredo genetico 'vario' è un vantaggio.
La biodiversità protegge la nostra salute anche su altri livelli. Oltre a fornire un'inesauribile fonte di principi attivi utilizzabili nei medicinali, una natura veramente diversificata ci difende dalle malattie infettive. Secondo uno studio recente, l'uomo sta andando incontro a una nuova fase epidemiologica, come già avvenne con la rivoluzione industriale. Questa volta tra le cause dell'insorgere di molte nuove malattie c'è proprio la perdita di biodiversità. Un esempio? La malattia di Lyme si trasmette attraverso il morso di una zecca infetta. Finché tra gli ospiti della zecca c'era una vasta gamma di mammiferi differenti, molti dei quali immuni al batterio, la trasmissione della malattia ne risultava rallentata e i casi di malattia di Lyme nell'uomo erano molto rari. Ora che la deforestazione ha decimato il numero dei mammiferi, la probabilità di essere morsi da una zecca infetta è molto aumentata.
Insomma, molti indizi portano a credere che conservare la biodiversità sia importante. Anche se dimostrarlo non è facile. “La conservazione della biodiversità in ambito naturale apre prima di tutto un problema di ordine etico” - osserva Simone Mereu - “mentre il ruolo della biodiversità nella funzionalità degli ecosistemi è un argomento molto dibattuto. La domanda generale che ci si pone è se un ecosistema con una più alta biodiversità è anche in grado di
- fissare più CO2 attraverso la fotosintesi;
- resistere maggiormente a stress naturali, come la siccità;
- avere maggiori capacità di recupero dopo un 'disturbo', per esempio dopo un incendio.”
Di fatto non sappiamo quanto gli ecosistemi possono essere messi alla prova prima di smettere di fornirci quello di cui abbiamo bisogno.
Per correre ai ripari
L'unico approccio al problema della biodiversità in grado di invertire la rotta comporta due livelli di impegno.
Il primo su un piano locale, ad esempio con l'istituzione di aree protette. Purtroppo le iniziative a favore della conservazione della biodiversità sono quasi interamente limitate ai grandi vertebrati, cioè alle specie che più rappresentano gli animali nell'immaginario collettivo. In realtà piante, funghi, invertebrati e batteri vari concorrono al funzionamento di un ecosistema con pari e maggiore dignità di qualsiasi foca monaca minacciata dallo spettro dell'estinzione. Fortunatamente, come ci spiega Simone Mereu, negli ultimi tempi “si è passati dalla salvaguardia di specie alla salvaguardia di siti d'interesse. Per esempio in Europa esistono molte aree SIC (siti d'interesse comunitario) che funzionano abbastanza bene.”
Il secondo intervento è necessario
sul piano globale. Negli ultimi vent'anni il tema della biodiversità e della
sua conservazione è stato oggetto di conferenze al livello mondiale. Nel '92 a
Rio de Janeiro un convegno che ha ospitato rappresentanti di più di cento paesi
ha decretato un impegno collettivo: invertire la rotta della perdita di
biodiversità entro il 2010. Questo non è avvenuto, e nel 2010 si è tenuto a
Nagoya un convegno fotocopia che mira agli stessi obiettivi con deadline 2020.
I fatti sembrano scoraggianti. Eppure qualche risultato c'è: in questi anni
si sono fatti grandi passi avanti nella sensibilizzazione al problema, e
investimenti i cui effetti si dovrebbero vedere solo a lungo termine.
Simone
Mereu è ottimista: “La comunità internazionale fa molto per la biodiversità
naturale. Esistono trattati internazionali che hanno avuto un certo successo.”
Esseri viventi e linguaggi
Una ONG internazionale nata nel '96 , Terralingua, mette in parallelo la biodiversità con la varietà linguistica al livello globale. Sorprendentemente, le aree in cui si osserva una più preoccupante diminuzione della biodiversità sono le stesse in cui le lingue parlate localmente si perdono con maggiore velocità. Si direbbe insomma che la globalizzazione comporti un appiattimento generale della società, della cultura, dell'ambiente e degli habitat. La coesistenza di diversi linguaggi è una metafora molto efficace di biodiversità. I ricercatori di Terralingua parlano di sistemi bioculturali, a suggerire che non ci sia discontinuità tra la varietà biologica e la varietà culturale. Così come non c'è discontinuità tra uomo e natura, essendo l'uomo – che gli piaccia o no – un animale come tutti gli altri.
Bibliografia:
Biodiversity is not (and never has
been) a bed of roses!, G Escarguel, E. Fara, A. Brayard, S. Legendre,
Comptes Rendus Biologies, Volume 334, Issue 5-6, May 2011, Pages 351-359, ISSN 1631-0691.
Why schould we be concerned about
loss of biodiversity, Robert M-May, Comptes rendue Biologies, Volume
334, Issue 5-6, May 2011, Pages 346-350.
Clima e biodiversità: uccelli
migratori a rischio, http://www.lipu.it/news/no.asp?1288