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Anders Breivik: un cervello criminale?

Tempo di lettura: 4 mins

Per Anders Behring Breivik è stato finalmente pronunciato il verdetto di condanna: 21 anni di “carcerazione preventiva”, per la strage compiuta un anno fa in Norvegia.

Il 22 luglio 2011 Breivik fece esplodere una bomba nel centro di Oslo, uccidendo otto persone, e poche ore dopo raggiunse l’isola di Utoya dove sparò contro un gruppo di giovani riuniti per partecipare al campo politico del partito laburista, uccidendone 69. Breivik ha sostenuto con lucida fermezza le ragioni dei suoi crimini, qualificandoli come atti necessari per difendere lo stato contro l’invasione musulmana, il marxismo e il multiculturalismo. Una simile spiegazione, e la freddezza con la quale è stata portata avanti dall’inizio alla fine del processo, hanno indotto gli esperti a ipotizzare una infermità mentale per il killer. L’apparente assenza di sentimenti e di rimorso, la totalizzante ricerca di realizzare un obiettivo preparato per lungo tempo e la gravità delle sue azioni hanno fatto pensare a una grave psicopatia. Qualificare correttamente il suo stato mentale, tuttavia, si è rivelato molto arduo. Analizzato da un gruppo di esperti, Breivik è inizialmente stato giudicato schizofrenico, affetto da psicosi paranoiche. In seguito a indagini più dettagliate e incontri regolari con il killer, un diverso team di psichiatri non ha riscontrato alcun indizio di infermità mentale.

Breivik, dal canto suo, si è sempre dichiarato pienamente capace di intendere e di volere. Questo non solo per fedeltà alla propria ideologia, che una dichiarazione di infermità avrebbe inevitabilmente sminuito, ma anche alla luce della struttura del sistema penale norvegese. Come è stato più volte evidenziato in questi mesi, non senza stupore, il codice norvegese prevede infatti che la pena detentiva massima sia pari a 21 anni, in carceri di massimo confort (nel caso di specie, trattasi di Ila, ex campo nazista, oggi prigione all’avanguardia, dotata di PC e televisione per i detenuti). Nel caso fosse stata riconosciuta la grave infermità mentale, invece, Breivik avrebbe rischiato il confinamento a vita in una struttura di cura psichiatrica, presentando quindi appello contro la sentenza.

In un caso come quello dello spietato killer norvegese possono subentrare molte considerazioni, anche di tipo sociale e politico, nel valutare la pena che gli è infine stata inflitta. I 21 anni di carcere preventivo, con ciò intendendo che, ove fosse riconosciuta la sua pericolosità alla fine della pena, la carcerazione potrebbe essere prolungata per esigenze di protezione sociale, si basano sul fatto che i giudici abbiano ritenuto Breivik conscio di ciò che ha compiuto, con dolo e piena volontà, nonostante siano stati riscontrati “disturbi della personalità” che hanno accompagnato intenti politici e di destabilizzazione della società. 
A molti, però, rimane un forte dubbio sulla psicopatia di Breivik. Una persona che ha caratteristiche tali da essere emotivamente del tutto distaccato rispetto alle sue azioni, che persegue un obiettivo senza preoccuparsi delle conseguenze, che non si pente, si può riabilitare? Come andrebbe trattato dalla legge? Un recente studio dell’Università dello Utah effettuato su un campione di corti americani, e pubblicato su Science pochi giorni fa, mostra come i giudici, quando posti di fronte a spiegazioni scientifiche in merito alla psicopatia degli imputati, tendano a ridurre la pena. Ciò accadrebbe in quanto portati a pensare che la scelta di compiere il delitto non sia stata pienamente consapevole. Quando la condizione di psicopatia non viene avvalorata da dettagliate perizie, tuttavia, la pena viene aumentata, enfatizzando la pericolosità sociale di tali individui.

In un futuro non troppo lontano, si prospetta anche la possibilità di indagare i meccanismi e la morfologia del cervello dei presunti psicopatici con l’ausilio delle tecniche neuroscientifiche. Già molti studi sono in corso in questo senso e la difficoltà di riconoscere tali casi con le tradizionali metodologie psichiatriche fa immaginare che nuove tecnologie saranno ben accette dalla comunità scientifica e giuridica. Alla domanda “come trattare queste persone”, tuttavia, la risposta resta molto complessa. Dalle pagine del Corriere della Sera, Umberto Veronesi si schiera a favore di una pena detentiva comunque limitata negli anni per rispettare il nostro principio costituzionale di rieducazione del condannato (articolo 27), che parrebbe avere anche un riscontro nella scienza: le ultime ricerche dimostrano che il cervello è plastico, in quanto le sinapsi si rinnovano nel tempo e le cellule staminali cerebrali consentono la rinnovazione del nostro cervello. Dopo 21 anni di carcere, dunque, il cervello di Breivik non sarebbe più quello di oggi e un percorso riabilitativo potrebbe avere una valida efficacia.

Il dibattito rimane aperto, ma questa volta non coinvolge solo esperti di diritto penale, ma anche scienziati e, con l’avanzare degli studi sul cervello, si può immaginare che questi ultimi saranno un interlocutore sempre più presente.

 

Letture di approfondimento: 

L. G. Aspinwall, T. R. Brown, J. Tabery. The Double-Edged Sword: Does Biomechanism Increase or Decrease Judges' Sentencing of Psychopaths? Science, 2012; 337 (6096): 846 DOI: 10.1126/science.1219569 

P. Beaumont, Anders Behring Breivik: profile of a mass murderer 


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