I territori industriali in abbandono hanno goduto molto spesso di un'immagine negativa. Erano associati a luoghi di sofferenza, dove si lavorava in condizioni pietose. Luoghi inquinati, segnati negativamente dal loro carattere di marginalità urbana e sociale, molto spesso animati solo dal degrado urbano. Quando un’ attività industriale cessa non lascia solo un vuoto fisico, continua a occupare territorio, continua a inquinarlo con i suoi residui. Per molto tempo si è ritenuto che la soluzione migliore per queste aree fosse la bonifica, che facesse tabula rasa, cancellando però testimonianze cariche di storia, che valevano la pena di essere conservate. Patrimonio industriale e bonifica non vanno a braccetto, ma ci sono dei casi in cui è stato possibile conciliare queste due esigenze, non con compromessi al ribasso ma bensì trovando soluzioni che rappresentano la forma migliore, più promettente di valorizzazione dell’ambiente e del patrimonio insieme.
Il riuso delle aree industriali in Europa è cominciato negli anni ‘60 con le prime avvisaglie di deindustrializzazione, adottando tre tipologie di intervento: il rinnovo, la rivitalizzazione, il recupero. Solo però a partire dalla metà degli anni ‘80, il patrimonio industriale viene riconosciuto come tale, ossia le testimonianze delle attività produttive assumono una valenza culturale che vale la pena conservare e promuovere. Le aree industriali dismesse inoltre sono in genere già servite dalle principali opere di urbanizzazione e sono spesso collocate in prossimità di impianti ferroviari o di tratte importanti della rete stradale che ne possono determinare una buona accessibilità, pertanto la restituzione di queste aree alla città può costituire un’occasione importante per il ridisegno del tessuto urbano locale. In molti casi, la riqualificazioni di molti luoghi è stata possibile grazie ai fondi regionali per lo sviluppo europeo, che oggi non ci sono più, che la Ue aveva destinato a città che avevano sofferto gli effetti del declino industriale.
Uno degli esempi più clamorosi, dove l’archeologia industriale è stata riusata per trasformare grandi aziende dismesse, in luoghi di aggregazione e di scambi culturali, è sicuramente quello del bacino della Ruhr. Situato nella Renania settentrionale, è stato uno dei più grandi centri urbano-industriali d’ Europa. Quest’area era stata il motore del miracolo economico tedesco, tanto da divenire, dopo la Prima guerra mondiale, la “cauzione” dei debiti economici della disfatta tedesca, ma quando negli anni Settanta con la crisi del carbone l’attività di estrazione è stata progressivamente abbandonata, e anche gli altri settori a essa collegati sono stati fortemente ridimensionati, nel bacino della Ruhr si è registrata la più alta percentuale di superfici industriali e minerarie dismesse nella Germania dell’Est. Nella terra abituata all'orgoglio dei primati (la ciminiera più alta, la miniera più profonda, l'acciaieria più specializzata) si faceva strada l'alcolismo, la droga, la depressione. Negli anni Ottanta, è stato elaborato però un programma di rivitalizzazione del bacino carbonifero della Ruhr, che è stato integrato ad altri importanti interventi relativi sia al settore della pianificazione ambientale sia a quello della programmazione economica. Nel giro di due decenni, fonderie, miniere e acciaierie si sono trasformate. Il cuore industriale della Germania e dell’Europa, meta di milioni di immigrati, è diventata una metropoli policentrica. I 200 ettari di superfice sono stati trasformati in un parco multifunzionale che rappresenta la combinazione di patrimonio industriale e culturale. La trasformazione ha prodotto 10.000 nuovi posti di lavoro, recuperato 1.000 monumenti industriali, fatto nascere 120 teatri.
Un'altra area industriale depressa, che ha rinnovato la sua immagine è Manchester. La città britannica si è reinventata come manifesto postindustriale dell’ Inghilterra settentrionale. La zona di Castelfield, in particolare, aveva una rete di canali che permettevano il trasporto delle merci prodotte. Proprio lungo questo intrico di canali che si sono avute le maggiori trasformazioni: tutta la zona si è riconvertita nel nuovo palcoscenico della vita urbana. E’ sorto un campus universitario dove vivono 5.500 studenti, un importante sala concerti e numerosi musei. L'area portuale è stata completamente trasformata nel Lowry, un imponente complesso per il divertimento, punto d'incontro per i residenti. Quelli che erano i motori instancabili della civiltà urbana, le fabbriche, i magazzini, i porti, sono diventati i cuori vibranti della cultura, del divertimento, tanto che nel tessuto urbano non si distingue più fra le aree storicamente residenziali e quelle un tempo industriali. Quando la scala diventa ancora più grande e si passa al recupero di intere città, bisogna guardare ancora più a nord in Europa. Città come Norrköpping e Tampere, sono risorte dalle polveri nere da cui erano ricoperte. Inoltre Tampere rappresenta un bellissimo esempio di come pubblico e privato possono interagire e creare nuovi modelli di governance. Ma non c’è bisogno di andare così lontano per cercare modelli di riqualificazione industriale, c’è ne sono tanti anche vicini al nostro Paese, basti pensare a Bilbao, che dalle acque inquinate del fiume Nervion ha saputo riemergere, diventando uno dei motori dell'economia spagnola con tassi di sviluppo attorno al 6% annuo. Il museo Guggenheim, nato nel 1997, ogni anno attira milioni di visitatori e sulla stessa lunghezza d’onda della città basca sta basando la sua rinascita anche Metz.
E in Italia? Dai dati Istat, risulta che il 3% dell’intero territorio italiano è occupato da aree industriali dismesse. Quasi tutte hanno problemi di inquinamento, con rischio per la salute da non sottovalutare. Gli esempi di ristrutturazione di successo in Italia non mancano, eppure fatichiamo a trovare opere rivoluzionarie che somiglino alle esperienze estere. A Torino teatri, videoteche hanno riempito il vuoto lasciato da fabbriche di tram, distillerie e stabilimenti delle Officine Grandi Magazzini. Gli edifici Pirelli a Milano, oggi ospitano l’Università Bicocca. Musei sono sorti nelle ex miniere di zolfo di Perticara Nuovafeltria. Sono ancora però episodi rari, si preferisce utilizzare ancora quel poco di territorio libero che è rimasto nel nostro Paese, piuttosto che rivalutare zone che sono importanti anche perché raccontano la nostra storia. Oltre a questi pochi casi ci sono purtroppo anche storie di fallimento, come quella di Bagnoli. E’ stata la più grande industria siderurgica del mezzogiorno, ospitando fabbriche come l’Ilva, l’industria chimica dell’ Eternit e fabbriche per la lavorazione di coloranti. Nel 1985, in questo posto lavoravano circa 16 mila persone, ma solo 5 anni dopo l’altoforno viene spento, con l’ultimo pezzo di acciaio incandescente gli operai dell’ Italsider ci fecero il caffè. Al posto della fabbrica che inquina, però dovevano sorgere parchi, poli museali e arrivare posti di lavoro legati al turismo, ma a vent’anni di distanza al posto delle ciminiere buttate giù non sono sorti studios televisivi, ma nei 2 milioni di metri quadrati sono rimaste solo le sostanze pericolose come amianto e metalli pesanti. Ma in questo deserto, c’è una piccola oasi di speranza che è rappresentata dalla Città della Scienza, museo scientifico all’avanguardia, in cui la sua comunità dal 1993, vive e lavora in una vecchia fabbrica chimica. Creata dal fisico Vittorio Silvestrini, è il primo esempio di riconversione perfettamente riuscita, e ospita il più grande e innovativo museo hands on d’Italia, uno dei più grandi e innovativi musei interattivi d’Europa. Il nostro Paese forse deve avare il coraggio, soprattutto attraverso nuove leggi, di trasformare questi fantasmi che si portano dietro l’odioso prefisso di “ex” in splendide realtà di rilancio economico e sociale.