fbpx Mappata la migrazione globale | Scienza in rete

Mappata la migrazione globale

Read time: 3 mins

La geografia della ricerca sta mutando in modo radicale. L’ultimo numero speciale di Nature fa il punto su come e dove si stiano spostando i punti di riferimento internazionale della scienza. Se prima si guardava a Francia, Germana, Regno Unito e Stati Uniti, a farla da padrone nello scacchiere della ricerca oggi sono, invece la Cina, l’India, il Brasile, il Sud Corea.

Gli studi proposti fanno parte del sondaggio GlobSci, che ha coperto quattro aree principali di ricerca (chimica, scienza dei materiali, biologia e scienze della Terra) intervistando circa 20.000 ricercatori in 16 Paesi, monitorano i flussi in entrata e in uscita e integrandoli con le dichiarazioni circa le aspettative di carriera. Sebbene ci siano evidenze di un’inversione di tendenza, il panorama è molto variegato. La rivista esamina il nuovo flusso migratorio attraverso strumenti grafici, mostrando le mappe di questa migrazione. E’ la Svizzera a risultare al primo posto tra i Paesi attualmente ospitanti, portando in fanalino di coda India e Italia. Nel valutare però quale sia il Paese che si immagina possa diventare nel 2020 il più avanzato nel proprio settore di appartenenza, di qui al 2020, sono Cina e India a fare un balzo in avanti significativo (dal 12 al 59% a fronte di un calo a picco di Stati Uniti dall’86 al 36%). 

Il parametro principale considerato è la presenza di finanziamenti utili e di facilities per la ricerca, facendo perdere così il primato a Stati Uniti e Gran Bretagna (i primi Paesi ad adottare una politica di apertura nei confronti dei ricercatori). Chiara Fanzoni del Politecnico di Milano, ha condotto un’analisi sui dati del GlobSci verificando che in effetti sono sempre le prospettive di carriera a determinare la scelta di partire, influenzando principalmente i post-doc, piuttosto che i professsori. Questo è confermato dai dati di Nature: meno del 10% dei dottorati si dichiara disposto a restare a casa. La mutazione sembra in continua evoluzione, e ogni Paese ha caratteristiche di mobilità differenti. “Quello che rende questo monitoraggio frustrante - dichiara Paula Stephan, ricercatrice in scienze economiche alla George State University di Atlanta - è che abbiamo raccolto molti piccoli studi su particolari gruppi di scienziati, ma non c’è ancora una banca dati mondiale di riferimento”.

Il campione di ricercatori presi in esame appartiene in gran parte al bacino Europeo e Statunitense. E, infatti, nonostante ci sia l’evidenza di dove si collocherà a breve la futura mecca della ricerca, è per ragioni legate a una cultura più occidentale che non è così diffusa l’intenzione di scegliere subito i paesi asiatici. Dove, però, continuano a crescere le collaborazioni internazionali. Questo è il frutto di una precisa scelta politica, fatta nell’ultimo decennio ad esempio da Singapore, che gode dei frutti del programma di accoglienza degli studenti dal sudest asiatico. Secondo Jonathan Adams, direttore del centro di valutazione della ricerca di Thomson Reuters, per cogliere e vincere questa sfida, l’occidente deve esportare in modo ‘temporaneo’ le sue forze intellettuali, e non ignorare questa nuova realtà.

Autori: 
Sezioni: 
Ricerca

prossimo articolo

La COP sei tu, economia

Il presidente della COP 29 di Baku, Mukhtar Babayev, chiude i lavori con applausi più di sollievo che di entusiasmo. Per fortuna è finita. Il tradizionale tour de force che come d'abitudine è terminato in ritardo, disegna un compromesso che scontenta molti. Promette 300 miliardi di dollari all'anno per aiutare i paesi in via di sviluppo ad affrontare la transizione, rimandando al 2035 la "promessa" di 1.300 miliardi annui richiesti. Passi avanti si sono fatti sull'articolo 6 dell'Accordo di Parigi, che regola il mercato del carbonio, e sul tema della trasparenza. Quella di Baku si conferma come la COP della finanza. Che ha comunque un ruolo importante da giocare, come spiega un report di cui parla questo articolo.

La COP 29 di Baku si è chiusa un giorno in ritardo con un testo variamente criticato, soprattutto dai paesi in via di sviluppo ed emergenti che hanno poca responsabilità ma molti danni derivanti dai cambiamenti climatici in corso. Qualche decina di paesi, fra i quali le piccole isole, saranno inabitabili se non definitivamente sott’acqua se non si rimetteranno i limiti posti dall’Accordo di Parigi del 2015, cioè fermare il riscaldamento “ben sotto i 2°C, possibilmente. 1,5°C”, obiettivo possibile uscendo il più rapidamente possibile dalle fonti fossili.