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Mappata la migrazione globale

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La geografia della ricerca sta mutando in modo radicale. L’ultimo numero speciale di Nature fa il punto su come e dove si stiano spostando i punti di riferimento internazionali della scienza. Se prima si guardava a Francia, Germana, Regno Unito e Stati Uniti, a farla da padrone nello scacchiere della ricerca oggi sono, invece la Cina, l’India, il Brasile, il Sud Corea.

Gli studi proposti fanno parte del sondaggio GlobSci, che ha coperto quattro aree principali di ricerca (chimica, scienza dei materiali, biologia e scienze della Terra) intervistando circa 20.000 ricercatori in 16 Paesi, monitorando i flussi in entrata e in uscita e integrandoli con le dichiarazioni sulle aspettative di carriera. Sebbene ci siano evidenze di un’inversione di tendenza, il panorama è molto variegato. La rivista esamina il nuovo flusso migratorio attraverso strumenti grafici, mostrando le mappe di questa migrazione. E’ la Svizzera a risultare al primo posto tra i Paesi attualmente ospitanti, portando in fanalino di coda India e Italia. Nel valutare però quale sia il Paese che si immagina possa diventare nel 2020 il più avanzato nel proprio settore di appartenenza, di qui al 2020, sono Cina e India a fare un balzo in avanti significativo (dal 12 al 59% a fronte di un calo a picco di Stati Uniti dall’86 al 36%). 

Il parametro principale considerato è la presenza di finanziamenti utili e di facilities per la ricerca, facendo perdere così il primato a Stati Uniti e Gran Bretagna (i primi Paesi ad adottare una politica di apertura nei confronti dei ricercatori). Chiara Fanzoni del Politecnico di Milano, ha condotto un’analisi sui dati del GlobSci verificando che in effetti sono sempre le prospettive di carriera a determinare la scelta di partire, influenzando principalmente i post-doc, piuttosto che i professsori. Questo è confermato dai dati di Nature: meno del 10% dei dottorati si dichiara disposto a restare a casa. La mutazione sembra in continua evoluzione, e ogni Paese ha caratteristiche di mobilità differenti. “Quello che rende questo monitoraggio frustrante - dichiara Paula Stephan, ricercatrice in scienze economiche alla George State University di Atlanta - è che abbiamo raccolto molti piccoli studi su particolari gruppi di scienziati, ma non c’è ancora una banca dati mondiale di riferimento”.

Il campione di ricercatori presi in esame appartiene in gran parte al bacino Europeo e Statunitense. E, infatti, nonostante ci sia l’evidenza di dove si collocherà a breve la futura mecca della ricerca, è per ragioni legate a una cultura più occidentale che non è così diffusa l’intenzione di scegliere subito i paesi asiatici. Dove, però, continuano a crescere le collaborazioni internazionali. Questo è il frutto di una precisa scelta politica, fatta nell’ultimo decennio ad esempio da Singapore, che gode dei frutti del programma di accoglienza degli studenti dal sudest asiatico. Secondo Jonathan Adams, direttore del centro di valutazione della ricerca di Thomson Reuters, per cogliere e vincere questa sfida, l’occidente deve esportare in modo ‘temporaneo’ le sue forze intellettuali, e non ignorare questa nuova realtà.

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La produzione di formaggio è tradizionalmente legata all’allevamento bovino, ma l’uso di batteri geneticamente modificati per produrre caglio ha ridotto in modo significativo la necessità di sacrificare vitelli. Le mucche, però, devono comunque essere ingravidate per la produzione di latte, con conseguente nascita dei vitelli: come si può ovviare? Una risposta è il latte "sintetico" (non propriamente coltivato), che, al di là dei vantaggi etici, ha anche un minor costo ambientale.

Per fare il formaggio ci vuole il latte (e il caglio). Per fare sia il latte che il caglio servono le vacche (e i vitelli). Cioè ci vuole una vitella di razza lattifera, allevata fino a raggiungere l’età riproduttiva, inseminata artificialmente appena possibile con il seme di un toro selezionato e successivamente “forzata”, cioè con periodi brevissimi tra una gravidanza e la successiva e tra una lattazione e l’altra, in modo da produrre più latte possibile per il maggior tempo possibile nell’arco dell’anno.