La sentenza dell’Aquila che ha condannato a 6 anni di carcere i componenti della Commissione Grandi Rischi attiva ai tempi del terremoto del 2009 sta avendo una grande eco, anche internazionale. In attesa di conoscerne le motivazioni – che sono previste per legge (lo diciamo a beneficio dell’editorialista di Nature che chiede perentoriamente al giudice di consegnarle) – e di esprimere giudizi ponderati nel merito, conviene capire cosa dicono di noi all’estero coloro che sono abbastanza informati sulla vicenda, essendo naturalmente più distaccati. Per poi trarre una prima, provvisoria lezione.
Vi proponiamo tre giudizi molto pertinenti, senza alcuna pretesa di completezza. Anzi, con un’ostentata scelta soggettiva.
Il primo rimanda all’editoriale che l’americano David Ropelk, esperto di comunicazione del rischio, ha scritto per lo Scientific American, considerato – non a torto – la più prestigioso rivista di divulgazione della scienza al mondo. Il pensiero di Ropelk è chiaro fin dal titolo: The L’Aquila Verdict: a Judgment Not against Science, but against a Failure of Science Communication. Sbaglia, sostiene Ropelk, l’American Association for tha Advancement of Science – la prestigiosa associazione degli scienziati americani che, tra l’altro, pubblica la rivista Science – a condannare il verdetto perché i giudici non hanno capito la scienza che c’è dietro la probabilità che si verifichi un terremoto. La tesi dello studioso americano è che, contrariamente a quanto afferma la maggioranza dei servizi giornalistici, la sentenza non è affatto un pugno nei denti della comunità scientifica. Chiamate in giudizio e condannate a L’Aquila non sono né la scienza, né la sismologia, né l’abilità degli scienziati a predire un terremoto, ma la capacità o l’incapacità (a torto o a ragione, è da vedere anche in base alle motivazioni della sentenza emessa) di sei scienziati e di un funzionario pubblico a comunicare il rischio.
Il punto non è se la Commissione Grandi Rischi tra marzo e aprile del 2009 ha fatto buona o cattiva scienza. Il punto è se ha fatto buona o cattiva comunicazione del rischio.
Un altro punto di vista interessante è quello che l’inglese David Spiegelhalter, statistico di formazione e Winton professor of public understanding of risk presso l’Università di Cambridge, ha consegnato a Gaetano Prisciantelli in un’intervista che è possibile ascoltare sul sito di Radio3Scienza. Anche Spiegelhalter sostiene che la sentanza non riguarda la scienza dei sismi ma la comunicazione dell’incertezza. Ma quello che è importante è la lezione che il matematico inglese esperto di comunicazione del rischio ne trae: se gli scienziati voglio continuare ad avere un rapporto con la società (rapporto dal quale è impossibile ritrarsi, nota umilmente il vostro redattore) devono prestare molta più attenzione all’impatto che può avere ciò che dicono. «Devono scegliere e misurare le parole con estrema cura quando rilasciano dichiarazioni al pubblico. Devono pensare a fondo la loro strategia di comunicazione del rischio. Penso che ciò non sia stato fatto all’Aquila».
Un terzo punto di vista è quello di un altro americano, il sismologo Thomas Jordan, direttore del Southern California Earthquake Center presso il Dipartimento di Scienze della Terra della University of Southern California. Jordan, sia detto per inciso, giudica inaccettabile la sentenza. Ma, in un’intervista concessa sempre a Gaetano Prisciantelli, sostiene: «Mi è stato chiesto dal governo italiano di presiedere una commissione internazionale d’indagine su ciò che è avvenuto durante il terremoto dell’Aquila e di proporre alcune raccomandazioni per migliorare il sistema di comunicazione del rischio. Ci siamo riuniti la prima volta un mese dopo il terremoto (del 6 aprile, n.d.r.). A ottobre del 2009 abbiamo consegnato al governo un set di raccomandazioni su come migliorare la comunicazione del rischio in simili situazioni».
Domanda di Prisciantelli: pensa che l’Italia ne abbia tenuto conto? Risposta: «A mia conoscenza, le nostre raccomandazioni non sono state implementate dal Dipartimento di Protezione Civile».
Questi tre punti di vista sono davvero illuminanti. E ci insegnano tre cose.
Primo: non possiamo prescindere dai fatti. E i fatti sono che essere chiamata alla sbarra all’Aquila, a torto o a ragione, non è stata la scienza ma la comunicazione della Commissione Grandi Rischi. Che malgrado tutto in Italia, dopo la disastrosa gestione dell’emergenza terremoto in Irpinia nel 1980, è stato istituito un ottimo sistema di Protezione Civile. Che questo sistema ha funzionato benissimo in molte occasioni (sebbene di recente, durante la gestione Bertolaso, la Protezione Civile sia stata utilizzata male e per compiti impropri). Ma che mai si è dotata di una struttura di comunicazione del rischio sul tipo di quella indicata da Spiegelhalter e da Jordan. Una struttura capace di fare tre cose: comunicare efficacemente il rischio durante l’emergenza; formare tecnici e scienziati alla comunicazione del rischio in modo che “sappiano misurare attentamente le parole quando fanno dichiarazioni pubbliche” e, più in generale, capaci si avere un rapporto buono e imprescindibile con i cittadini non esperti nel rispetto dei ruoli; fare ricerca scientifica sulla comunicazione del rischio, perché essa è un fattore decisivo nella gestione di un’emergenza.
Tutto questo si fa in gran Bretagna o negli Stati Uniti o in Giappone. Non si fa, ancora, in Italia. E le conseguenze sono, ora, sotto gli occhi di tutti.